OUT
OF THE NIGHT
Jan
Valtin
Pubblichiamo
di seguito alcuni brani del romanzo ”Out of the night” di
Jan Valtin, alias Richard Krebs, di cui si è già parlato
diffusamente nella scorsa edizione dell‘”Avversario”:
Quella
strategia ottenne dei risultati. Si arrivò a stravolgere
gli equipaggi di sette-otto piroscafi sovietici, e fu
cosí che alcuni russi che al Club Internazionale godevano
di alta considerazione improvvisamente scomparvero. Nel
febbraio del '32 venne pianificato il sequestro di Andersen,
il quale avrebbe dovuto essere trasportato in Unione
Sovietica a bordo di una nave russa. Ricevetti da Schmidt,
i cui occhi da cospiratore sembravano sempre annusare
il terreno ai suoi piedi, e da Hermann Schubert, il parlamentare
del Reichstag a capo del partito di Amburgo, l'incarico
di selezionare dieci uomini fidati del mio apparato da
porre al servizio di Karl Stevens, meglio noto come Punch,
uno dei funzionari piú spietati del controspionaggio.
Stevens e la sua squadra di dieci uomini avrebbero sequestrato
Andersen. |
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Quest'ultimo però aveva appreso dalle sue spie
quel che bolliva in pentola; cosí quando un mattino Stevens e
i suoi uomini si presentarono nell'ufficio di Andersen, trovarono
ad attenderli una banda di marinai inglesi muniti di randelli
e tirapugni. Scoppiò un durissimo corpo a corpo. L'ufficio venne
distrutto e alla fine Andersen giaceva sotto il tavolo con la
testa rotta. Accorse la polizia e gli aggressori dovettero disperdersi.
Dopo un soggiorno in ospedale Andersen ritornò in Inghilterra.
Per rappresaglia il Club Internazionale una notte venne assalito
da una banda di uomini armati, ad un'ora in cui era pieno di
marinai dei piú svariati paesi con le loro ragazze. Il giorno
dopo contai piú di duecento sedie rotte: i marinai avevano utilizzato
le gambe delle sedie per difendersi dagli aggressori. Come al
solito la polizia arrivò quando era già tutto finito; gli interrogatori
che seguirono furono superficiali ed evidentemente servivano
solo a stendere il verbale. I giornali inglesi, che poco tempo
prima avevano riportato l'aggressione ad Andersen, caratterizzarono
il Club Internazionale di Amburgo come una "tana di assassini".
Punch Stevens sparí da Amburgo per sfuggire
alle persecuzioni della polizia ispirate da un'altra faccenda.
Qualche anno dopo, in una prigione nazista, appresi da un detenuto
che Stevens nel 1934 era stato riconosciuto da un agente della
Gestapo mentre indossava un'uniforme delle SA. Era stato catturato
e interrogato. Sotto tortura aveva confessato di essersi infiltrato
per conto della GPU, e dopo tre mesi un tribunale lo aveva condannato
all'ergastolo. Con tutto ciò, se la cavò in definitiva meglio
del suo superiore Hermann Schubert, una delle colonne del comunismo
tedesco, il quale dapprima riparò in Unione Sovietica, dove ottenne
un posto di insegnante alla Scuola di Lenin, e successivamente,
come altri rifugiati comunisti, venne ammazzato in una gattabuia
della GPU durante le purghe staliniane.
(...) Altri tre uomini vennero
sequestrati durante la prima metà del 1932 e condotti segretamente
a Leningrado. Sparirono da Amburgo a bordo dei vaporetti Aleksej Rykov e Rosa
Luxemburg. Tutti i rapimenti avvennero sotto gli occhi delle
autorità tedesche senza sollevare il minimo sospetto. A quell'epoca
l'apparato della GPU era cosí efficiente ed esteso su tutti i
continenti che funzionava come uno stato nello stato.
Una delle vittime era membro
della Missione Commerciale sovietica a Berlino. Aveva sottratto
indebitamente
una notevole somma di denaro e si era trasferito a Colonia per
aprirvi una ditta di esportazioni di giocattoli. Venne arrestato
a Colonia da Michael Avatin e dai suoi aiutanti e riportato a
Berlino, dove un "tribunale proletario", costituito
da due agenti della GPU e da due membri della cellula comunista
in seno alla Missione Commerciale, decise di spedirlo a Mosca.
