DALLA DECOLLETTIVIZZAZIONE AL LAVORO COLLETTIVO. PERCORSI DI AUTOGESTIONE


Maristella Svampa

 

 

La teoria sociale ha sviluppato diversi concetti per definire la società al tempo della globalizzazione: tra le altre, "società-rete" (M. Castells), "tarda modernità" (Giddens), "società del rischio" (Beck), "società mondiale" (Luhmann), "impero" (Negri/Hardt). Al di là delle profonde divergenze teoriche e politiche tra queste diverse categorizzazioni, la maggior parte degli autori è concorde nel riconoscere il cambiamento profondo in atto, ovvero le enormi differenze che si possono riscontrare tra la "prima" modernità e la società attuale. Secondo tutti questi teorici, il nuovo modello di società si caratterizza per la diffusione globale di nuove forme di organizzazione sociale e per la ristrutturazione delle relazioni sociali. In altri termini, per un insieme di profonde trasformazioni di stampo politico, economico, tecnologico e sociale che minano il sistema di regolazione collettiva sviluppato nelle epoche precedenti. In conseguenza di ciò avanza un processo di individualizzazione che si rispecchia nella pretesa dal singolo di autoregolamentazione, autonomia e autoorganizzazione.
Detto questo, a differenza dei paesi del centro altamente sviluppato, in cui i dispositivi di controllo pubblico e i meccanismi di regolazione sociale sono in genere piú solidi e i margini di intervento politico piú ampi, nelle società del capitalismo periferico in cui le difficoltà del "divenire individuo" sono tradizionalmente maggiori, l'installazione dell'ordine neo-liberale ha approfondito i processi di disintegrazione sociale, moltiplicando disuguaglianze e povertà. Nel caso concreto argentino, la radicalità e, in molti casi, la vertiginosità con cui nel decennio menemista si compirono queste trasformazioni accelerarono un inedito processo di decollettivizzazione.1
È possibile afferrare le autentiche dimensioni di questi mutamenti solo se si tiene conto che fino a poco tempo prima l'Argentina era uno dei rari paesi latinoamericani ad aver sviluppato una "società salariale" (R. Castel): un paese caratterizzato non solo dall'espansione di una classe media, ma anche dall'esistenza di una classe operaia relativamente ben integrata in fatto di diritti, protezioni sociali e stabilità occupazionale.2 In tal senso, fu solo a partire degli anni '70 che il paese intraprese un passaggio verso l'informalità e la precarietà del lavoro - strutturale, o di lunga tradizione, negli altri paesi latinoamericani -, il quale subí una brusca accelerata negli anni '90, allorché la riforma strutturale arrivò a colpire anche settori salariali che si ritenevano al sicuro.
Questo processo di decollettivizzazione intaccò sostanzialmente l'identità di diverse categorie sociali: non solo delle classi "strutturalmente povere" caratterizzate tradizionalmente da vulnerabilità e precarietà occupazionale, ma anche di segmenti della classe operaia che fino ad allora potevano contare su relazioni di lavoro piú o meno stabili, fino a settori delle classi medie il cui tenore di vita arrivò drasticamente a impoverirsi. In tal modo il processo finí per invalidare le ristrette categorie tradizionali: i nuovi esclusi non costituivano esattamente una "massa marginale"3, ma nemmeno potevano identificarsi nel cosiddetto "esercito industriale di riserva". Il conglomerato emergente sembra piuttosto rinviare alla figura di un nuovo proletariato marginale, multiforme ed eterogeneo, unito da condizioni di vita e esperienze comuni, ma allo stesso tempo diviso da traiettorie biografiche e saperi alquanto disparati, nonché dall'eterogeneità dei bagagli culturali e simbolici.
Dal 1996, come già detto, il movimento piquetero aprí una breccia nell'universo decollettivizzato di questo proletariato marginale, creando una rete di solidarietà fondata sulla mobilitazione e l'autoorganizzazione collettiva, che sfociò, malgrado il deficit comunitario, in esperienze di autogestione a partire dalle quali i singoli individui ebbero la possibilità di tornare a considerarsi lavoratori e riconquistare in tal modo una certa dignità..
