UNA TORTURA DELIZIOSA
– pagine sull’arte di scrivere –

 

Henry Miller

 


Creazione

L’artista creativo ha qualcosa in comune con l’eroe. Sebbene agisca su un altro piano, anche quest’ultimo ritiene di avere soluzioni da offrire; dedica la vita al conseguimento di trionfi immaginari. Al termine di ogni grande esperimento, venga esso tentato dallo statista, dal guerriero, dal poeta o dal filosofo, i problemi della vita presentano sempre lo stesso enigmatico aspetto. I popoli più felici, si dice, sono quelli che non hanno storia. Quelli che hanno una storia, quelli che hanno fatto la storia, sembrano soltanto aver posto in risalto, con quanto hanno compiuto, l’eternità della lotta. Anch’essi scompaiono, in ultimo, esattamente come quelli che non hanno fatto alcuno sforzo, che si sono accontentati semplicemente di vivere e godere.
Si suppone che l’individuo creativo (lottando con il suo mezzo) provi una felicità la quale equilibra, se pure non le supera, la sofferenza e l’angoscia che si accompagnano alla lotta per esprimere se stessi. Vive nella propria opera, diciamo. Ma questo genere di vita unico varia estremamente con gli individui. Soltanto nella misura in cui l’artista creativo è conscio di una vita maggiore, di una vita abbondante, si può dire che viva nella propria opera. Se non esiste alcuna consapevolezza, non v’è alcuno scopo né vantaggio nel sostituire con la vita immaginativa quella puramente avventurosa della realtà. Chiunque si sollevi al di sopra delle attività del ciclo quotidiano, lo fa non soltanto nella speranza di ampliare il campo della propria esperienza, o magari di arricchirlo, ma anche di affrettarlo. Soltanto in questo senso la lotta ha un significato. Basta accettare questo punto di vista e la distinzione tra insuccesso e successo si annulla. Ed è questo che ogni grande artista finisce con l’imparare nel corso del viaggio: impara cioè che il processo nel quale è coinvolto ha a che fare con un’altra dimensione della vita, e che, identificandosi con tale processo, e gli aumenta la vita. In questa concezione delle cose è permanentemente allontanato, e protetto, dalla morte insidiosa che sembra trionfare ovunque intorno a lui. Indovina che il grande segreto non potrà mai afferrarlo, ma solo incorporarlo nella sostanza di se stesso. Deve fare di se stesso una parte del mistero, vivere in esso, oltre che con esso. Accettare è la soluzione: si tratta di un’arte, non di un’esibizione egocentrica da parte dell’intelletto. Per il tramite dell’arte, dunque, si stabilisce infine il contatto con la realtà: ecco la grande scoperta. Qui tutto è gioco e invenzione; non esiste alcun solido punto d’appoggio dal quale lanciare i proiettili che perforeranno i miasmi della follia, dell’ignoranza e dell’avidità. Il mondo non dev’essere ordinato; il mondo è ordine incarnato. Spetta a noi metterci all’unisono con quest’ordine, sapere che cos’è l’ordine del mondo distinto dalle forme ottimistiche e velleitarie di ordine che cerchiamo di imporci a vicenda. La forza che aneliamo a possedere per stabilire il bene, il vero e il bello, risulterebbe essere, se riuscissimo a possederla, soltanto il mezzo per distruggerci vicendevolmente. È una fortuna che siamo impotenti. Dobbiamo prima acquisire l’intuizione, poi la disciplina e la sopportazione. Fino a quando non avremo l’umiltà di riconoscere una visione che trascende la nostra, fino a quando non avremo fede e fiducia nei poteri superiori, il cieco deve guidare il cieco. Gli uomini convinti che il lavoro e l’intelligenza riusciranno a compiere ogni cosa saranno sempre delusi dalla piega degli eventi stravagante e imprevista. Sono loro ad essere eternamente delusi; non più in grado di incolpare gli dei, o Dio, se la prendono con i loro simili e danno sfogo alla propria ira impotente gridando: Tradimento! Stupidità!” e altre vuote parole.
La grande felicità dell’artista consiste nel divenire consapevole di un più alto ordine di cose, nel riconoscere, mediante la manipolazione coattiva e spontanea dei propri impulsi, la somiglianza tra la creazione umana e quella che si chiama creazione “divina”. Nelle opere di fantasia, l’esistenza della legge che si manifesta attraverso l’ordine è ancor più evidente che nelle altre opere d’arte. Nulla è meno pazzo, meno caotico, di un’opera della fantasia. Una creazione del genere, che si riduce a pura invenzione, pervade tutti i livelli, creando, come l’acqua, il proprio livello. (...)