L'uomo, un individuo tarchiato e occhialuto dall'aria afflitta,
venne portato ad Amburgo sotto la vigilanza della GPU. Per evitare
che si suicidasse venne tenuto legato giorno e notte. Un marinaio
della Rosa Luxemburg ricevette l'ordine di "sparire",
e cosí l'infelice malversatore berlinese venne registrato al
suo posto come regolare membro dell'equipaggio. Non si seppe
piú nulla di lui, ma si può considerare per certo che una volta
arrivato in Russia sia stato fucilato.
Gli altri due passeggeri involontari per la
Russia erano italiani. La polizia politica di Mussolini, l'Ovra,
a quel tempo era molto attiva in Germania e in Austria. Ad ogni
consolato italiano di regola veniva assegnato uno spione. Il
primo venne arrestato dalla GPU a Vienna, dove recitava la parte
di un ufficiale antifascista della guarnigione di Milano. Si
era dato come perseguitato dall'Ovra e membro del clandestino
Partito Comunista Italiano. Il suo vero compito era invece di
portare alla luce i trasporti di materiale propagandistico comunista,
che venivano stampati in italiano a Vienna e poi contrabbandati
oltreconfine. Veniva pagato duemila lire per il sequestro di
ogni trasporto clandestino. Arrivò ad Amburgo come prigioniero
della GPU piú morto che vivo, e da qui venne condotto a Leningrado
sulla Alexej Rykov.
La seconda vittima era una spia
italiana che apparteneva al consolato di Amburgo. Comparve
nel mio ufficio
intorno al 20 maggio 1932, affermando di essere un comunista
evaso dal carcere di Torino. Aveva con sé ritagli di giornale
che provavano la sua versione, e cosí venne assegnato come volontario
alla sezione italiana del Club Internazionale di Amburgo, allora
molto attiva. La sezione otteneva appoggi straordinari, pubblicava
un giornale e stampava prospetti che poi venivano trasportati
clandestinamente dalle navi dirette in Italia. Tra le navi italiane
in tansito nei mari del nord, non ce n'era una che non avesse
una cellula comunista nell'equipaggio. Il compito dello spione
era proprio quello di scoprire l'identità degli uomini di collegamento,
affinché potessero essere arrestati dall'Ovra una volta
sbarcati in Italia.
Io non avevo alcun sospetto che
il nuovo arrivato potesse essere una spia. Faceva una buona
impressione e parlava
come un comunista ben preparato. Va detto inoltre che in un centro
marittimo internazionale come Amburgo i perseguitati politici
spuntavano a fiocchi. Alcuni arrivavano via terra, altri via
mare come passeggeri clandestini. Se avvertii l'apparato di controspionaggio
affinché controllasse il nuovo venuto, era piú perché cosí stabiliva
la procedura ordinaria. Tutti i nuovi arrivati che non presentassero
credenziali o raccomandazioni del partito restavano sotto stretta
vigilanza finché non veniva accertata la loro affidabilità.
L'italiano ricevette una stanza presso la famiglia
di un membro del partito. Quando si recava al porto, veniva pedinato
dagli uomini della sicurezza. Una ragazza della Federazione Giovanile
ricevette la consegna di fare amicizia con lui. Io stavo ben
attento a non affidargli alcun incarico sulle navi italiane.
Siccome parlava la lingua, venne assegnato in prova alla sezione
francese.
L'italiano si chiamava Giacomo
Bianchi. All'inizio non commise nessuno degli errori o ingenuità in cui incappava
la maggior parte delle spie: nella sua stanza non venne trovato
alcun materiale compromettente; evitava di porre domande su questioni
che esulavano dalle sue funzioni; non spendeva mai piú di quel
poco che gli passava settimanalmente la sezione francese; non
riceveva posta, né scriveva lettere.
Ciononostante si tradí. Io ero già in procinto
di revocargli la vigilanza ed accoglierlo tra le nostre fila
a braccia aperte, quando Hugo Marx apparve come un fantasma sussurrando: "È meglio
che tu sia prudente".
"Hai scoperto qualcosa?",
domandai.
Marx annuí. La notte precedente
nel Club Internazionale un gruppo di marinai italiani aveva
partecipato ad un rinfresco
che aveva fatto seguito a una manifestazione politica. Anche
Giacomo Bianchi era presente e chiacchierava con i marinai francesi.
