NON SI PARLA AL CONDUCENTE!

Caterina Bigazzi

 

Ore 8: 30. Eccomi. Stessa divisa di sempre, simile turno ormai da qualche tempo, una vettura già capitatami tante altre volte… E non ho certo bisogno di lanciare un'occhiata fuggitiva alla targhetta 2025 per accorgermi di quest'ultimo particolare. Ma che ho trascorso ormai più di vent'anni al volante di un autobus che non è mio e che non diventerà mai mio - neppure nei futuri nostalgici ricordi di pensionato, temo - sta scritto da qualche parte, sì: nelle pieghe azzurrine delle mie mani, induritesi nei tanti chilometri di un ripetitivo cammino.
Sembra ieri che mi tremavano le dita alla ricerca dei pulsanti, mentre mi sforzavo di imparare a tasto i movimenti così da renderli più sicuri e naturali, senza distogliere lo sguardo dalla strada. Ma anche lo sguardo, poi, andava corretto: non doveva sembrare troppo fisso, da automa, infausto sintomo di disagio; però neppure disinvoltamente distratto... E ogni tanto sarebbe stato bene sorridere, per mostrare che comunque mi sentivo nei miei panni, nonostante l'emozione, e che il mio posto era lì, al volante. Ero un ragazzo ancora, e mi era rimasta nelle ossa un po' della paura degli esami, accumulatasi nei pochi anni di tentata carriera come studente. Ma adesso sono qui, e ne ho fatta di strada. La dicono in molti questa frase, lo so: ma io la faccio mia in un altro senso. Ben più letterale.
Ultimamente mi sono state affidate, così come si dà a balia una creatura, le linee che attraversano tutto il centro storico. Sono orgoglioso della responsabilità, e anche un po' fiero dietro gli occhiali: dopotutto sto guidando nel mio quartiere. Spesso mi sono chiesto se io stia guidando bene. Non lo so. Credo che, comunque, la gente si fidi, altrimenti starebbero più attenti alle mie mosse invece di parlare tra loro o leggere libri e giornali. Come se non se ne sentissero già abbastanza di storie, qui a bordo. Loro non si curano di me, ma io mi improvviso ricettacolo delle loro esternazioni. Piccoli incidenti che trasformano i "bimbi" in pesti, sempre male educati dagli irresponsabili genitori; i "giovani" in egoisti senza rispetto, rumorosi invasori degli spazi altrui; i "vecchi" in irascibili vulcani pronti ad esplodere ad ogni involontario scossone ricevuto. Categorie! D'altronde, ogni storia per essere raccontata deve basarsi su categorie, unico possibile terreno d'intesa tra chi parla e chi ascolta. Unico possibile criterio di semplificazione e di comprensione della vita: la categoria. Come sono filosofico, oggi. E c'è anche la categoria degli "sbadati". Vi appartiene, per esempio, chi sostiene, usando il corredo di ogni termine a sua disposizione, di aver prenotato la fermata più vicina a piazza Beccaria, ormai passata da minuti, e vuole scendere ad ogni costo. Nonché l'isterico, che già sugli scalini si lamenta per l'alto costo del biglietto - "più caro di un caffè, manigoldi!" e poi "ma vuoi mettere la differenza?"- al quale fa eco il "politico" mancato, re dei comizi, imprecando col vicino contro le tasse e il governo e finendo per prendersela con me, come se gli scioperi della linea o i cambiamenti di percorso li decidessi io. Non decido proprio niente, io. Talvolta neppure m'informano. Non sono nato per decidere. Sto cedendo al pessimismo.
- Pensare che siamo già un'altra volta alla vigilia delle elezioni!

