Le
sfumature di questa ambivalenza, la consapevolezza del nocciolo
del proprio atteggiamento
critico, sono stati quasi messi a tacere, attraverso l’accusa di
antiamericanismo mossa a coloro i quali hanno fatto notare gli innegabili
legami tra la globalizzazione e l’acuirsi dei conflitti politici. Quindi poteva
anche non sfiorarci l’idea che ovviamente ci fossero avversari del nuovo ordine
mondiale che non avessero però nulla da spartire con i critici della
globalizzazione sostenitori del progresso e della democrazia; al contrario, si
è parlato in termini generali solo di no global, realtà questa che il
comune cittadino associa automaticamente agli scontri di piazza di Seattle,
Praga, Göteborg e Genova. Una simile argomentazione infondata, frutto di
premesse precipitose, ha messo in cattiva luce la recente presa di coscienza
della Nuova Sinistra. Così le discussioni di carattere pubblico non sono andate
oltre le premesse iniziali. E’ stato a lungo trascurato Il fatto che il nuovo
ordine mondiale di impronta statunitense sia stato imposto solo a discapito
degli interessi particolari di altre potenze mondiali, allo stesso modo
possibili gestori e beneficiari dell’“ordine” stesso. Se ci si muove sul piano
delle differenze culturali ed ideologiche, che nella fattispecie non sono altro
che argomentazioni prese a pretesto, si deve riconoscere che l’imposizione
generalizzata di “valori” occidentali non riconosce come nemico solo coloro che
vogliono abbattere la democrazia reale e la cultura sociale progressista.
“Oppositori della globalizzazione” possono essere anche quei capi di etnie che
vogliono difendere le loro strutture di potere tradizionali e patriarcali
dai moderni metodi di repressione.
Dato
che gli USA, in quanto potenza militare ed economica, assumono
il ruolo guida nel
processo di globalizzazione del nuovo ordine mondiale neoliberalista, si
corre il rischio di trarre delle conclusioni azzardate: dal
rifiuto di questa nuovo
(discriminante) ri-ordine mondiale all’ostilità contro gli USA. Tuttavia non si
tratta automaticamente di “antiamericanismo”, o meglio, esistono vari tipi di
quanto rientra nell’“antiamericanismo”. Il fatto che lo spirito critico, che
vive “nel cuore della bestia” (Che Guevara), porti ora lo stesso marchio,
risulta doloroso ma, considerato il terreno della discussione, inevitabile.
Visto che lo slogan di guerra utilizzato scredita l’interlocutore quale uomo
spregevole, subito escluso dal dialogo, risulta difficile portare avanti
una discussione in ambito pubblico.
"Antiamericanismo" oppure "americanismo"?
What do you own the world?
How do you own disorder?
System Of A Down
Dunque
si dovrebbe guardare in quale angolo si viene relegati. Quali
critiche mosse agli
USA giustificano l’accusa di "antiamericanismo"? Cos'è
l’"America"? Cosa sarebbe l’"americanismo"? Da quale
momento le sinistre non ha più considerato l’"America" un principio
innovatore?
L’immagine
dell’"America" è cambiata negli ultimi secoli. L’America, intesa come
i futuri USA, era considerata da Friedrich Maximilian Klinger nel 1776 un luogo
sicuramente non solo geografico "dove tutto è nuovo, tutto è
importante". Goethe ne fa addirittura una nuova utopia: " L'America è
qui o in nessun altro luogo". Ancora prima della Dichiarazione
d'Indipendenza, non erano solo i tedeschi a nutrire il presentimento che
l'epoca dell'egemonia europea fosse oramai giunta al termine: l’abate
Ferdinando Galiani scriveva in una lettera a Madame d'Epinay del 18 maggio
1776: "Siamo oramai giunti al momento del completo decadimento dell'Europa
e dobbiamo aspettarci un'emigrazione verso l'America. Tutto qui […] andrà in
rovina, la religione, le leggi, le arti e le scienze, e tutto questo tenderà al
proprio rinnovamento in America". Friedrich Schlegel vide nell'America la
possibilità di una "maturazione" della "civiltà umana".
