|
|
Herbert,
o Simplicio, non era stato cresciuto dalla vecchia Marieta per guidare
un taxi, né tantomeno per fare il pagliaccio di bordello. La madre
gli aveva impartito l'etichetta e insisteva nel riporre sull'unico erede
la speranza di recuperare la fortuna che il dittatore Vargas aveva maltolto
agli Albuquerque. Herbert non aveva corrisposto alle aspettative, e ciò
gli aveva procurato un misurato disprezzo da parte della madre, che si
rifiutava recisamente di prendere coscienza degli uffici del figlio, o
soltanto di immaginare la provenienza delle sudate banconote che le consentivano
la sopravvivenza e finanche la sovvenzione del nefando vizio del domino.
Per sé stesso, infatti, Herbert non teneva che un quinto di tutto
quel che incassava tra il volante e il palcoscenico.
Dona Marieta era vecchia, squilibrata e più o meno felice. Herbert
era giovane, frustrato e profondamente infelice. Il contratto con la tenutaria
del postribolo era gravoso, e nemmeno la Citroen era sua, ma dell'avido
proprietario della Cartoleria Auriverde, che per il noleggio del veicolo
gli prendeva un occhio della testa. Herbert odiava molto entrambi, tutti
gli altri li odiava un po', e Vargas solo remotamente.
La vittima fisica e morale dei rancori del pagliaccio, l'unico ricettacolo
concreto della sua furia generica contro il mondo, era il deficiente Bolota,
lo storpio che notte dopo notte, luna dopo luna, soffriva ogni genere
di castigo e di impropero da parte del bianco Herbert, il quale gli tirava
le orecchie fino a fargliele sanguinare o gli ripeteva, con voce forte
e chiara, di tanto in tanto circondato da terzi, che la madre puttana
di quel negro scimunito era morta di fame a causa della larghezza del
buco del suo culo, che il culo della genitrice del ritardato sprizzava
sperma verso l'alto come un tubo bucato, e che solo dal culo sua madre
poteva aver concepito una simile mostruosità. In quei momenti,
Bolota rideva come se l'orecchio che divampava o il timpano che vibrava
per le maldicenze del suo persecutore non fossero i suoi, ma del suo peggior
nemico. E quando finiva di ridere, il piccoletto correva alla Citroen
col suo panno consumato e grigio, e lustrava accuratamente il parabrezza
e il vetro posteriore dello strumento di lavoro di Herbert, quasi per
ringraziare delle attenzioni che gli venivano dispensate.
La seconda domenica dopo carnevale, la città venne assalita da
una banda di turisti fracassoni di Rio de Janeiro, o meglio, della periferica
Inhaúma, che facevano stazione a Piraí principalmente per
visitare il Vista Alegre. Quella notte non restò un solo tavolo
libero per gli avventori indigeni. Dona Neuza era euforica, aveva raddoppiato
il prezzo delle bibite e triplicato quello degli orgasmi. Simplicio avrebbe
voluto cominciare lo spettacolo più presto del solito, poiché
aveva concordato col viceprefetto di condurlo, insieme all'amante, l'ossuta
Marivalda, in un motel della città vicina a mezzanotte in punto,
e di riportarli poi indietro alle cinque, dietro esborso di un lauto compenso.
Ma i suoi argomenti non convinsero la tenutaria. Egli era l'attrazione
principale, e in virtù di ciò doveva esibirsi per ultimo,
come da prassi, e in special modo in quella straordinaria serata. E che
facesse ridere i turisti fino a far loro esplodere le trippe, ordinò
la megera. A Simplicio non restò che di obbedire.
Si sedette davanti allo specchio dell'improvvisato camerino, in verità
era la stanza della puttana Amalia, e cominciò a truccarsi dipingendosi
di bianco il viso, di rosso il gran circolo della bocca, di azzurro le
palpebre, con le sopracciglia alzate, e di rosa la punta del naso. Rifletteva
sulla possibilità di strangolare ad uno ad uno i vecchietti che
lo vessavano tramite il vizio della madre, durante le partite di domino
della Pensione Roma. Indirettamente vivevano tutti alle sue spalle approfittandosi
di Dona Marieta, che quasi sempre perdeva per non saper far di conto,
sebbene fossero due decadi che sceglieva piastrine nere al fine di metterle
in fila. Non sapeva quale fosse il male peggiore, se la dittatura di Vargas
o quella merda di domino.
Completò i preparativi, raccolse i capelli, si incollò in
testa la protesi di gomma che doveva sembrare una pelata, e si cinse i
coglioni col falso serpente osceno. In quel momento si potevano sentire
gli urli e gli uggiolii degli avventori che accompagnavano il numero della
contorsionista, la quale, da tanto flettere la schiena all'indietro, arrivava
ad infilarsi interamente la lingua nella vagina.
Era arrivato il suo momento. Simplicio si bagnò l'esofago con un
mezzo bicchiere di cachaça pura, prese il respiro e entrò
nel salone, intenzionato ad eseguire il numero più sensazionale
della sua carriera di giullare da postribolo.
