LA
AVALANCHA NEGRA
Hugo
Velarde
”In
Bolivia brucia la democrazia”, si è lamentato
il ministro degli esteri Carlos Saavedra chiedendo aiuto all’Organizzazione
degli Stati Americani. Il suo governo sarebbe stato sul punto
di venir rovesciato da un golpe, se il 12 e 13 febbraio l’esercito
non fosse intervenuto all’ultimo momento, allorché nel
paese andino erano già scoppiati tumulti che ricordavano
una guerra civile. Un aiuto da parte dell’OSA non è tuttavia
attendibile. L’amministrazione statunitense, fino ad
ora l’indiscussa e decisiva istanza all’interno
dell’associazione di stati panamericana, ha già problemi
a sufficienza per suo conto – ad imporre per esempio
la guerra all’Irak contro il volere dei suoi stessi alleati.
Oltre a ciò deve fronteggiare una certa indisposizione
nel suo medesimo orticello, dovuta alle truppe speciali spedite
in Colombia per piegare una guerrilla ”anti-americana”.
Un‘operazione sanguinosa che non procura molte simpatie
alla superpotenza.
In
Venezuela l‘”odiato” Hugo Chavez, appoggiato
da una maggioranza della popolazione, è restato in piedi
contro ogni aspettativa, mandando all‘aria i piani di
un’oligarchia petrolifera oltremodo ricca e potente. ”Pane
al popolo – contro il ricatto economico americano”,
si grida attualmente a Caracas. I propri gerarchi e quelli
americani vengono menzionati d’un solo fiato. Ovunque
fronti surriscaldati. E i Nordamericani che evidentemente non
possono essere dappertutto. Ciò contrasterebbe contro
le leggi sullo spazio della fisica occidentale, sebbene voci
minatorie continuino a ricordare l’inutilità di
qualsivoglia resistenza contro gli yankees.
L’Ecuador
del nuovo capo di stato Lucio Gutiérrez si aggiunge
a coloro che tengono testa sempre piú apertamente agli
Yankees. Il Brasile di Lula aleggia evidentemente nell‘”euforia
anti-americana” a sostegno di Francia, Germania, Russia
e Cina nel loro corso anti-bellico e ”anti-americano”.
In Argentina il 15 febbraio ha avuto luogo la piú grande
manifestazione contro la guerra all’Irak di tutto il
Sudamerica: ”Bush, fascista, sei tu terrorista!”,
ne era il motto.
Subito dopo le cerimonie funebri per i morti della sommossa,
la Repubblica Boliviana ancora sotto shock, lo ”stato-canaglia
della coca”, si è esposta contro gli Usa e pure
contro il proprio governo, il quale, in ossequio ai precetti
del FMI, aveva appena varato delle misure volte a ”stabilizzare
l’economia”. Nessuno parla piú di ”agenti
cubani che intendono trasformare la patria in una maceria rossa”.
Pechino è troppo lontana e Mosca attualmente quasi un
alleato degli Usa. ”Ma la resistenza contro gli yankees è appoggiata
dal popolo sovrano?” si chiedono attualmente perfino elementi
della classe media boliviana, i quali solo per questo fatto diventano
automaticamente ”post-comunisti”. Il cliché del
nemico comunista è in ogni caso sorpassato.
La legittimità del governo del Presidente Gonzalo Sànchez
de Lozada è in discussione, commenta niente meno che il
presidente argentino Eduardo Duhalde. Non si possono accettare
passivamente i dettami del FMI, cercando di risanare le casse
di uno stato in bancarotta tramite un aumento insopportabile
delle tasse.
Effettivamente i tumulti del 12-13 febbraio sono stati provocati
dall’iniziativa fiscale di Sànchez de Lozada. Lavoratori,
impiegati, insegnanti, perfino la polizia in miseria hanno impugnato
le armi, il palazzo del Vicepresidente è stato dato alle
fiamme, i grandi magazzini sono stati assaltati, e a gran voce
si reclamavano le dimissioni del ”governo pro-yankee”.
Il medesimo governo, in preda al terrore e alla costernazione,
ha ritirato immediatamente tutti gli aumenti fiscali.
Il combustibile sociale non è stato però in tal
modo disinnescato, visto che gli americani continuano a pretendere
la distruzione delle piantagioni di coca, l’unica coltura
boliviana di sussistenza nonché garanzia di sopravvivenza
per migliaia di indios. ”Per sfuggire alla miseria piú nera,
si potrà pure piantare un po‘ di coca”, si
sente dire nei sobborghi piú poveri della regione del
Chapare, da cui il grosso della produzione prende la via del
mercato nord-americano.
Durante la rivolta del resto i governanti erano costantemente
a rapporto presso il loro ”Superministero”, l’ambasciata
statunitense. L’élite politica boliviana era paralizzata
dal panico. Molti ricchi da ora in poi tengono a disposizione
in tasca un biglietto aperto per Miami. Centinaia di cittadini
della classe media emigrano invece in Argentina, Cile o Spagna
alla ricerca di un’esistenza migliore, mentre dalle montagne
alle valli, dalle valli alle città, si smuove una ”avalancha
negra” (valanga nera): cosí il razzismo boliviano
definisce indios e mezzosangui. La situazione è insopportabile,
sia per i governati che per i governanti. Si può ancora
vivere nel paese?
George W. Bush minaccia di rivoltare come un guanto un mondo
rinnegato. L’Europa manda in campo il Leviatano politico,
per assicurare al macello in fiamme un nuovo ordine nel segno
dell’illuminismo, mentre il moloc militare americano declina
lentamente a lillipuziano politico. Un decadenza come potenza-guida,
ma non come potenza dominante. Il nano europeo cresce, nel momento
in cui il gigante americano perde di statura. Il risultato è un
provincialismo che assume le sembianze di una disperata e autoritaria
prova di forza militare, la quale contempla solo la cieca ”difesa
dei propri interessi”, il contesto della propria ambizione,
ma non il complesso universo della società mondiale.
”
La partita è chiusa”, mormora il mondo a voce sempre
piú alta. In Bolivia si sussurra in ogni angolo quel che è stato
scritto col gesso su un muro dell’università di
La Paz: ”Finito il tempo dell’unilateralismo americano”.
Forse c’è sorprendemente del vero in questo.
(Traduzione
di Antonello Piana)
Hugo
Velarde è nato a La Paz, in Bolivia, nel 1958.
Nel 1978 è costretto all’esilio nella DDR. Conseguito
il dottorato in filosofia, lavora oggi a Berlino come scrittore
e giornalista indipendente. È uno dei redattori della
rivista GEGNER.
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