Wieland affermò che il popolo americano era ancora fermamente convinto degli
"irrinunciabili diritti dell'umanità", indicando con ciò un mito
ancor oggi fondante, che appartiene all’autocoscienza della società
statunitense. Oggi siamo consapevoli del dubbio eroismo dei combattenti per la
libertà del Nordamerica, i quali combatterono per la libertà dell'uomo bianco
sterminando le popolazioni native.
La
diversità
del Nordamerica e, allo stesso tempo, il suo legame con l'Europa non affascinò
solo coloro che vedevano negli ideali della Rivoluzione francese una speranza
inappagata. Già con Nietzsche sembra essersi consumata la speranza nelle
possibilità dell'America, e il prevalere dello scetticismo nei confronti delle
innovazioni civili che l'America era in grado di attuare: "L'America […] figlia
della nostra civiltà"; ciò che di moderno ha l’America trae le sue origini
dall’Europa. Le utopie si sono sfaldate in fretta di fronte ad una realtà priva
di utopie, prima che la Prima guerra mondiale seppellisse il sogno umanistico
di una cultura europea. Un passaggio qualitativo è segnato da America di
Kafka: nel contempo una società massificata, una colonia penale e una società liberale.
Dopo
la Prima guerra mondiale, quando gli ex partecipanti al conflitto,
in debito nei confronti
degli USA, non poterono più considerarsi vincitori o vinti, ebbe inizio ciò che
nella storia della letteratura venne chiamato "americanismo".
L’"oggettiva" e "pragmatica" America, che nell'economia,
nella politica e nella cultura sembra contrapporsi al progetto
"ideologicizzato" della Russia sovietica, viene considerata con una
sorta di amore-odio, associato anche ad aspetti disdicevoli, garantendo, però,
la libertà di poter definire negativi questi fenomeni nella loro natura
"moderni”. La borghesia tedesca non si è mai accomiatata dalla
"sua" America, e il proletariato non si è mai opposto alla sua
Germania sovietica. Determinante rimane, quindi, la critica borghese-democratica.
Il quasi barbarico regno orientale di Lenin, tendente alla trasformazione
radicale, sarà considerato solo da pochi analisti come una reale alternativa
per il futuro. Vista sul piano della simpatia, la figura (terrificante) del
dittatore Stalin non aveva alcuna chance di successo rispetto a quella dei
grandi presidenti degli Stati Uniti, e, per più di mezzo secolo, doveva essere
la vergogna della sinistra democratica.
Se è vero che, nella
guerra contro la Germania di Hitler, gli USA hanno rappresentato una speranza
per i poeti e i pensatori antifascisti, l'inizio della Guerra fredda ha altresì
determinato in essi una svolta decisiva. La glorificazione della prassi
americana incontra qui tutt'a un tratto lo scetticismo verso l'America. Arno
Schmidt vede nel "Gelernten Republik” (La repubblica dei dotti),
pubblicata nel 1957, il pericolo della nascita di una "in-cultura"
simile a quella sovietica. Aveva in ciò di certo presente anche l'anticomunismo
ostinato e antidemocratico di McCarthy, il quale aveva dolorosamente
danneggiato l'immagine degli USA quale patria della libertà.