Gli italiani erano stati invitati da un gruppo di russi, la birra
scorreva e regnava un'atmosfera festosa. Giacomo tuttavia non
aveva provato a fraternizzare con i suoi connazionali antifascisti
nemmeno con una parola o con un gesto.
"Tutto ciò è sospetto", sussurrò Hugo
Marx. "Giacomo è una spia. Se non lo fosse, avrebbe attaccato
bottone con i suoi connazionali. Per paura di tradirsi, ha evitato
di parlare con loro in presenza di terzi."
La vigilanza di Giacomo venne
rafforzata. Una notte, mentre era a letto con la ragazza della
Federazione Giovanile,
le promise di portarla con sé in Italia. Lei si dichiarò entusiasta,
si strinse a lui ancora di piú e lo incoraggiò a parlare. "Ho
delle conoscenze influenti", aveva insinuato Giacomo misteriosamente.
L'indomani avevamo un resoconto sotto gli occhi.
Alcuni giorni dopo Giacomo venne
pedinato fino ad un ristorante in cui si incontrò con un estraneo per pranzare.
L'estraneo successivamente concluse i suoi passi al consolato
italiano. Qualche giorno piú tardi venne fotografato dagli uomini
di Hugo Marx. La fotografia finí nella borsetta della ragazza,
la quale la stessa sera la mostrò a Giacomo nel ristorante del
Club Internazionale dove stavano mangiando, dicendo: "Abbiamo
beccato uno spione italiano. Ci ha rivelato una lista dei suoi
collaboratori. Dobbiamo brindare!".
Giacomo non attese un minuto.
Si scusò e corse
via. Due agenti della GPU lo trovarono nella sua stanza mentre
faceva i bagagli in tutta fretta.
La spia venne quasi torturata
a morte nella cantina della birra del Club Internazionale.
A ciò contribuirono
i compagni della sezione italiana, i quali provavano un odio
smisurato per le spie dell'Ovra e intendevano farlo soffrire
il piú possibile. Venne pestato finché non rivelò tutto quel
che sapeva sulle attività dell'Ovra in Germania. Successivamente
era impossibile per la GPU lasciarlo andare. Avrebbe infomato
la polizia e avvertito i suoi colleghi spioni. Se non fossi intervenuto
io, sarebbe stato ucciso dagli italiani sul posto. Ma non si
poteva rischiare che venisse eventualmente scoperto un cadavere
lí da noi. Giacomo venne trasportato sulla Kohlofen 19, la prigione
segreta della GPU ad Amburgo. Io non lo rividi mai piú. Dopo
alcune settimane venne trasportato in Unione Sovietica con la Aleksej
Rykov. Nemmeno la ragazza che era stata sua amante venne
mai a sapere nulla sulla sua fine. Le raccontarono che Giacomo
era riuscito a scappare in Olanda.
(...) Ci trovavamo sul treno
diretto ad Amburgo: Wollweber, John Scheer, Cilly ed io. Non
era il treno espresso
che avevo utilizzato spesso in tempi piú tranquilli.
La prudenza vietava ad un ricercato
di mostrarsi in una stazione importante. Da Berlino eravamo
arrivati a Spandau
con i mezzi pubblici urbani, e da lí avevamo preso un locale
che ci avrebbe portato fino a Bergedorf, una cittadina dell'hinterland
amburghese. In quel modo potevamo evitare i controlli della Gestapo
alla stazione centrale di Amburgo. Io e Wollweber sedevamo in
due diversi scompartimenti dello stesso vagone, mentre John Scheer
e Cilly avevano preso posto in un altro vagone alla fine del
treno. Wollweber e Cilly avevano dei passaporti danesi, io uno
belga, mentre il compagno Scheer aveva con sé delle lettere di
raccomandazione di un commerciante di Minneapolis. John Scheer
era un trentaseienne dall'aria distinta, aveva tratti spigolosi
e occhi chiari. Vestiva di blu scuro e aveva l'aspetto di un
ufficiale della marina in borghese.
Il viaggio era noioso e il treno
piuttosto affollato di passeggeri che scendevano dopo poche
fermate. Alcuni di essi
erano SA della zona; il treno si fermava sempre dopo pochi chilometri
in un'oscura stazione della regione dell'Elba. A Berlino avevo
comprato un quotidiano francese molto noto. Ad ogni fermata lo
utilizzavo per sfuggire agli sguardi curiosi degli altri passeggeri
o dei ferrovieri a terra. Né io né i miei compagni di viaggio
sospettavamo che la Gestapo avesse appena introdotto una nuova
misura di controllo a tappeto.