* * * *

Dal finestrino aperto mi giunge alle narici un intenso profumo di corolle e gelsomini. Un profumo insolito per una città. E' primavera ormai per i miei passeggeri: lo vedo dai soprabiti sempre meno ingombranti, dai vetri polverosi che sorridono al sole, dalle gocce di sudore che mi scendono dalle tempie abbronzate. Ma per me le stagioni non fanno molta differenza. Io ho da compiere il mio tragitto già fissato col sole e con la pioggia. Correre fino al capolinea, zig-zagando con la mia mole colorata tra il traffico pesante di questa città piccola, bella e impossibile.
Firenze, cantata dai poeti e consacrata dagli artisti, sa essere malvagia quando vuole. Indegna del suo nome. Quando più credi di poterti fidare della sua luce accogliente, si trasforma in un vero e proprio labirinto e fa di tutto per farti smarrire, soprattutto se la attraversi a piedi. Talvolta mi ritrovo a ridere con me stesso, vedendo turisti, non solo stranieri, che tentano di raccapezzarsi girando e rigirando tra le mani quelle infide mappe distribuite gratuitamente negli alberghi o negli Enti del Turismo. Sgualcite cartine che tutt'al più segneranno sempre quelle quattro o cinque mete obbligate: Duomo, Uffizi, Santa Croce, Galleria dell'Accademia, Giardino di Boboli, Piazzale Michelangelo...
- Sono itinerari sicuri, conformati al cosiddetto gusto medio del visitatore, rilevato tramite coscienziosa statistica e confermato da anni e anni di pratica in loco...- mi è stato risposto una volta da un "addetto ai lavori". Ma non sarà il contrario, piuttosto, cioè un tentativo di plasmare e massificare il gusto, indirizzando sempre là il disorientato conto alla rovescia del malcapitato? E se al visitatore interessasse vedere solamente, che so io, le possenti pietre della Fortezza da Basso, invece che svernare in coda per entrare alla Mostra dell'Artigianato?
- Vede là, quei giardini? Se li costeggiate potrete ammirare i resti delle mura. C'è anche una bella vasca con cigni - aggiungo subito, vedendo che i due biondi coniugi hanno prole al seguito. Mi faccio capire bene a gesti (a parte il cigno) quando voglio. Soprattutto quando in Germania studiano l'italiano e imparano un minimo di storia fiorentina.
- L'importante è che i turisti si divertano, a Firenze. - Annuisco. Non posso che confermare. Io che ci sono nato, non faccio più caso al brillare dell'Arno, ogni mattina, dalla mia finestra. Eppure quelle acque sporche sono lì che scintillano anche per me. Per me è solo acqua inquinata, talvolta pure pericolosa - ero un ragazzino, ma l'alluvione resterà un ricordo incancellabile. Penso però di non essere l'unico a mancare di romanticismo. Sono convinto che tutti i fiorentini "doc" (altra categoria, neanche fossimo vino!) abbiano dimenticato l'orgoglio di vivere qui. Ma quel che è peggio è che abbiamo perso tutti il senso della bellezza. Lo dicono in molti; ma pochi propongono un metodo per ritrovarlo. Un metodo, già: sono metodico, io. Magari un altro si alza la mattina e, zac!, d'improvviso lo ritrova, come se gli spuntasse un paio d'ali sulla schiena, esce e vola, e vede tutto con occhi diversi. Io no, ho bisogno di tempo per qualsiasi cosa.
Se è per questo, ci sono mali ben peggiori del non saper vedere - risponde colui che mi ascolta. Lo so bene. Alcuni autisti hanno perso ogni senso civico, figuriamoci se discuterebbero di queste cose. Io ancora resisto. Evito di bestemmiare, ad esempio. Anche se spesso, in questo casino, ci sarebbe da perdere il lume della ragione. Una volta udii un mio collega affermare: "La sai l'ultima, Nicola? Siamo più bravi dei macellai: trasportiamo ogni giorno tante tonnellate di carne senza neppure sporcarci le mani!" Io sorrisi, pensando senza pronunciarlo l'epiteto più appropriato a quel tipo. Pensai anche ai volti sconosciuti dei miei passeggeri, pallidi e annoiati a volte, ma vivi. Non trasporto nessuno al macello, io. Che idiozia. Altro che carne, io vorrei intervistarli uno per uno. Vorrei sapere dove vanno, io che con l'arrivo chiudo sempre il cerchio aperto alla partenza, e non vado mai in realtà da nessuna parte. Non sono un tassista: non ho neppure la sorpresa di farmi dire la destinazione da ognuno di loro. La mia strada non la decide il cliente. Chissà chi la decide, poi. Forse il mio itinerario è stato sottoposto a ferree e indiscutibili statistiche prendendo a campione il cittadino medio, dal famoso gusto medio, lungo un tragitto medio nell'ora media...