Quando
il Senatore statunitense J. W. Fulbright affermò: " Nel bene come nel male siamo una
società profondamente conservatrice", la volontà di progresso nei circoli
politici degli USA era finita già da un pezzo ed egli dovette dispiacersi anche
nel riconoscere che "lentamente, ma in modo evidente, stiamo soccombendo
all’arroganza del potere". Fulbright è anche un epigono dei critici della
politica degli Stati Uniti, e quindi sa con quale metro l'America "senza
storia" deve misurarsi e con quale risultato: "Non è un'offesa, ma un
elogio se si afferma che l’America merita di essere criticata". Quella che
Hermann Broch ha definito come "la più progredita nazione del mondo"
è divenuta, con le crescenti conoscenze della repressione razzista di una parte
importante della propria popolazione, e più tardi con la guerra del Vietnam,
uno stato nel quale i cittadini si dovrebbero riconoscere quali parte di un
sistema criminale: "siamo tutti assassini", affermò nel 1967 il
chimico Linus Pauling, premio Nobel per la pace. Da ciò non deriva solo una
rigidità morale che accetta l'esistenza di una colpa collettiva, ma anche ciò
che rimane di una consapevolezza della responsabilità, di tutti gli
appartenenti ad una società, verso la politica di uno stato nato dagli ideali
democratico-borghesi di ordine radicale. È il metro più critico che si possa
applicare quando si vogliono mettere in discussione gli Stati Uniti. L'immagine
ideale democratico-borghese degli USA, la cui validità è a tutt'oggi ancora
mantenuta in vita, prendendo John F. Kennedy ad esempio di presidente virtuoso,
aveva un contenuto concreto e serve (o serviva) al contempo alla proiezione
delle speranze democratiche.
Idealmente
l'immagine positiva del cosiddetto "sogno americano" sopravvive nonostante
tutto. Un riverbero debole e confuso si trova ancora oggi sulle magliette e
sugli accessori dei giovani della Germania dell'Est, per i quali la bandiera a
stelle e strisce non è solo utilizzata come un elemento decorativo di moda.
Forse è anche l'ammirazione per i più forti, per un popolo dalla coscienza
indomita. Si deve d'altro canto constatare che i grandi movimenti di protesta
sociale che hanno cambiato la quotidianità negli USA, siano essi movimenti per
i diritti civili, per la pace o degli omosessuali, hanno sempre portato la
bandiera statunitense. Essi guidarono e guidano ancora la battaglia per
l’"America autentica" e si richiamano ad una costituzione che un
tempo era il modello per gli stati democratico-borghesi. Anche da questi
ambienti giungono le voci critiche alla reazione militare al "nine eleven". La differenza
tra l'immagine ideale dell'America - il liberalismo all'interno - e la realtà
della politica mondiale - la tendenza aggressiva all'egemonia - diverrà
inequivocabilmente palese. Ed è una violazione continuamente praticata contro
la propria costituzione, se gli USA intraprendono azioni militari unilaterali
contrarie alle risoluzioni delle Nazioni Unite. Ma anche negli USA ogni critica
alla propria politica estera viene giudicata espressione della mancanza del
“senso di patria". A coloro i quali hanno indicato una matrice interna nel
retroscena degli attentati è stato chiesto perché non se ne vanno da uno stato
che odiano in tal misura. Il patriottismo, tenuto in vita dal senso della
comunità di stampo liberale, richiede un'accettazione acritica della politica
estera degli Stai Uniti. A partire da McCarthy, se non prima, sappiamo che un
americano può appoggiare un "comportamento antiamericano". Secondo la
logica dell'"antiamericanismo" anche uno statunitense è capace di
pensieri "antiamericani". Con ciò si chiude il cerchio in una
argomentazione in sé contraddittoria.
Rafforzare
l’Europa?
Ora
che si sono combattute le prime battaglie della “guerra contro il terrore”, si sente dire che le
alternative risiederebbero in un’azione politica che prenda avvio dall’Europa.
Tuttavia questo può avvenire solamente se tale politica si differenzia
profondamente da quella degli USA.
Un
atteggiamento più debole e meno aggressivo, come
risulta dalla logica interna dell’amministrazione Bush, sortisce il solo
effetto di rallentare il processo di dissoluzione del proprio potere nel mondo,
senza però riuscire ad invertirlo. Insieme alla globalizzazione neoliberale
sono sorte paradossalmente anche le macchie bianche sulla carta geopolitica: se
ai tempi della contrapposizione tra i due blocchi era ancora possibile
raggiungere qualsiasi località del mondo adattandosi unicamente ai rapporti
dominanti (pro sovietico oppure pro americano) - come sostiene Rufin in
“L’empire des nouveaux barbares” 1991 - solo pochi anni dopo risultava
impossibile per uno straniero recarsi in zone teatro di guerre civili. È
trascorso molto tempo prima che la politica estera degli USA reagisse alla fine
della Guerra fredda. Il “Nuovo Ordine Mondiale” è esistito per anni soltanto
sotto forma di slogan e strategia contraddittoria. In alcuni Paesi si è altresì
verificato che azioni di resistenza all’espansione dell’“Impero Romano
Statunitense”, all’inizio individuabili solo localmente e ai margini della
società, arrivassero a determinare le linee guida della politica di governo.