Punto di partenza di questa esperienza fu il nuovo significato che acquisirono i "piani sociali" a partire dal 1999, quando le organizzazioni piquetere ne assunsero il diretto controllo, riuscendo ad orientare la prevista controprestazione (4 ore al giorno per ogni beneficiario) verso il lavoro collettivo nei quartieri. A partire da quel momento all'interno del movimento sorse una vivace discussione intorno a una questione fondamentale: cosa significa la parola "lavoro" in queste condizioni? Un'eventuale risposta a questa domanda centrale porterebbe alla luce grandi differenze a livello strategico tra le varie organizzazioni.
Nell'interno del paese la massiva distribuzione di "piani" contribuí a contenere una situazione di estrema emergenza sociale. Nella maggior parte dei casi i "piani" vennero recepiti dai beneficiari come un salario, e l'obbligo di prestare una sorta di corvé venne accettato di buon grado. In conseguenza di ciò si produsse la paradossale situazione per cui le organizzazioni piquetere erano da una parte dipendenti dalle prestazioni sociali dello stato, e dall'altra direttamente responsabili di creare le condizioni per portare avanti i progetti, dando vita in tal modo ad autentiche esperienze di autogestione. Questa situazione è illustrata paradigmaticamente dall'esempio della UTD di Mosconi, nella provincia di Salta, una specie di modello di autogestione comunitaria che ha esercitato notevole influenza su altre organizzazioni indipendenti4. Lo sviluppo di certi progetti - specificamente di piccole comunità agricole e panetterie collettive - venne finalizzato alla (ri)costruzione di mini-economie di sussistenza per far fronte al problema alimentare.
D'altra parte l'inclusione dei "piani sociali" nella logica della costruzione politica non fu tanto una decisione delle organizzazioni piquetere, quanto il prodotto delle pressioni della base di fronte a una situazione di estremo bisogno. Ciononostante ogni movimento avviò al suo interno dibattiti e promosse risoluzioni sulle proprie forme di organizzazione, sul proprio radicamento territoriale e soprattutto sulla propria concezione di lavoro.
A questo proposito occorre riconoscere che per gran parte delle organizzazioni piquetere la nozione di "lavoro genuino" risente della forte eredità della società salariale - nella sua versione industriale -, che ne impronta anche l'orizzonte di attese. In questo senso l'esperienza dell'autogestione appare naturalmente associata dai suoi attori al modello di una fabbrica, e non necessariamente al laboratorio di un'economia alternativa.
In verità sono state le organizzazioni indipendenti a spingersi piú lontano nella discussione intorno ai "piani" sociali, riappropriandosene e integrandoli nei loro progetti di costruzione politica. In questo senso i "piani" rientrano in una strategia di piú vasto respiro, volta a creare nuovi legami sociali e culturali all'interno del mondo popolare, in vista dello sviluppo di forme di economia solidale e alternativa al modello produttivo capitalista. Da qui l'importanza che acquista il lavoro nel territorio e l'insistenza ad ampliarne e potenziarne l'orizzonte, sia in termini meramente economici che culturali e simbolici.
In definitiva queste esperienze di autonomia non sostengono, salvo casi eccezionali, l'autoemarginazione (in forma di ripiego comunitario) o il rifiuto di produrre un "plusvalore". Anzi, non è raro che la discussione interna - tramite dinamica assembleare - verta sulla questione di cosa fare dell'eccedente - "la parte maledetta" secondo Bataille (1967), ovvero la differenza tra una società e l'altra -, già in un certo qual modo d'attualità nelle fabbriche autogestite dagli operai.5