Il treno si avvicinava a Ludwigslust,
una cittadina a centoventicinque chilometri da Amburgo dalle
cui parti si trovava
la tomba di Bismack. La locomotiva sibilò, rallentò la sua marcia
e infine si arrestò come aveva fatto a tutte le altre stazioni
della tratta. Sprofondai ancora una volta nella lettura del mio
giornale tenendolo in modo che nessuno potesse vedere il mio
viso, ed attesi cosí che il treno riprendesse la marcia.
Il treno però non si muoveva. Sussultai all‘udire
la voce di un sottuficiale che dal binario gridava in direzione
dei vagoni: "Scendere tutti! Tutti i passeggeri scendano
dal treno!".
Scoppiò grande agitazione, uno scalpiccío di
passi e un sussurrío eccitato nei corridoi delle carrozze. Io
sollevai lo sguardo dal giornale.
Il treno era stato accerchiato
dalle camicie brune. Portavano al braccio la fascia bianca
della polizia ausiliaria
di Göring. Le pistole spuntavano dalle fodere e i sottogola degli
elmetti erano ben tesi al mento. Riuscivo a vedere i passeggeri
che smontavano dalle carrozze. Alcuni scherzavano, altri erano
agitati e domandavano intorno, un paio guardavano le SA con evidente
raccapriccio. Io rabbrividivo al pensiero: "E ora? La partita è persa!".
Mi venne in mente una canzone bella e triste
che Firelei cantava volentieri: Addio terra verde, suonava
il primo verso.
Risuonò nuovamente il perentorio comando: "Scendere
tutti dal treno!".
A qualche metro di distanza Ernst
Wollweber attendeva sul binario, i suoi occhi neri scintillavano
al sole.
Si accese una sigaretta col fiammifero, e i suoi occhi seguirono
una nuvola di fumo che si disperdeva nell'aria chiara del mattino.
Io scesi dalla carrozza, passai vicino a Wollweber e lo urtai
schiacciandogli il piede. Mi levai il cappello. "Chiedo
scusa", dissi.
"Tieni i nervi saldi", borbottò il
capo "questa gente non sa nulla."
Nella calca venimmo separati.
Io raggiunsi la fine del treno nella speranza di scoprire una
via di fuga, ma
l'accerchiamento delle SA era assoluto. Chiunque fosse stato
cosí pazzo da tentare una sortita sarebbe stato certamente impallinato.
Gli uomini delle SA perquisirono le carrozze, guardarono nei
ripostigli degli attrezzi e nei bagni. Alla fine del treno Cilly
chiacchierava con una camicia bruna. Aveva piegato la testa all'indietro,
mostrava il suo lungo collo bianco, e il nazista sorrideva grato.
John Scheer faceva mostra di interessarsi vivamente alla locomotiva;
non guardava né a destra né a manca, e cercava di mantenersi
il piú distante possibile da Wollweber.
Senza motivo apparente mi misi
a seguire John Scheer. Tastai con le dita il mio buon passaporto
belga. Per
me in quel momento era importante come una misera zattera per
un naufrago in mezzo all'oceano. Improvvisamente mi resi conto
del perché seguissi John Scheer. Mi era venuta la balzana idea
che il compagno Scheer potesse essere macchinista, e che forse
avesse intenzione di montare a sorpresa sulla locomotiva e di
fuggire a tutto vapore. Naturalmente non accadde niente di tutto
ciò. Scheer si fermò all'altezza della cabina del macchinista,
strinse le mani dietro la schiena, e si mise a guardare oltre
le camicie brune in modo altero. Io tornai indietro. Il viso
di Ernst Wollweber era diventato una maschera scura. Si accese
un'altra sigaretta. Mi venne un pensiero strano, che non aveva
niente a che fare col pericolo immediato. "Il nostro obiettivo è ottenebrato",
pensai, "il movimento è diventato un obiettivo fine a sé stesso".
Si sentí una voce come proveniente da un megafono: "Tutti
i passeggeri si mettano in fila e mostrino i documenti".