Quale doveva essere la reazione degli USA? La creazione di un “limes” attorno
alla propria zona di influenza costituisce un appiglio per gli attacchi
dall’interno e dall’esterno ed aumenta – in tempi di armi a lunga portata e
contatti di dimensioni mondiali - la minaccia di quella zona delimitata dal
baluardo. Oltretutto la zona di influenza che gli USA si trovavano in quel
momento a dover gestire era così vasta che si poteva tranquillamente parlare di
una espansione esagerata. Soltanto il controllo assoluto, su scala mondiale,
degli interessi americani impedisce che le “truppe di frontiera” si logorino
portando alla creazione di una nuova forma di strategia militare: le forze
mobili di intervento - come di fronte alla liberazione insurrezionale
all’interno di uno Stato – giocano un ruolo di primaria importanza. Il mondo è
costituito da un lato da protettorati pacifici, dall’altro da Stati che si
negano ai dettami degli USA e rappresentano quindi potenziali zone di guerra.
Un tale rifiuto può anche consistere nella volontà di uno Stato di gestire
personalmente lo sfruttamento delle proprie risorse. Tuttavia un protettorato
che non ostacola gli interessi economici e militari degli Stati Uniti può
tranquillamente infrangere le “regole del gioco democratico”.
Nella
nuova situazione mondiale i governi dell’Europa occidentale e centrale hanno perso l’occasione di un nuovo
posizionamento. Nel corso dei conflitti nella ex Jugoslavia, gli Stati Uniti
pretesero il sostegno dell’Europa ai loro obiettivi strategici, che andavano in
direzione opposta a quelli degli alleati europei. Solo ora si inizia a
riconoscere che la politica statunitense in realtà mirava ad un indebolimento
della posizione dell’Europa. Fino ad oggi non è stata possibile
un’emancipazione dalla politica estera degli Stati Uniti nella misura in cui
sarebbe necessaria. In questa situazione di scarsa sovranità hanno avuto luogo
gli attentati terroristici che hanno costretto anche l’Europa a prendere una
posizione chiara. Mentre i governi europei si preoccupano delle questioni del
continente, per avere un ruolo “critico e solidale” nel processo iniziale di
un’azione militare contro i nemici dell’America, la Gran Bretagna cerca invece
di sottrarsi al dilemma per la sua vicinanza agli Stati Uniti. La
rassicurazione precipitosa di Schröder riguardo ad una “totale solidarietà” fa
fare alla politica tedesca un passo indietro nella storia, riportandola alla
fedeltà vassalla dell’Europa durante la Guerra fredda, quando gli “interessi
occidentali” combaciavano. Questo è indice di insicurezza. Che fine ha fatto
l’Europa? L’Europa in sé come comunità allargata e veramente più unita si
definisce sia nel suo insieme che nella sua delimitazione verso l’esterno. Ciò
non significa che si voglia o si possa creare un sistema autarchico capace di
rinunciare ai rapporti e allo sfruttamento del resto del mondo. Le alternative
sono possibili solo se radicali e, per questo, in fondo, impensabili: con un
mercato neo-liberale e globalizzato non potrà esistere un’economia confinata
solo ad alcuni stati, la quale, se fosse totalmente isolata (praticamente
impossibile), porterebbe ad un effetto inibitorio sull’economia stessa.