Matrici ideologiche e soggetti politici

Prima di render conto rapidamente delle diverse concezioni politiche del movimento, è necessario ritornare sulla questione della portata della cultura peronista, un tema complesso e spinoso che può essere affrontato da diverse prospettive. Innanzi tutto occorre premettere che al di là delle diverse traiettorie sociali e della maggiore o minore vicinanza col mondo operaio, la base che compone i movimenti piqueteri continua a riconoscersi in una radice comune peronista. Per quasi tutti i militanti e simpatizzanti delle organizzazioni, il peronismo continua a rappresentare un sentimento di base che persiste indipendentemente dall'emergere di nuove prassi ed esperienze politiche.6 Altri ancora si riconoscono nel peronismo come in una tradizione, un passato aggiornabile da una retorica plebea di chiara connotazione "evitista".7
Proprio il persistere di questa tradizione spiega la costante e rinnovata tentazione di ristabilire in Argentina "il nazionale e il popolare" in seno al nuovo. I riferimenti al peronismo funzionano in questo senso come un significante flottante (Laclau 2000), come un artefatto culturale che può articolarsi in sensi diversi e perfino opposti. Questa posizione viene sostenuta in particolare da quelle organizzazioni che aspirano alla ricostruzione dello stato nazionale a partire dal consolidamento di una leadership forte, nella persona di N. Kirchner, sostenuta e appoggiata da un "popolo lavoratore" concepito come soggetto politico attivo.8 A livello continentale, un tale "progetto nazionale" mira alla costruzione di un polo latinoamericano, costituito da Chávez in Venezuela, Lula in Brasile, Kirchner in Argentina, ed eventualmente Evo Morales in Bolivia.
Mentre i raggruppamenti legati ai partiti della sinistra favoriscono il soggetto politico della classe rivoluzionaria, e appaiono piú proclivi alla mobilitazione di strada che alla costruzione politica e al lavoro collettivo nei quartieri, i gruppi indipendenti privilegiano - senza rinunciare alla mobilitazione - la specificità dei problemi del quartiere, con l'obiettivo di coltivare un terreno favorevole alla produzione di nuove relazioni sociali (il cosiddetto nuovo potere o potere popolare), condizione sine qua non per la crescita di un nuovo soggetto politico.

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I positivi contributi sociali e politici apportati dal movimento piquetero segnalano un'importante continuità tra ciò che è stato realizzato sulla strada e i risultati conseguiti nei quarteri. L'azione collettiva ha posto al centro del discorso e dell'autocoscienza la questione della dignità. Per strada il piquete ha innalzato il confronto aperto a modello d'azione, fungendo allo stesso tempo da luogo di ricreazione dell'identità. Ciò consentí di ripensare la disoccupazione da un altro punto di vista, rivestendola di nuove dimensioni. Fu certamente a partire da questa esperienza che nuove forme di fare politica attecchirono nel desolante panorama del mondo popolare.
Col passare degli anni, il baricentro dell'azione politica si è spostato verso le attività nei quartieri, concentrandosi nella risoluzione di problemi elementari e urgenti legati alla sopravvivenza: un compito in tutti i sensi meno spettacolare dei picchetti stradali, e perciò anche meno "visibile" dal resto della società. Malgrado la situazione di quotidiana emergenza, il lavoro comunitario ha risvegliato l'esigenza di dotare di maggior spessore le profuse esperienze di autogestione. Non deve stupire quindi che dalle nuove strategie di intervento territoriale sia sorto un universo autoorganizzato che poco ha a che vedere con la tradizione sindacale argentina, nella quale è sempre stato poco presente il problema dell'autogestione - tramite il controllo della produzione -, nonché l'influenza di una matrice collettiva e comunitaria, tipica invece dei paesi andini e dei movimenti di stampo indigenista.
In questo saggio abbiamo posto l'accento sugli aspetti piú innovativi del movimento piquetero, tralasciando per ragioni di spazio altre problematiche, come per esempio gli effetti dell'ascesa di Kirchner al potere, con la fine del "periodo d'emergenza nazionale" e la conseguente ricomposizione - seppure precaria e parziale - del quadro istituzionale. In questo senso l'attuale situazione da una parte inasprisce alcune questioni aperte, dall'altra pone nuove sfide all'ordine del giorno del movimento, tra le quali ne possiamo menzionare quattro fondamentali: 1) la necessità di produrre istanze di coordinazione politica che mitighino gli effetti della frammentazione dello spazio piquetero, in un quadro di crescente cooptazione e rifiuto delle masse a mobilitarsi, 2) il ripensamento da parte dei raggruppamenti legati ai partiti della sinistra degli obiettivi e degli effetti di un'azione politica limitata alla mobilitazione delle strade, 3) l'analisi da parte di tutti i movimenti delle conseguenze politiche e culturali derivanti dalla dipendenza dai piani sociali pubblici, e infine 4), la necessità di stabilire una comunicazione con altri settori, in special modo con i sindacati e i ceti medi. Quest'ultimo obiettivo diventa sempre piú rilevante in un quadro di crescente isolamento del movimento piquetero, a cui si aggiunge la storica difficoltà delle organizzazioni di disoccupati a coinvolgere altri segmenti sociali.
In questo senso, con meno discorsi trionfalistici, con maggiori rischi di cooptazione e isolamento, in un quadro di forte polarizzazione politico-ideologica e di crescente rifiuto delle masse a scendere in strada, il periodo che si apre reca con sé nuove sfide, tra le quali spicca il compito di approfondire le esperienze di autogestione e di democrazia interna, nonché la necessità di formulare articolazioni politiche, non solo interne allo spazio piquetero, ma soprattutto allargate ad altri settori della società
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Traduzione di Antonello Piana