Alla fine del binario si trovava
un tavolino, sul quale giaceva un libro di medio formato. Dietro
il tavolino
sedevano due giovanotti in borghese - uomini della Gestapo. In
fila per uno davanti al tavolino i passeggeri attendevano il
loro turno. Tra i primi dieci si trovava John Scheer. Tra me
e lui si trovavano cinque o sei passeggeri. Quasi alla fine della
lunga coda si trovava Ernst Wollweber, e dietro a lui Cilly,
piú alta di quasi una testa. A poca distanza dal treno un giovane
alto dagli scintillanti occhi azzurri osservava la scena con
un'espressione di arrogante superbia. Non indossava uniformi,
ma all'occhiello portava il simbolo di sovranità d'argento, l'aquila
nazista. Si trattava dell'ufficiale responsabile di tutta l'operazione.
"Avanti!"
Trovarsi di fronte la Gestapo
in pieno giorno era cosa assolutamente diversa da uno scontro
notturno. Non avevo
alcuna fretta di vedere quel che sarebbe accaduto con Wollweber
e Cilly. Tutti i miei sforzi si concentravano nello sforzo di
mostrarmi il piú naturale possibile di fronte al tavolino.
Il controllo cominciò. I viaggiatori dovevano
presentarsi singolarmente, mostrare i documenti e rispondere
a qualche domanda. Nel frattempo un reparto delle SA controllava
i bagagli rimasti sul treno. Diversi passeggeri davanti a me
mostrarono una tessera del partito nazista e superarono il controllo
indisturbati. Qualcuno dietro a me ad un tratto perse i sensi.
Era un ebreo. Un paio di SA si chinarono su di lui e gli controllarono
le tasche. Successivamente lo riportarono sul treno. Le camicie
brune erano cortesi, avevano portato delle sedie per le donne
piú anziane. La coda si assottigliava rapidamente.
A un certo momento toccò a John Scheer. Posò il
suo passaporto sul tavolo e si mise ad osservare per aria in
modo disinteressato. Uno degli agenti della Gestapo controllava
il passaporto, mentre l'altro guardava nel libro che conteneva
le liste di nominativi e qualche fotografia.
"Parla tedesco?"
John Scheer scosse la testa. "I speak english",
disse.
L'uomo della Gestapo domandò in cattivo inglese: "Why
are you traveling in Germany?"
"Tourist", disse John
Scheer.
"You travel alone?"
"Yes".
"What is your business in
America?"
"I have a steam laundry".
"What do you intend to do
in Hamburg?"
"Take ship for New York"
"How much money have you?"
"Ninety marks".
"Oh, you have bought your
steamer ticket?"
"Right".
"Please show it", pretese
l'uomo della Gestapo.
"I do not have it here, a friend has it
in Hamburg".
"Give the name and address of your friend".
Scheer forní un nominativo qualsiasi
e il nome di una strada che non esisteva. L'agente che controllava
la lista
dei sospetti si scrisse una nota a matita.
"Thank you", disse John Scheer, allontanandosi.
Non aveva percorso sei passi in direzione del treno, che l'agente
della Gestapo gli gridò dietro: "Sta dimenticando qualcosa!".
Il compagno Scheer aveva lasciato sul tavolo il suo passaporto
americano. Scheer ritornò sui suoi passi con il braccio teso.
L'agente della Gestapo però si tenne il passaporto ben stretto.
"Pensavo che non capisse il tedesco",
disse irritato. John Scheer si osservava le unghie: "A little
I understand", disse.
L'ufficiale della Gestapo, che
fino a quel momento aveva osservato la scena senza dire una
parola, entrò in azione: "C'è qualche
nazionalsocialista che sa parlare americano?", chiese ad
alta voce in direzione dei viaggiatori in fila. Spuntarono due
nazisti che sapevano parlare "americano". John Scheer
perse visibilmente il suo autocontrollo. La sua espressione del
viso si irrigidí. I viaggiatori nazisti gli rivolsero la parola
in inglese, e lui cercò di rispondere.
"Questo signore non è certamente un americano",
spiegò uno dei nazisti. John Scheer parlava un cattivo inglese,
e inoltre non aveva l'accento americano.
"Mi dispiace, ma dobbiamo arrestarla. Ha
con sé dei bagagli?"