L’accettazione di un’effettiva economia globale insieme al rifiuto di tutte le
conseguenze negative per il resto dei paesi concorrenti in alcune sfere di
influenza (i prezzi sul mercato mondiale e la disoccupazione) è veramente una
forma di contraddizione. Coloro che ambiscono alla concorrenza e alla corsa al
profitto non rinunceranno allo sfruttamento e alle lotte di potere. Solamente
chi non è imperialista ed egemonico, chi non agisce in nome dello sfruttamento
ma promuove un equo scambio economico e culturale evita conflitti con i
partner. Non si potranno escludere ancora a lungo i conflitti, se anche gli
altri non rinunceranno alle regole del capitalismo. È quindi auspicabile
un’Europa autosufficiente che non si interessi alle parti del mondo in cui
regnano lo sfruttamento, la guerra, il genocidio? Si vuole lasciare agli Stati
Uniti il ruolo di “poliziotti del mondo” e comportarsi da buoni cittadini di
fronte al potere dello stato? Ciò significherebbe starsene solamente a guardare
come una politica rivolta all’imposizione degli interessi economici e di
sicurezza dell’America rafforzi il suo primato tramite le azioni militari.
La
subordinatezza dell’Europa all’America e l’autolimitazione all’amministrazione
all’interno dei confini europei sono entrambe posizioni non attuabili. Chi
evoca una visione europea che non rappresenta alcun reale e coerente nuovo
orientamento, ma soltanto un inganno, un errore concettuale, non ha dinanzi
agli occhi una “visione europea”, ma solamente una non più efficiente copia
di un ordine pre-moderno e pre-globale.
Come
alternativa alla globalizzazione del neoliberalismo economico vi è solamente un
agire globale realmente responsabile. Le grandi sfide – la reale distruzione
della terra dal punto di vista ecologico, attuata attraverso la follia
capitalista di produzione e annientamento, ne è solo un esempio – non si
possono risolvere se si vuole a tutti i costi conservare il patrimonio
rappresentato dal bottino di un prolungato colonialismo. Un’alternativa europea
non è possibile senza un radicale dietro front verso un federalismo globale
tra partner paritari.
USA today
Quelli che per alcuni sono difensori della libertà,
per altri sono terroristi.
Ronald Reagan
Una
democrazia vitale si può così definire solo se si inserisce in un processo
continuo di accrescimento della libertà personale dei cittadini. Se tuttavia un
sistema politico si basa sull’inerzia della massa disinteressata all’impegno
sociale e tollera, oppure costruisce da sé, una sfera libera da influssi
democratici, perde la sua essenza democratica, naturalmente senza mai
spogliarsi della denominazione di democrazia. Aspira piuttosto al
rafforzamento, reprime la discussione sui diritti dei cittadini e cerca la
vitalità soltanto nel dominio dell’economia avulsa dagli interessi della
comunità.
Il
fatto che il diritto e soprattutto gli obblighi internazionali
derivanti da norme
basilari siano ancora d’intralcio, è ben risaputo negli USA e in altre
cosiddette democrazie. L’esempio più attuale è costituito dall’ostacolo ai
lavori di un tribunale penale internazionale. Poiché i controlli democratici e
giuridici della politica estera statunitense all’interno degli stessi USA non
sono mai stati efficaci (basti pensare ai processi per i crimini di guerra
degli USA in Vietnam), la casta politica statunitense può tranquillamente
nascondersi dietro la competenza della giurisdizione nazionale.
Per
essere chiari, basta solo definire come “terrorismo di stato” le discutibili attività
di diritto internazionale della maggior parte dei servizi segreti mondiali,
oppure bisogna proprio dilungarsi in una descrizione dettagliata dei pochi
scandali svelati? Occorre descrivere gli intrecci della politica statale e gli
interessi economici dei gruppi industriali statunitensi, oppure si può semplicemente
far notare come gli USA si presentino quali nemici delle riforme economiche
ed ecologiche globali? Bisogna forse sottolineare che gli effetti
della politica USA, oltre a pregiudicare il futuro, mettono in pericolo anche
gli interessi della maggior parte dei cittadini statunitensi?