* * * *

Mi piace sentirmi utile. Ogni tanto qualcuno si avvicina per chiedermi la strada. Rispondo con precisione, una mia dote naturale, credo, anche se mia moglie non sarebbe d'accordo.
- La Banca, certo che la conosco! - Ho uno stipendio anch'io da depositarci, caro signore. Finché mi pagano. Una delle ragioni più valide che mi spinsero a fare ciò che faccio è stato proprio il mito del posto fisso, del ruolo sicuro, caro signore. Lo guardo. Il suo naso aquilino mi richiama un'immagine lontana... il profilo di Dante sulla copertina del mio libro di scuola, secoli fa. Dante mi piaceva. Il suo aldilà era ordinato, ben congegnato. Geniale. Già fissato nei minimi dettagli. Muori, e sai già dove andrai a scontare la tua pena. Ma Dante mi affascinava anche perché aveva ben presente il soffrire umano e i suoi motivi: sempre gli stessi. Categorie.
- Due fermate dopo la piazzetta, e poi a sinistra. C'è una tabaccheria di fronte, e subito un semaforo.- Mi ringrazia. Scambia la mia vocazione alla cartografia per gentilezza. Però anch'io sono grato all'ometto che mi ha ricordato Dante, e la sua implacabile pena del contrappasso. C'è un contrappasso per tutti, prima o poi. Io so già quale sarà il mio, e sono ormai tanto affezionato a quest'idea, che il vero castigo sarebbe per me arrivare all'inferno e scoprire che la mia pena è in realtà un'altra. Arrivare al capolinea in perfetto orario, e subito ripartire, senza mai fine, ma senza trasportare nessuno, così da sentirmi inutile e meschino. Sentirmi perso. Perché l'inferno, per me, è il sentirsi persi, smarriti, e non poter mai cambiar nulla, né cambiarsi.

* * * *

Eppure il cammino lo conosco: potrei fermarmi ogni volta che mi va, o prendere una scorciatoia. Me lo suggerì un bimbo, che non vedeva l'ora di arrivare al campo da calcetto e per la fretta trascurò il sacro divieto "Non si parla al conducente":
- Ehi, guidatore, perché non prendi una scorciatoia, così faccio prima? - Come facevo a rispondergli, non aveva mica torto. Ero in ritardo anch'io. Ma non basta arrivare al capolinea, occorre rispettare le fermate, sempre quelle. Non viaggio per me stesso, non trasporto tonnellate, trasporto persone. Se decidessi di portarli tutti al mare, così come sono vestiti, con gli zaini i bastoni e le borse della spesa, mi ringrazierebbero o mi denuncerebbero?
L'abitudine ha il sapore leggero del muschio che corre sui muri delle case. Se sul mio palazzo fiorissero rose, io rimpiangerei l'umile sfacciataggine del muschio. Ma io pagherei ben cara la mia sfacciataggine. Meglio attenermi umilmente al tragitto consueto. Come il canarino della fiaba. Quella fiaba di... Di chi? Non saprei. Gli orecchi ascoltano cosa viene raccontato, ma gli occhi non sempre vedono chi racconta. I miei occhi sono fissi sulla strada. Facciamo che sia una fiaba russa, o cinese. Le stranezze tendiamo tutti a collocarle il più lontano possibile, in Oriente ad esempio. Anche se invece sono qui, a portata di mano. Ma veniamo alla fiaba. Il canarino, dopo aver a lungo sognato la libertà, un bel giorno vede la porticina della gabbia aperta, ma non sa decidersi a fuggire. Il solo fatto che gli sia diventato possibile lo sconvolge. Certo sarei dubbioso anch'io, se mi dessero la possibilità di dirottare il mio autobus verso dove-mi-pare. So che finirei col ripetere le stesse tappe, come sempre. Poi, un fatale colpo di vento richiude la gabbia con dentro il canarino indeciso. Ma io non sono un canarino e non piangerei l'occasione sprecata. Avrei altre occasioni. Come se le occasioni tutte uguali fossero vere occasioni!

