Zizka ordinò che la mattina dopo i carri pesanti si preparassero per l'attacco, protetti davanti e sui fianchi dalla fanteria. Poi dispose che le truppe riposassero, si coprì con una pelle di montone e rimase ancora per molto tempo in cima alla collina, ad osservare i bagliori lontani, come se fossero una costellazione di stelle vermiglie. Con un tono di voce basso e il viso immobile e contratto lo sentì dire a Gerolamo, o forse a se stesso: "Il barone non può aver mandato nella foresta tutte le donne e bambini, ma solo gli uomini in grado di combattere. Non sarà che questo incendio sia solo un'esca per ingannare le nostre truppe? I nemici potrebbero benissimo essere trincerati a Malesov ad aspettarci..."
Quella notte il generale non dormì. Era assalito da uno strano presagio. Non che ci fosse qualche rischio reale di una sconfitta militare. Le nostre truppe, anche se dimezzate dalle divisioni dirette a Skalik, erano molto più numerose, e il nostro morale non poteva essere più alto. Eravamo tutti ansiosi di catturare il barone e di infliggergli il meritato castigo. Molte storie su di lui erano corse di bocca in bocca, e si potrebbe quasi dire che, almeno per i Taboriti, Paumgartner si era trasformato in una specie di leggenda del male. Fino a che punto fossero vere le voci delle sue atrocità sarebbe impossibile dirlo, ma alcuni casi erano noti in tutto il Sacro Romano Impero, come il fatto che il barone avesse strangolato il suo unico figlio con le sue stesse mani, dopo averlo lasciato languire di fame e di freddo in una umida cella, perché si era rifiutato di cedere la sua giovane moglie, la notte delle nozze, alla precedenza del padre, che accampava il diritto di deflorare tutte le vergini che gli andassero a genio. No, il presagio del generale non aveva niente a che vedere con i combattimenti, ma con quella strana città a poche leghe da lì, come se nei suoi dintorni l'aria fosse già impregnata di effluvi ombrosi e pestilenziali che mettevano in fugga gli uccelli, le lepri e i cervi, facendo calare un silenzio che trasformava la notte stessa in una segreta dimenticata.
Due ore dopo l'alba i nostri carri pesanti circondavano già le mura di Malesov senza aver incontrato nessuna resistenza. Ma la città non era deserta. Da fuori potevamo sentire un coro disperato di gemiti, ululati e terribili lamenti, voci incomprensibili di donne isteriche, grida lancinanti che infestavano la nuvolosa mattinata. Zizka si decise ad attaccare la città assediata e diede ordine alla fanteria di usare l'ariete e di abbattere i grandi portoni della città. I primi soldati che entrarono in Malesov ritornarono fuori di corsa, attraverso gli stessi portoni da cui erano entrati, e passarono davanti a noi senza fermarsi, le facce infuocate, gli occhi sgranati, incapaci di riferire quello che avevano visto. Uno di loro venne verso di me e, con mio grande spavento, mi afferrò la testa con tutte e due le mani, avvicinò la sua faccia febbrile a un palmo dalla mia, aprì la bocca e rimase così, a bocca aperta, senza emettere nessun suono, i suoi occhi esaltati fissi nei miei, fino a quando arrivarono alcuni suoi compagni, lo presero per le braccia, mi liberarono e lo trascinarono via da lì, sempre con quella bocca e quegli occhi che sono rimasti dentro di me fino ad oggi.
Il nostro generale riunì quindi una ventina di cavalieri e decise di entrare lui nella cittadella. Quello che vide quel giorno, all'interno della fortezza del barone Altar Paumgartner, fu lo spettacolo più tenebroso che gli si fosse svelato in tutta la sua vita di guerre e di massacri. Alcuni dei nostri migliori cavalieri non riuscirono ad accompagnarlo in quel sopralluogo, pietrificati da un orrore incontrollabile. Zizka, il Guercio, di fronte a ciò che vide pensò di ringraziare Cristo per avergli lasciato solo un occhio buono, perché per lo meno così alcuni dettagli macabri gli sfuggirono. Noi, i Taboriti, con la nostra incrollabile certezza di conquistarci il Paradiso, ci stavamo preparando a conoscere l'Inferno sulla Terra.