Ciò che
sappiamo delle azioni criminali dei servizi segreti statunitensi suggerisce
l’assurda ipotesi secondo la quale il presidente George W. Bush, quando ha
annunciato “la crociata” contro il terrorismo, intendesse in realtà
un’autodistruzione degli USA, un autodafé in cui l’inquisitore stesso si
definisce eretico. Non vi è nessuno stato – almeno dal crollo del blocco
sovietico – che sia stato coinvolto in un numero così elevato di azioni dei
servizi segreti a tutt’oggi poco chiare, abbia interrotto lo sviluppo della
democrazia allorché minacciava i “propri interessi economici”, abbia sostenuto
regimi criminali, arrivando talvolta a dichiarare loro guerra quando entrano in
gioco i propri interessi. Se il nuovo ordine mondiale può avere un volto,
allora il suo volto è questo. E proprio per questo, è per noi di vitale
interesse la critica alla politica USA, perché ha un atteggiamento aggressivo
verso l’esterno e attua guerre “calde” e “fredde”, compromettendo così anche la
vita dei cittadini non statunitensi. Fortunatamente sempre più persone riconoscono
il fatto che in questa guerra non c’entra l’affermazione di principi
democratici.
Dovrebbe
essere ormai chiaro sia che lo stesso termine “antiamericanismo” è uno slogan
di guerra risalente ai tempi della Guerra fredda, sia il significato che esso
assume oggi, sia il motivo per cui dobbiamo ammettere che siamo davvero
contrari alla politica USA. Ma a cosa gioverebbe tutto ciò?
Come
avversari della politica imperialistica USA e dei suoi alleati e come esseri
raziocinanti, ci si vede in quanto abitanti di questo globo nel ruolo di “ostaggi” di quegli stati che non mirano a proteggere il bene comune dei propri
cittadini e che sacrificano in maniera massiccia i diritti fondamentali della
popolazione mondiale. Al contrario, i “governi eletti dal popolo” rappresentano
per lo più gli interessi di un’economia onnipotente che non può e non vuole
desistere dalla propria corsa sfrenata al profitto.
L’egemonia
economica e militare degli USA al giro di boa del millennio è uno degli indizi
che ci fanno capire che gli ideali della Rivoluzione Francese non si sono
realizzati. Coloro che in questa situazione riconoscono la “fine della storia”
avrebbero condannato anche Gracchus Babeuf, secondo il quale essere a servizio
del bene dei cittadini è l’obiettivo di tutti gli organi statali. Oggi questo
sembra quasi un appello sovversivo. Come conseguenza del degrado dello Stato,
che diventa strumento degli interessi dell’economia privata, se si
salvaguardano questi diritti si diventa statalisti fuori dal mondo o
addirittura anarchici. Con manifesti simili anche gli “avversari della
globalizzazione” diventano l’obiettivo della repressione statale. E di fatto il
“Discorso sulla legittimità della resistenza” di Babeuf del 1797 sembra ancora
un manifesto rivoluzionario, mentre è in realtà un “discorso di difesa” di un
sostenitore dei diritti umani, al quale è stata mossa l’accusa di “cospirazione
contro la sicurezza interna”. Neanche i più moderati avversari della
globalizzazione neoliberale hanno potuto dimostrare che ciò che viene messo in
discussione non è tanto un reale riassetto delle relazioni esistenti, neppure
se essi si concentrano sul “fattibile” (Tobin-Steuer).
Inoltre
il termine “avversario della globalizzazione” è fuorviante anche perché i critici dell’ordinamento neoliberale che coinvolge l’economia mondiale hanno
riconosciuto che possono esistere soltanto soluzioni globali determinate da ciò
che si potrebbe chiamare “solidarietà internazionale”. Quindi ciò che una tale
politica esige non è affatto solo un atteggiamento di fondo di carattere etico,
ma un precetto della ragione di fronte agli urgenti problemi dell’umanità.
Una lunga crociata
Of
war / we don’t
speak anymore/of war
We will fight the
heathens
System Of A Down
Come
se non esistessero alternative: il “nostro” governo, del tutto assente, ci conduce con lucidità
verso “tempi durissimi” (J. Fischer), rinunciando ad una propria autonomia
verso l’esterno e soffocando all’interno la capacità operativa degli organi
federali.