 


1Con il termine "decollettivizzazione" si fa riferimento alla perdita di quei sostegni collettivi che configurano l'identità del soggetto (soprattutto, pr qanto riguarda il lavoro e l'inserzione nel tessuto sociale). Riprendiamo liberamente la nozione utilizzata da R. Castel (1994 e 2000)
2Naturalmente la società argentina era ben lungi dal poter essere definita "sviluppata" e ancor piú "socialmente equilibrata". Nondimeno è innegabile che fino a non molto tempo fa vigesse una logica piú egualitaria, e la distribuzione della ricchezza fosse molto piú equa rispetto a oggi.
3Sono ancora vive nel ricordo le teorie sviluppate verso la fine degli anni '60 da diversi intellettuali latinoamericani (tra gli altri J. Nun, M. Murmis, A. Quijano) intorno alla cosiddetta "masa marginal" o "polo marginal", secondo cui nelle periferiche società sudamericane gli individui sarebbero solo relativamente dipendenti dai meccanismi di integrazione nel sistema (propiziati dallo stato o da un mercato sufficientemente ampio), mentre lo sarebbero di piú, molto di piú, nei confronti delle reti di sopravvivenza generate dalla società in un contesto di diffusa indigenza. Ciò equivale ad affermare che sebbene la povertà e la vulnerabilità sociale si siano moltiplicate negli ultimi decenni in maniera allarmante, in molti paesi sudamericani la disoccupazione non rappresenta una vera e propria novità, ovvero il confine tra occupazione e disoccupazione non appare del tutto marcato, data l'esistenza endemica di precarietà e informalità del lavoro (Murmis 2000).
4Come i MTD della Coordinadora A. Verón, il Movimiento Teresa Rodriguez e altri raggruppamenti piú piccoli.
5Sottolineiamo che negli ultimi mesi i "progetti produttivi" hanno assunto notevole importanza per la maggior parte delle organizzazioni, non escluse quelle che si mostravano reticenti a imboccare questa via. Ciò si deve al fatto che dalla fine del 2003 le organizzazioni piquetere hanno cominciato a ricevere dal governo sostanziosi sussidi per lo sviluppo di attività produttive (dietro presentazione di progetti di investimento). In alcuni casi tali sussidi offrono la possibilità di far compiere un salto qualitativo alle esperienze di autogestione. La questione non è di poco conto se si considera che fino ad oggi le organizzazioni piquetere si sono mosse sul solco di un'economia di sussistenza. In tal modo, di fronte alla possibilità di dar vita ad esperienze di autogestione che superino questo livello - sebbene in una situazione di diffusa precarietà -, per le organizzazioni si aprono nuove sfide. Molto probabilmente per certi movimenti queste esperienze si riveleranno un'autentica prova del fuoco, soprattutto per quanto riguarda la loro capacità di trasformazione delle prassi capitaliste.
6L'ascesa del movimento piquetero venne accompagnata da una critica al sistema clientelare peronista, il che allargò il solco tra i raggruppamenti di protesta e le istituzioni politiche e sindacali di matrice justicialista. Nondiimeno negli ultimi anni la crescita del movimento si giova del contributo di mediatori provenienti.dall'universo peronista. In questo senso la trasformazione in una nuova prassi politica del clientelismo da parte dei mediatori, e dell'assistenzialismo da parte dei "beneficiari" dei piani, è lungi dal rappresentare un processo meccanico e automatico, bensí richiede la definizione di un chiaro orizzonte politico.
7Da Eva ("Evita") Perón, prima moglie di Juan Domingo Perón, al cui fianco si dedicò fin dal principio ad attività caritatevoli verso i ceti piú poveri, impersonando cosí l'anima "plebea" del peronismo (n.d.t.)
8In verità il problema maggiore che queste concezioni rappresentano dal punto di vista politico-ideologico non è tanto il loro carattere evidentemente nostalgico, quanto l'impossibilità a rinunciare a una matrice populista e peronista. Il rischio che questa visione reca in sé è quello di finire, presto o tardi, con l'essere funzionale al sistema peronista vigente. In questo senso la storia argentina si dimostra abbastanza istruttiva e il momento attuale pone una volta di piú all'ordine del giorno questi interrogativi


 




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