Il primo provvedimento del Guercio, prima ancora di seppellire i morti e di finire i sofferenti come si fa con i cavalli moribondi, fu di far chiudere di nuovo i portoni per evitare che la curiosità spingesse dentro le mura altri soldati. Molti di quelli che erano entrati erano impazziti, alcuni cadevano a terra in convulsioni epilettiche, altri piangevano copiosamente e non riuscivano ad articolare le parole, altri ancora erano scappati da soli dall'accampamento verso qualsiasi posto che fosse lontano da quel marciume a cielo aperto. Ma ciò che più mi ha colpito, io che felicemente ero ancora troppo piccolo per comprendere la dimensione della tragedia, fu vedere il mio capitano, Gerolamo da Brno, singhiozzare per quattro giorni e quattro notti, rintanato in fondo alla sua tenda, rifiutando il cibo che gli portavo e nascondendo il suo viso con le mani perché non vi leggessi l'orrore e la vergogna.
Dopo aver atteso una settimana, senza nessun segno delle truppe del barone, Zizka cominciò a preparare la ritirata, prima che gli umori di Malesov seminassero la peste a la sedizione tra le sue truppe. Preparò una mappa con il punto in cui il suo esercito avrebbe dovuto incontrarsi di nuovo con quello di Procopio e scelse due cavalieri per portare il messaggio a Skalik. Avrebbero dovuto essere di ritorno con la risposta dell'amico al massimo in tre giorni.
I due uomini, per guadagnare tempo, tracciarono un percorso in linea retta che passava per una valle al sud, costeggiando il fiume, e attraversava parte della foresta. Seguendo questo percorso in meno di un giorno e mezzo di galoppo sarebbero arrivati a Skalik. Ma passarono cinque giorni e i cavalieri non erano ancora ritornati a Malesov. Zizka aspettò un giorno in più prima di concludere che i suoi messaggeri erano stati catturati e trucidati dal barone nei sentieri della foresta. Nel frattempo lo stato d'animo delle nostre truppe si era ancor più deteriorato e cinque dei nostri uomini, che erano stati colti in flagranza di sevizie alle pazze sconvolte, erano stati decapitati davanti a tutti per ordine del generale, come esempio. Zizka sapeva che era necessario andarsene da quel posto il più in fretta possibile prima che il nostro esercito di uomini puri e pieni di fede si trasformasse in un immenso covo di serpenti.
Il generale scelse un nuovo messaggero e gli affidò una nuova mappa, ordinandogli di seguire una strada più lunga, salendo la montagna e aggirando la valle, evitando di passare vicino alla foresta. Gli ordinò anche di non ritornare a Malesov, ma di andare direttamente nel punto segnato nella mappa e di aspettare là le prime truppe che fossero arrivate, le sue o quelle di Procopio. Seguendo quel nuovo percorso il viaggio del messaggero sarebbe durato non meno di quattro giorni, e Zizka sapeva che non poteva mettere subito in marcia il nostro esercito. Nel caso avessimo incontrato a metà strada le truppe del barone, non eravamo in condizione di combattere. La depressione e la malinconia si erano fatte largo fra di noi, soldati e ufficiali, non solo per lo sgomento di quanto avevamo visto, ma perché tutti noi ci sentivamo macchiati e colpevoli di quegli orrori, dato che è risaputo che ciò che l'occhio dell'uomo vede entra a far parte dell'uomo stesso. Il tronco della fede era stato scosso e le sue radici erano scoperte. Il sentimento di impotenza che ci contagiava, se non fosse stato cancellato, ci avrebbe trasformato in prede facili e apatiche per qualsiasi attacco del nemico, anche se molto inferiore in armi ed effettivi.