Di
fatto questi governi dominati dal principio del centralismo
non sono in grado di offrire alcuna soluzione a
compensazione dei diversi interessi. In questo modo trovano riparo
nell’assoluta ubbidienza sotto la protezione di un potere centrale.
Ma
finora è andato sempre tutto
bene? Non sono forse svaniti l’incubo e l’eccitazione che dopo gli attentati
hanno spinto gli uomini a riflettere sulle loro vite? Non è rimasto tutto come
prima? Di fronte a questa realtà normalizzata, non dovrebbero dunque tacere
coloro che all’inizio del conflitto Nato in Afghanistan dipingevano il futuro
a tinte fosche?
Anche
se può sembrare cinico, ciò
che più conta negli avvenimenti dell’11 settembre sono le conseguenze
dell’attentato e in primo luogo l’eccessiva militarizzazione della politica.
Con l’aumento della spesa per gli armamenti gli USA hanno iniziato per primi
una corsa in avanti, e chiunque abbia qualcosa che possa essere messo in gioco
– alcuni la chiamano “libertà”, ma spesso si tratta piuttosto del desiderio di
avere un lettore DVD – si troverà a seguirli. Quello che risulterà
dall’annientamento dell’ingente patrimonio sociale accumulato attraverso la
produzione di armi di distruzione e dal passaggio dal capitale sociale alla
proprietà privata, sarà l’indebolimento del “fronte interno”. I cittadini degli
stati maggiormente sviluppati si accorgeranno infatti dove verrà a mancare il
denaro, avvertiranno un incremento delle migrazioni ed una maggiore riduzione
dell’apparato sociale, accompagnati da una riduzione delle misure necessarie
per arginare i danni ecologici. Ci accorgeremo che la “sicurezza interna” ed il
benessere sociale verranno sacrificati per mantenere globalmente in vita un
ordine mondiale criminoso e distruttivo dal quale sempre meno la gente comune
potrà direttamente o indirettamente beneficiare. Il fatto che verrà sacrificata
non solo la civiltà, ma anche la cultura dell’Umanesimo e i bisogni primari
materiali dell’uomo, anziché affrontare effettivamente la situazione, non
produrrà soltanto uno stato di letargia delle nostre coscienze sporche. Per
sapere da dove saranno sottratti i soldi per le armi, sarà sufficiente leggere
il bilancio dell’amministrazione Bush. Per non parlare poi delle restrizioni ai
diritti dei cittadini. Anche se si deve ancora accertare se l’introduzione
delle “norme di sicurezza” abbia incontrato veramente un’opposizione solo
marginale. Tali norme non fanno altro che dare il via libera all’abuso di
stato, e non hanno di fatto nessun’altra funzione, dato che non offrono alcuna
soluzione concreta agli attentati suicidi. Ma alla percezione umana del vissuto
manca la capacità di guardare le immagini in rapida sequenza, e quindi il
singolo non percepisce in modo drammatico o ravvicinato i cambiamenti che l’11
settembre ha apportato alla sua quotidianità. Si è tornati così ad una quotidianità
nella quale si è insediata la possibilità di attentati terroristici e di
guerre. Forse sarebbe stato meglio non tornarvi in modo così repentino.