* * * *

L'amore per l'ordine non mi impedisce di apprezzare il disordine: un altro effetto del contrappasso. Devo confessare che mi incuriosiscono i tipi strani. Ma non gli anticonformisti a tutti i costi, che finiscono col far diventare l'eccezione una regola, e o addirittura una moda. Sono attratto da quelli che con un'occhiata ti dicono tutto o niente, che profumano di mistero e che non hanno patria, e sembrano cresciuti con la pioggia, su dal nulla. I loro passi non fanno rumore e sembrano sempre camminare sull'acqua. Fantasie. Fiabe russe. Può darsi. Ma lui era qui, ieri. Non mi crederebbe nessuno. Non ho testimoni. E forse è successo proprio perché ero solo. Salì, anche lui solo, al Duomo, come se avesse da consegnarmi un messaggio di straordinaria importanza e non tollerasse intrusi. 23:35: stavo finendo il mio turno di notte. Firenze, dispersiva di giorno, intensa e disarmata sotto la luna. Anche la notte ha il suo contrappasso, morendo nel giorno. Di notte dilato le pupille come i gatti. Mentre mi sporgevo per cogliere la figura di quel giovane curvo, dall'espressione vissuta e impertinente, lui mi salutò come se mi conoscesse. Avrebbe potuto sedersi, o almeno farsi i fatti suoi, e invece mi si avvicinò e chiese:
- Posso? Posso parlare al conducente, mica disturbo? - Scossi il capo sorpreso, gli occhiali quasi mi caddero. In vent'anni di corse, nessuno mi aveva mai parlato così. Mi disse che, di notte, le strade sembrano tutte uguali. Una frase banale, ma mi accorsi che attendeva una risposta non banale.
- Anche di giorno sono tutte uguali, per me. E' il mio lavoro. Chieda anche ai netturbini. O ai tassisti. - Non mi venne niente di meglio, sul momento. Quello ci pensò un po' su e riprese:
- Ma non le è mai venuto in mente di cambiare tragitto? - La sua domanda era estremamente suadente. Forse il serpente aveva usato quella voce quando Eva si lasciò convincere. Basta saper leggere nei pensieri, probabilmente.
- Siamo soli, io e lei. Può anche non tornare al capolinea, stanotte. Chi la costringe? La sorvegliano anche a quest'ora? L'autobus diverrà suo. Quanto a me, io non ho destinazione, posso scendere ovunque o anche non scendere affatto. Ma lei forse non potrebbe. - Scandiva le parole come pietre intagliate. Ognuna mi pesava sul collo come una promessa e una condanna insieme.
- Scommetto che lei non lo farebbe - aggiunse provocatorio. Mi apparve un bagliore di piume giallastre nel vetro rigato dalla pioggia. Ancora il canarino e la sua assurda storia!
- Non sarebbe giusto nei confronti di chi magari aspetta con fiducia questo stesso autobus alle prossime fermate. Sotto questa pioggia, poi! - Non sapevo più cosa rispondere. L'altro avvertì chiaramente che le mie erano solo scuse. Eravamo come fuori dal tempo, lontani da quella città fatta di vicoli che ti si appiccicano addosso e di lampioni fiochi a guardia sopra le pozzanghere. Lui , un egoista al pari di me. Credeva di essere solo al mondo, di domenica notte!
- La verità è che lei si perderebbe, una volta alzato il sedere dal suo autobus - insinuò. Saltai su, punto nell'orgoglio:
- Ma come si permette! Io conosco queste strade come le mie tasche, da cinquant'anni!
Il mio interlocutore ghignò da sotto il cappello, impugnando stretta una valigetta che avrei scommesso vuota, da come sobbalzava ad ogni svolta. Il suo unico bagaglio erano i discorsi.
- Mi dia ascolto, lei si perderebbe. Lei è solo un anello imprigionato nella catena, come tutti. Neppure il buio ci può mettere in discussione, neppure la notte può esserci complice, se non sappiamo decidere. - Parlava come un profeta, ma un profeta che volentieri maledirebbe Dio insieme all'alto costo del biglietto. Lui però non aveva timbrato il biglietto: non andava da nessuna parte e neppure credeva all'eventualità di un controllore. Insolita categoria.
- Forse lei non ha mai sentito parlare di libertà! Sono libero anch'io! - dissi senza più scompormi, come se ormai per me fosse la cosa più naturale subire i suoi attacchi. Rise forte, coi pochi denti cariati in bella mostra. Veniva da un mondo morto da secoli, almeno per me. Un regno dove tutto era assoluto e proprio per questo il delitto era più piacevole.
- Libertà? Ma se lei è libero solo quando non decide nulla, mio caro. Non si creda un eroe solo perché il suo autobus salva la gente dalla pioggia e dal ritardo, la pagano per questo! Se ti pagano, non sei libero. E chi non è libero non sa sbagliare, non può. La invidio, sa?
Non ci avevo mai pensato. Io un eroe. Figuriamoci, con la faccia da moro invecchiato che mi ritrovo. Un vero eroe è bello, deve venire da lontano e profumare di mistero. Mi guardai le mani sul volante. Sono solo un uomo che lavora. Lavoro bene, almeno credo. Mi calmai.
- Dove scende?
- Gliel'ho detto: dovunque. Ma potrei anche non voler scendere affatto. Comunque mi lasci lì, prima del ponte. Santa Trinita, vero? Credo che vi passeggerò un po'. Sopra, sotto, che differenza fa. Mi piacciono i ponti, sono tutti diversi tra loro. Come le tentazioni. - Lo feci scendere, sebbene lì non ci fosse neppure l'ombra di un cartello di fermata. Tremavo. L'acqua del fiume luccicava, invitante e pericolosa come non mai. Mi sentivo come quando avviene un furto a bordo. Responsabile.
Mi salutò fischiettando allegro e sistemandosi il cappello. Lo ringraziai, perfino, della compagnia. E perché, poi, ringraziare uno spostato che poc'anzi mi aveva fatto valere meno che niente? Ma quello capì, come se se lo aspettasse, dopotutto. Richiusi la portiera con un brivido. Aveva lasciato dietro di sé una scia di freddo e di muschio.