Lo scenario non lasciava dubbi: il barone aveva piazzato delle sentinelle sulle vie principale che portavano a Malesov e aveva saputo dell'attacco imminente almeno un giorno prima del nostro arrivo. Da quel momento diede inizio al processo di devastazione della città, e deve aver impiegato un giorno intero per preparare l'orrendo circo che aveva lasciato in attesa degli attaccanti. Certamente aveva speso molto tempo ad elaborare minuziosamente nella sua mente i dettagli di quel teatro di terrore, in modo tale che la sua realizzazione era stata rapida ed efficace. Tutto indicava che, alcune ore prima dell'assedio, ed avendo raggiunto la sua opera il grado di morbosità che aveva concepito, il barone Altar Paumgartner riunì gli uomini ancora disposti a combattere, o meglio, i sopravvissuti di Malesov, e fuggì nella foresta. Quello che pensava di fare da quella sua nuova base, con gli uomini e le provviste decimate, era impossibile da prevedere, a quel punto.
Già ad un passo dai portoni divelti cominciava la fila degli alberi umani. Erano molti gli impalati in cima a lunghe aste. I pali entravano dall'ano e in molti casi uscivano dalla bocca, oppure infilzati fino a metà dei corpi nei bambini, alcuni dei quali muovevano ancora le piccole braccia rantolando nell'agonia. Perfino un cane era stato impalato insieme ai bambini per fargli compagnia in quel supplizio abbietto che il barone probabilmente aveva copiato dai barbari ottomani.
Tra un palo e l'altro erano stati sepolti fino al collo degli uomini. Era un orto di teste. Da ognuno delle loro bocche pendevano flaccidi i genitali.
Vagando scombussolate tra i pali e le teste, le donne impazzite si stracciavano le veste e si strappavano i capelli, emettendo urli gravi con quel poco di voce che gli era rimasta, dopo aver assistito incatenate alle mutilazione dei loro figli e mariti. Era questo il coro di lamenti che Zizka aveva sentito da fuori le mura per tutta la notte. Le sconvolte di Malesov urtavano nei vecchi che, gli occhi trafitti dagli stiletti, barcollavano a tentoni cercando i cadaveri dei nipoti. Per terra, in un pantano di sangue, il cui odore forte e dolce ci stomacava, strisciavano i ragazzi a cui erano stati amputati le mani e i piedi, con le facce già esangui perché non era rimasto più nessuno in grado di arrestare le emorragie.
Quanto più ci addentravamo in quel mondo infernale, più rimanevamo increduli davanti a quella bolgia. I nostri cavalli nitrivano e si impennavano ogni volta che erano afferrati per la coda, per la criniera, o per qualche altra parte da delle donne che gemevano con il viso sfigurato dal fuoco, ragazze bruciate, con la pelle flaccida che pendeva a brandelli dai muscoli esposti. Dietro le donne, come piccole ombre o anime, alcuni bambini con la mascella divelta dai colpi d'ascia sgranavano i loro occhi spaventati dal centro dei teschi.
In fondo alla cittadella le case erano state trasformate in segrete. Molte erano state incendiate. In quelle che ancora erano in piedi il generale trovò mucchi di prigionieri emaciati che da giorni si alimentavano con le proprie feci. In altre celle degli uomini si rotolavano a terra per il dolore e vomitavano sangue, dopo essere stati obbligati ad ingoiare manciate di piccoli chiodi. E così tutti i sinistri racconti sui carattere di Altar Paumgartner, che molti pensavano fossero una montagna di esagerazioni alimentate dalla paura, trovavano la loro conferma a Malesov. "Come ha potuto fare questo alla sua stessa gente?..." Si domandava Zizka, il Guercio. "Da dove gli è venuta la forza con cui è stato capace di portare a termine una tale devastazione? Dal demonio? Dalla pazzia? O dalla sua stessa paura? E poi, perché gli stessi aguzzini non sono stati fermati in tempo dalla Provvidenza Divina?" Zizka pronunciò, addolorato, ad uno ad uno tutti i dubbi di Epicuro: "Dio, o vuole impedire il male e non può, o può e non vuole, o non può e non vuole, o vuole e può. Se vuole e non può, è impotente, ciò che è impossibile in Dio. Se può e non vuole, è invidioso, il che nello stesso modo è contrario a Dio. Se non vuole e non può, è invidioso e impotente, pertanto non è neanche Dio. Se può e vuole, il che è l'unica cosa compatibile a Dio, da dove proviene quindi l'esistenza dei mali? Per quale ragione non li impedisce?"

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