Cospirazioni e giuramenti
È rimasto un dubbio sulla
presentazione ufficiale dei fatti dell’11 settembre 2001, ed un’insicurezza
rispetto a ciò che ancora verrà. Tutto ciò si manifesta nella persistenza di
teorie di cospirazione che tentano di spiegare ciò che “risulta caotico e
sembra essere al di là di ogni comprensibilità umana” (R. A. Wilson). In realtà,
tali teorie possono essere di due tipi: 1) I detentori del poterei negli USA (o
alcune parti del potere centrale) hanno sacrificato nell’11 settembre i propri
cittadini perché intendevano raggiungere precisi obbiettivi sfruttando gli
attentati terroristici. Questa teoria si basa sul presunto oscuramento da parte
delle autorità inquirenti e sul fatto che i servizi segreti erano già in
possesso di informazioni precise sugli imminenti attentati. 2) Per mancanza di
“informazioni attendibili”, molti ricorrono rapidamente alle teorie di
cospirazione già esistenti. E così questa teoria si sintetizza nel motto “La
colpa è degli ebrei”. Ciò che accomuna queste teorie è l’affermazione che gli
autori dell’11 settembre 2001 non sono i “veri autori”. Sembra difficile poter
capire il grado di cecità degli attentatori suicidi. E così ritorna in voga
un’ostilità irrazionale nei confronti dei potenti degli USA, oltre che del
tradizionale antisemitismo. A ciò può anche, ma non solo, aver contribuito la
tabuizzazione della critica alla politica americana e israeliana. Tuttavia
bisognerebbe fare una distinzione tra la possibilità di un criticabile
coinvolgimento dei servizi segreti americani e israeliani e i successivi
attacchi alle rispettive comunità. Proprio per questo si deve porre fine al
processo di tabuizzazione: il travestimento del risentimento nazionalista,
revanscista e razzista riesce solo poiché un dibattito aperto viene impedito
dalla diffamazione aprioristica di ogni critica.
Anche
la discussione sulle alternative alla politica attuale è prigioniera di schemi
fissi. Sembra che sia possibile parlare di “civiltà“ solo mantenendosi al
seguito dell’America. Ma la questione non è preferire una barbarie civile sotto
il dominio degli USA ad una barbarie di fondamentalisti ostili al progresso.
Deve pur essere possibile condurre un dibattito nel quale l’“America“ non
rappresenti l’unico metro di giudizio valido. Non si tratta certo di
autoaffermazione di altri interessi nazionali, né di “finlandizzazione” del
mondo.
Si
tratta di non diventare ostaggi di una superpotenza che impedisce
di attuare
trasformazioni necessarie, sia nel campo del diritto internazionale che nella
struttura dell’economia mondiale. Ed è bene ricordare che in ogni decisione
presa a livello statale è il grado di utilità per il benessere della
collettività a dover fungere da metro di misura. Così come si è assistito ad
una crescita della consapevolezza sociale sul carattere globale dei processi
mondiali, così come i problemi, i conflitti e le minacce vanno affrontati oggi
più che mai in prospettiva globale, alla stessa stregua è cresciuta la
necessità di un’azione globale. E’ un’affermazione del pensiero e dell’azione
globale che esige altre strategie. Dire che non esistono alternative è
un’enorme menzogna, a meno che la comunità umana non abbia stabilito di
aggrapparsi a tutti i costi all’ordine costituito anche al prezzo del proprio
declino. Se il capitalismo ha vinto il confronto tra i sistemi economici
possibili, non significa che debba essere infallibile fino alla fine
dell’umanità.
La
maggioranza degli esseri umani che vivono sul nostro pianeta è scarsamente
disposta a dare la vita per gli interessi economici di pochi
o per la difesa di un ordine
repressivo.
Se
solo dopo gli atti terroristici dell’11 settembre è
apparso in tutta chiarezza quanto sia a rischio la pace mondiale, allora vale
la pena di chiedersi se non sia così perché sono gli USA a decidere le regole
della convivenza. Allora sarebbe un comportamento suicida incatenarsi a questa
superpotenza. Forse è necessario esercitare una maggior pressione
sull’amministrazione USA affinché essa rinunci alla militarizzazione della
politica e alle pretese egemoniche. Anziché rispondere al terrore con la guerra
ed il terrore, occorrerebbe insistere sul fatto che il terrore deve cessare
affinché esso possa cessare veramente.
(Traduzione a cura di: Belfiore Anna, Bonato Elena, Brenko Luana, Chemello
Benetta, Dalla Vecchia Sara, Fasolo Laura, Galvan Michele, Mattiello
Gianpaolo, Mauro Maria Teresa, Mettifogo Giorgia, Rebeschini Valentina,
Righele Chiara, Russo Romina, Zaffonato Anna, allievi del corso
di Traduzione dal Tedesco III presso la "Scuola Superiore Universitaria
per Traduttori e Interpreti" di Vicenza, con la supervisione del
Prof. Bruno Persico)
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