Due uomini delle SA condussero
il compagno Scheer nella sala d'attesa della stazione. Aveva
già ritrovato la padronanza
di sé. Era l'ultima cosa che vidi di lui. Alcuni mesi dopo circolò la
notizia che fosse stato ucciso. Nessuno, a parte i suoi assassini,
venne mai a sapere come era morto.
Il controllo riprese il suo corso.
A parte il fatto che mi facevano male gli occhi, per il resto
avevo già dimenticato
John Scheer. Stava arrivando il mio turno. Solo due uomini e
una donna mi separavano dal tavolino. Ero a conoscenza che il
mio passaporto aveva un difetto: se si teneva la seconda pagina
controluce, si poteva distinguere un tratto in cui la carta del
passaporto era piú sottile. Si trattava del punto da cui era
stata rimossa la fotografia originale per attaccarvi la mia.
All'uomo di fronte a me vennero poste diverse domande. Io ascoltavo
meccanicamente le sue risposte. Era austriaco e andava a trovare
sua sorella sposata nell'antica città di Lauenburg. Durante tutto
l'interrogatorio spostò continuamente il suo peso da una gamba
all'altra.
"Bene, può ritornare sul treno". L'austriaco
si allontanò lieto.
"Il prossimo, per favore".
Mi avvicinai e porsi all'uomo
della Gestapo il mio passaporto. L'altro agente, dopo avermi
osservato per
un lungo istante, sprofondò nuovamente nella lista dei ricercati.
Il loro superiore restava defilato da un lato e immobile come
una statua.
"Parla tedesco?"
"Sí!". Io mi tranquillizzai. La paura
che mi aveva fatto sudare da tutti i pori svaní repentinamente.
"Viaggia solo?"
"Sí".
"Per quale motivo si trova
in Germania?"
"Sono marinaio. Ho lasciato la mia nave
a Danzica. Rientro in Belgio per imbarcarmi su un'altra nave".
L'uomo della Gestapo sollevò lo sguardo su di
me. "Come si chiamava la Sua nave?"
"Yser, di Anversa", dissi. "Una
nave belga".
"Come mai non c'è nessun visto di transito
polacco sul suo passaporto?". Le sue dita schiacciavano
letteralmente la pagina priva di timbri del mio passaporto.
"Il consolato belga di Danzica mi ha spedito
a Stettino via mare. A Stettino poi ho preso il treno".
"Mi mostri il biglietto".
Su consiglio di Wollweber avevo fortunatamente
comprato un biglietto Berlino/Amburgo-centrale.
"Perché va ad Amburgo?"
"Il consolato di Amburgo mi spedisce ad
Anversa via mare. È piú economico del treno."
"È mai stato prima in Germania?"
"Solo a bordo di una nave".
L'uomo della Gestapo pareva soddisfatto.
Diede un'occhiata al suo collega, che aveva nuovamente chiuso
il libro
e assentiva leggermente. Una domanda improvvisa mi precipitò di
nuovo all'erta.
"Come mai ha preso il locale
invece dell'espresso?"
"È piú economico", dissi io, "Il
consolato non ha voluto pagare il supplemento".
"Quanto denaro ha con sé?"
"Quarantatre marchi".
"Dove ha imparato il tedesco?"
"Mia madre è di Eupen. Io vi ho vissuto
per molti anni. Prima che firmassero Versailles la regione era
tedesca".
"Ah, allora lei è, per cosí dire,
un connazionale?"
"Sicuro."
"Grazie, può ritornare sul
treno."
Finalmente potevo dirmi al sicuro.
Notai con terrore che ritornavo verso il mio scompartimento
troppo velocemente.
Spaventoso, mi ero quasi messo a correre. Mi costrinsi a camminare
piú piano, in modo da non destare sospetti.
Non appena sedetti nuovamente
sul treno, pensai a Ernst Wollweber. Non ce l'avrebbe mai fatta.
Se nella lista
dei ricercati ci fosse stata solo una foto, sarebbe stata sicuramente
la sua. Abbassai il vetro del finestrino e incollai lo sguardo
su Wollweber, tenendomi stretto ad entrambe le parti della finestra...
L'agitazione trattenuta ribolliva come lava, era cosí forte che
pensavo che il suolo potesse cedermi sotto i piedi.
Ernst Wollweber fumava senza interruzioni. Non
sembrava minimamente agitato. La sua tarchiata figura faceva
un'impressione innocua e insignificante in confronto alla bellezza
di Cilly dietro a lui, e alle spalle larghe dell'uomo che gli
stava davanti, una faccia rozza da lattaio o da mercante di cavalli
con una pesante catena dell'orologio.