La mia voce

Qui devo fare una parentesi per riferire che cosa mi è successo pochi minuti fa mentre schiacciavo un pisolino. Dico “schiacciavo un pisolino”, ma in realtà dovrei dire: mentre cercavo di schiacciare un pisolino. In luogo del sonno ho ricevuto dei messaggi. Questa storia dura da quando mi venne la buona idea a proposito delle arance di Hieronymus Bosch. A mezzogiorno stavo male, molto male. Sono riuscito a stento ad assaggiare il pranzo delizioso che mia moglie, Eve, mi aveva preparato. Appena finito il pranzo, ho gettato un po’ di legna piccola sul fuoco, mi sono avvolto in una coperta, e mi sono accinto a fare la solita dormitina prima di riprendere il lavoro. (Più dormo, più lavoro. Rende.) Ho chiuso gli occhi, ma i messaggi continuavano ad arrivare. Quando si facevano troppo insistenti, troppo clamorosi, aprivo gli occhi e chiamavo: “Eve, prendi il taccuino e segna queste cose, ti spiace? Basta che scrivi: ‘abbondanza’... ‘furterello’... ‘Sandy Hook’”. Pensavo che fissando poche parole chiave sarei riuscito a interrompere il flusso. Ma non funzionò. Mi invadevano frasi intere. Poi paragrafi. Poi pagine... È un fenomeno che non manca mai di stupirmi, per sovente che accada. Cerchi di provocarlo e fallisci miseramente. Cerchi di soffocarlo e ne resti ancora più vittima.
Perdonatemi, ma devo approfondire l’argomento... l’ultima volta che si verificò fu mentre scrivevo Plexus. Durante l’anno o giù di lì che mi prese quest’opera – sotto altri aspetti, uno dei periodi peggiori che abbia mai attraversato – l’inondazione fu quasi continua. Brani enormi – specie le parti del sogno – mi vennero così come appaiono stampati e senza nessuna fatica da parte mia, tranne quella di adeguare il mio ritmo a quello del misterioso dettatore-dittatore che mi aveva in suoi potere. A ripensarci, questo periodo desta il mio stupore, perché ogni mattina entrando nel mio studiolo dovevo prima soffocare l’impeto di collera, disgusto e schifo che destava inevitabilmente in me la tragedia quotidiana. Calmandomi il più possibile, rimproverandomi e ammonendomi ad alta voce, sedevo alla macchina... e toccavo il diapason. Pam! Le parole si rovesciavano come un sacco di carbone. Potevo tirar dritto per tre o quattro ore consecutive, interrotto solo dall’arrivo del postino. A pranzo, un’altra lotta. Appena sufficiente per portarmi a bollore. Poi di nuovo alla scrivania, dove tornavo ad accordarmi e ripartivo a tutta velocità fino alla successiva interruzione.
Quand’ebbi finito il libro, un’opera piuttosto lunga, ero così eccitato che prevedevo fiduciosamente di scriverne altri due subito dopo. Invece, le cose non andarono come mi aspettavo. Intorno a me, il mondo andò in briciole. Il mio piccolo mondo, cioè.
Per tre anni, da quel giorno, non riuscii ad avanzare più di una pagina alla volta, con lunghi intervalli tra uno scatto e l’altro. Il libro che tentavo faticosamente di scrivere – che mi incoraggiavo a scrivere, per meglio dire . l’avevo pensato e sognato per oltre venticinque anni. La mia disperazione arrivò a un punto tale che ero quasi convinto di non saper più scrivere. A peggiorare la situazione, i miei amici intimi sembravano divertirsi a insinuare che io riuscivo a scrivere solo quando le cose mi andavano male. Era vero che apparentemente non avevo più nulla con cui lottare. Stavo solo lottando con me stesso, lottando contro il veleno che avevo inconsciamente accumulato.


(Due brani tratti dalla raccolta di saggi Una tortura deliziosa – Pagine sull’arte di scrivere, Minimum fax, Roma, 2003, a cura di Thomas H. Moore)


Henry Miller

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