Così desiderò, e così accadde. Il pubblico carioca
cadde in delirio per le sue trovate, tanto che Simplicio fu costretto
ad interrompere tre volte il suo numero per chiedere che non si lanciassero
bottiglie vuote verso l'alto, ché il Vista Alegre era una casa
per cazzi duri, e non per teste rotte.
Già preoccupato per l'ora tarda, il pagliaccio dovette addirittura
bissare il numero del cobra genitale, prima che infine riuscisse in tutta
fretta ad abbandonare il postribolo, correndo per le vie deserte, era
mezzanotte e mezza, alla ricerca della sua Citroen. L'accordo col viceprefetto
era una cosa seria, serissima...
Ed eccolo correre in tutta fretta dietro all'estemporanea coppietta senza
avere avuto neanche il tempo di struccarsi.
Arrivò al luogo dell'appuntamento, attese, si guardò intorno,
attese ancora, suonò il clacson, attese ancora a lungo, ma niente.
Forse avevano trovato un altro taxi... o più probabilmente avevano
desistito dall'impresa. La miglior cosa da fare era ritornare al punto
di fermata della stazione degli autobus; chissà che i due non apparissero
camuffati da quelle parti...
Parcheggiò la macchina e pensó di levarsi di dosso lí
stesso quei ridicoli panni da pagliaccio, ma non aveva di che cambiarsi,
i suoi pantaloni e la sua camicia erano restati al Vista Alegre, e d'altronde
la luce era minima, quasi assente, nessuno avrebbe potuto vederlo. Nella
penombra riuscì appena a percepire l'esigua sagoma che si avvicinava,
e solo per la risata riconobbe il deficiente Bolota.
Più di tutto e di tutti al mondo, Simplicio odiava le risate, che
echeggiavano nella sua testa come un incubo crudele e ricorrente. Bolota
sghignazzava proprio come i turisti di Rio al cabaret, persino piú
forte, con la differenza però che il numero del pagliaccio Simplicio
era già finito. In quel momento lui era Herbert, il tassista. Si
osservò nello specchio retrovisore. In quel momento non sapeva
davvero più chi fosse.
Scese dalla macchina e diede un calcio in faccia a Bolota, che restò
steso al suolo, e allora Simplicio gli sputò addosso, scarracciò
diverse volte sulla faccia del negro. Bolota rideva. Afferrò il
negro per le spalle e gli sferrò diverse ginocchiate sullo stomaco,
gli schiacciò poi i piedi a lungo, saltandoci sopra. Il ritardato
rideva ancora di piú, rideva di dolore e di demenza, rideva di
tutto, e di lui. Il pagliaccio lo prese a pugni sul collo, ripetutamente
e con potenza, mentre sussurrava che il negro sarebbe finito con il culo
pieno di sperma tanto quanto quello della madre. Il negro sghignazzava
più forte.
Simplicio infine si stancò. Le mani gli dolevano e la fantasia
gli si era schizzata di sangue . Si appoggiò alla macchina e si
distese sopra il cofano. Bolota, prontamente, cercò di rialzarsi
in piedi e strofinando il suo panno ingrassato si mise a lustrare la Citroen.
Il pagliaccio sapeva che era inutile cercare di far capire all'idiota
di smetterla. Bolota non sentiva niente, non capiva... Sorrideva appena,
ricoperto di sangue, mentre cercava di fare di ogni finestrino uno specchio.
Simplicio entrò in macchina e restò ad osservare il negro,
e a pensare alla madre di entrambi. Meglio per il demente non aver procurato
alla madre il disgusto di conoscerlo. Quanto alla sua, che Vargas se la
fottesse!
Gli faceva male la testa. Era intontito e confuso. Avvertiva la sbronza
della propria violenza. Il pagliaccio appoggiò la pelata posticcia
al volante, lo strinse tra le braccia e si addormentò.
Bolota lucidó i quattro finestrini mentre Simplicio dormiva. Quindi
svitò il tappo del serbatoio del carburante, se lo mise in tasca,
e dalla stessa tasca estrasse una scatola di fiammiferi. Introdusse il
panno nell'imboccatura del serbatoio e appiccò fuoco all'orlo che
sporgeva. Si allontanò, e dopo pochi istanti assistette alla più
grossa esplosione che la cittadina ricordasse. Un'enorme carcassa nera
in fiamme, che sputava fuoco da ogni fessura. Al suo interno il tassista,
il pagliaccio Simplicio e il promettente Herbert Albuquerque de Castilho.
I turisti di Rio arrivarono ubriachi alla stazione degli autobus, cercando
di mettere un passo davanti all'altro, e fu allora che videro la facciata
immacolata della chiesetta illuminarsi di rosso vivo. Alle sei del mattino
partiva il primo autobus Piraí-Rio de Janeiro. Era ancora notte.
I turisti osservavano il fuoco rapiti, e dall'ubriachezza finirono per
abbracciarsi a vicenda ridendo e accompagnando gli sghignazzi convulsi
di un mulatto bassottino, dall'aria beota, che da sotto la tenda del bar
sembrava quasi che assistesse al miglior numero del cabaret Vista Alegre.
(Traduzione di Antonello Piana)
|
|
|