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Io
so che i serpenti cambiano pelle di tanto in tanto, in cicli previsti della
loro vita. Ma a volte un piccolo incidente, una ferita più grande,
il morso di un altro animale, una pietra tirata da un bambino, vanno contro
la logica dei cicli e fanno sì che il rettile sia costretto a uscire
da sé stesso prima del tempo, lasciandosi dietro una copia, con la
sua forma e i suoi disegni, così perfetta che può dare un
soprassalto agli ignari. Ma la forma è vuota e inerte, appena una
traccia secca di un altro tempo, e il vero serpente è già
lontano, molto lontano, e striscia veloce con la sua pelle nuova.
So che gli uccelli vanno in muta di tanto in tanto, e cambiano l’intero
loro piumaggio. La natura di solito indica il momento, ma anche il caso
ha la sua parte. La prigionia in una gabbia, una zuffa con un altro uccello,
una separazione dal nido possono portarlo ad abbandonare le penne, a lasciare
in mostra la pelle rosata, a sentire più freddo, a tacere per lunghi
periodi. E a tal punto la muta altera l’uccello che a volte è
impossibile sapere a quale specie esso appartenga o indovinare qual è
la melodia del suo canto. Fino al giorno in cui, al termine del ciclo, l’uccello
lascia il ramo dove posava immobile, crescono nuove penne, nuovi colori,
ed esso ritrova il vecchio canto. Secondo gli esperti, il canto ritorna
con maggior intensità e con maggior bellezza dopo ogni muta. Gli
amanti degli uccelli conoscono l’arte dell’attesa.
So anche che le persone, tutte le persone, costruiscono almeno un grande
personaggio nella loro vita: se stessi, la propria autoimmagine. A ciascun
ciclo naturale dell’esistenza, questo personaggio perde sostanza,
sbiadisce, si emargina, diventa incomprensibile e inverosimile. E’
l’ora del cambio di pelle, l’ora di riscrivere interiormente
il personaggio, distaccandosi dolorosamente dalla pelle, ora secca e morta,
che per tanto tempo lo ha accompagnato. Ai suoi piedi rimane una spoglia
invisibile, un piumaggio etereo, forse appena percepibile nello scintillio
degli occhi, nella rinnovata destrezza dei gesti.
Così come nei rettili e negli uccelli, certi colpi inaspettati, certe
ferite, certe angosce, possono anticipare la muta a un momento imprevisto.
Il nostro canto tace, le nostre piume cadono, e noi tremiamo di freddo sul
ramo più remoto della voliera. Ma allora il ciclo si completa, inaspettatamente
come è cominciato. Il personaggio è già un altro, integrato
al mondo che lo circonda e dal mondo ogni volta più celebrato. Noi
torniamo a cantare ancora meglio, a strisciare più veloci tra i cespugli
e le pietre. Sono i cicli della nostra provvisoria pienezza. Noi ci sentiamo
interi nuovamente. Ci sentiamo come sempre fummo, poiché le trasformazioni
spariscono tra i due anelli estremi della catena, che si uniscono nella
memoria. Non ricordiamo niente che non sia il momento abbagliante, il personaggio
completo, e nella meraviglia di una pace attiva nemmeno percepiamo che il
nostro canto adesso è differente, che la nostra pelle è un’altra.
Quello che è rimasto sul cammino, piume, pelle, identità,
non sono spoglie o reminiscenze, sono parti perdute della materia che ci
costituisce, sono fossili della nostra essenza, sono ego sottratti, che
in un giorno qualsiasi del futuro ci lasceranno con un’unica piuma,
con un’ultima pelle, con un ultimo e monocorde canto, con il personaggio
definitivo.
Abbiamo bisogno di cominciare ad amarlo molto presto, molto prima del primo
cambio di pelle.
(tradotto
dall’autore)
Lucca,
settembre 1997
Julio Monteiro Martins
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