La fila si accorciava. Due uomini
privi di documenti vennero condotti nella sala d'attesa. Era
trascorsa circa un'ora
da quando il treno si era fermato. L'ufficiale della Gestapo
era visibilmente impazientito. Percorreva la coda avanti e indietro,
poi ad un tratto ordinò alle donne e ad alcuni bambini di ritornare
sul treno senza essere controllati. Tra di essi si trovava anche
Cilly. Rientrò nel suo scompartimento con un passo leggiadro
e senza alcuna fretta. Un buon numero di viaggiatori di sesso
maschile attendeva ancora in fila. L'ultimo era Ernst Wollweber.
La sua testa sulle spalle tozze diventava irrequieta. I suoi
piedi nervosi andavano avanti e indietro sul terreno. Per lui
la morte attendeva a meno di venti metri di distanza.
La banale stazione e il cielo
azzurro, gli alberi, le case e la locomotiva - tutti sembravano
chiedersi: "Compagno
Ernst... e ora?"
A un certo punto accadde qualcosa
di stupefacente. Ernst Wollweber zoppicò fuori dalla fila. Il suo viso era la
smorfia di un sorriso imbarazzato. Zoppicò fino all'altezza del
giovane ufficiale della Gestapo e si inchinò maldestramente porgendo
il suo passaporto danese grigio-chiaro. Un attimo dopo i due
erano già assorbiti da una conversazione. Dopo che gli agenti
della Gestapo al tavolo videro che chiacchierava con l'ufficiale
non si permisero di richiamarlo in fila, né trantomeno di porgli
anche una sola delle domande di rito. Io non riuscivo a sentire
quello che si dicevano. Conversavano vivacemente, Wollweber con
una curiosa espressione di riverenza, e l'ufficiale della Gestapo
con un'aria protettiva. Dopo avergli restituito il passaporto,
il giovane ufficiale gli diede perfino una pacca sulle spalle
con la mano guantata.
Il controllo degli altri viaggiatori
era arrivato quasi alla fine. L'ufficiale della Gestapo accompagnò Wollweber
fino allo scompartimento e restò a chiacchierare con lui per
tutto il tempo. Io mi avvicinai alla finestra successiva, da
dove si potevano intercettare brandelli di conversazione.
"Tanti saluti ai nostri consanguinei dello
Schleswig del Nord", disse l'ufficiale, "la nuova Germania
non dimentica i suoi fratelli d'oltreconfine. Buon viaggio! Buon
viaggio!"
La voce di un sottuficiale risuonò: "È tutto
a posto".
Il treno si mise lentamente in
movimento. L'ufficiale della Gestapo stava sull'attenti. Il
suo braccio si allungò diritto
verso l'alto.
"Arrivederci! Heil Hitler!"
"Heil Hitler!", rispose
Wollweber, senza muovere un dito.
In un ristorante vegetariano
di Bergedorf Wollweber ordinò a Cilly di ritornare immediatamente
a Berlino. I ritrovi illegali, le sezioni clandestine, i punti
di collegamento, gli
appartamenti di copertura - tutte le ruote dell'ingranaggio di
cui Scheer era a conoscenza avrebbero dovuto essere modificate
prima che cedesse la sua resistenza alla tortura della Gestapo.
Piú tardi, ad Amburgo, chiesi a Wollweber: "Come
hai fatto?"
"Fatto cosa?"
"Sul treno - a Ludwigslust?"
Lo slesiano rispose con il suo solito sorriso
sardonico.
"Gli ho detto che avevo la gotta",
disse "e che non ce la facevo piú ad aspettare in fila.
Gli ho raccontato che ero un tedesco-danese, venuto a sincerarsi
di persona che le notizie che riportava la stampa internazionale
non erano altro che menzogne sioniste. Il ragazzo si è sentito
lusingato e si è bevuto tutto. Era orgoglioso come un galletto."
Per
il resto della giornata Wollweber dimenticò i problemi della
clandestinità. Si chiuse nella stanza che gli avevo procurato presso una famiglia
di operai che abitava nella zona dell'aeroporto. In perfetta solitudine si
scolò un'imponente quantità di bottiglie di birra Patzenhof.(Traduzione di
Antonello Piana)
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