Zizka diede quindi inizio, la notte stessa, ai rituali di penitenza. La predisposizione degli eretici per l'autoflagellazione era tale che al generale bastò suggerire al suo luogotenente l'opportunità delle pratiche di purificazione perché tutti lì si spogliassero immediatamente e formassero lunghe file in processione. Noi camminavamo in cerchi concentrici e ci flagellavamo le spalle con energia, mentre intonavamo gli inni Taboriti. Alcuni seguivano la processione in ginocchio, lasciando una scia di sangue dietro di loro, altri vi partecipavano portando sulla testa degli immensi pietroni. Un giovane soldato moravo, mio collega di truppa, riuscì con il nostro aiuto a farsi crocifiggere, copiando in tutti i dettagli il supplizio del Signore, e si fece un punto d'onore il rimanere inchiodato alla croce fino al tramonto del giorno seguente. Quando finalmente fu deposto, il ragazzo era già agonizzante. Com'era da aspettarsi, non sopravvisse alla sua espiazione e nemmeno resuscitò come il suo esempio.
Il terzo giorno, che coincise con una domenica, fu un giorno di sollievo e di riposo. I soldati pregavano a bassa voce e lenivano le ferite dei loro commilitoni. Alcuni, o perché troppo debilitati o perché finalmente rasserenati, entravano in un estasi religiosa e descrivevano visioni magnifiche, conversavano con gli angeli e bevevano dal calice di Cristo sulla tavola della Santa Mensa. Anche Zizka sembrava più sollevato. Sapeva che avrebbe potuto comandare subito il "levate le tende" e procedere senza grandi rischio verso l'incontro con il suo amato Procopio o con il mostro collerico. Le lacrime, il dolore fisico e alcune gocce di sangue avevano fatto per noi ciò che non avrebbero fatto mille messe.

Il punto di incontro scelto da Zizka era un'ampia pianura ai piedi delle montagne, più vicino a Skalik che a Malesov. Il popolo di Procopio, il Grande, arrivò per primo e subito innalzò lo stendardo del Santo Graal e piantò le sue tende. Noi arrivammo il giorno dopo e occupammo il lato opposto della pianura, per rimanere più vicini al fiume.
I due generali, quando si incontrarono, si abbracciarono lungamente e salirono insieme su un carro pesante, da dove, le lacrime agli occhi, presentarono le loro armi alla moltitudine esultante. Ancora abbracciati intonarono insieme alle truppe l'inno: "Noi che siamo i soldati di Dio...", poi discesero dal carro e si diressero, per confabulare e raccontarsi le loro esperienze, verso una grande tenda illuminata da un braciere centrale che proiettava le sue ombre ingigantite sulle pareti di tessuto.
La riunione dei due capi durò tutta la notte, fino all'alba. Dal di fuori, formando un grande cerchio, gli eretici che avevano servito ognuno dei due generali, seguivano il colloquio attraverso il teatro di ombre in cui si era trasformata la tenda principale. Durante la prima ora i due amici bevevano seduti e ascoltavano attentamente l'uno le parole dell'altro. Lentamente una eccitazione si impossessò dei due uomini. Procopio fu il primo ad alzarsi e camminava nervosamente da un lato all'altro della tenda, stropicciando il suo cappello con le mani, a testa bassa, e ogni tanto si accucciava vicino a Zizka, che ancora seduto gesticolava molto, si asciugava con la mano il sudore della fronte e agitava il suo bastone per sottolineare questo o quell'argomento. Così, la conversazione si trascinò per ore, e i pochi soldati che, come me, erano ancora svegli quando le prime luci del giorno spuntarono all'orizzonte poterono vedere l'ombra di Ziska, furiosa, fare a pezzi la brocca del vino con un colpo di bastone, mentre Procopio sbatteva per terra il suo cappello e usciva dalla tenda ad ampi passi, il viso in fiamme.
Ciò che era successo là dentro, ed io l'ho saputo solo dopo, fu che, dopo aver descritto nei dettagli il modo di vita soave e perfettamente cristiano degli abitanti di Skalik, Procopio aveva proposto al Guercio che i Taboriti si dirigessero tutti insieme verso la città-paradiso e, insieme a Jan, la Fornace della Fede, costruissero una civiltà edenica, facendo venire dalla Boemia i loro ultimi parenti, convertendoli all'adamismo e fondando quella che lui chiamò a volte "La Nazione Celeste", e a volte "La Dimora del Calice". Questa sua proposta rifletteva non solo il suo pensiero ma ciò che vi era di più profondo nello spirito dei suoi uomini.

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