* * * *

Non l'ho più incontrato. Certo lo avrei riconosciuto, e lui avrebbe riconosciuto me. Ho pensato perciò che fosse lui quell'uomo che si è buttato dal ponte, stanotte. L'ho letto stamani sull'edicola, sbirciando i titoli, come al solito, quando il semaforo è rosso. No, non lui... troppo furbo. Forse qualcuno che ha parlato con lui e che prima, tranquillo, si credeva un eroe del dovere, e dopo una nullità. Forse lui l'ho soltanto sognato. Fischietto anch'io, la sua stessa melodia. Una ninnananna russa. O forse un carillon cinese. Basta che serva a coprire le chiacchiere, i lamenti, il rumore del traffico. E anche il silenzio di chi legge il giornale, il suono più difficile da vincere. Se il mio fischiettare potesse parlare, cosa direbbe? Che questo è il mestiere che io ho scelto. Infondo mi piace. Come mi piace Firenze. In fondo anche Dante continuava ad amare la sua città, pure in esilio. Dev'essere questo il marchio del "Fiorentino doc". E il castigo degli indecisi.
Guardo fuori. E' primavera, ancora una volta. Sarà primavera piena anche per me, quando scenderò, tra mezz'ora. Le vene dei polsi mi palpitano. Può essere che anche il sangue sia stanco di correre e di ripartire sempre nella stessa direzione, fino al cuore. Oppure pulsa gorgogliando per l'entusiasmo? Non lo so e non m'importa. Anche per il sangue c'è un capolinea, e un contrappasso.
Sale il controllore. E allora? Non mi agito. Io sono in regola.
- Ciao, collega. No, non la voglio sapere l'ultima. Tanto, me la dici lo stesso. Il bello è che io, per giunta, su quello che ascolto, ci rifletto sopra.

* * * *

Vettura 2025. Stesso orario. E' lunedì. Sbadiglio. Ma sono felice. Talmente sereno che, sulle prime, neppure la riconosco, quella voce.
- Posso? Posso parlare al conducente? Suvvia, uno strappo alla regola!





Caterina Bigazzi è nata nel 1975 a Firenze, dove vive. Nel 1999 si è laureata in Lettere ad indirizzo storico-artistico con una tesi sul pensiero estetico di John Ruskin. Attualmente è impiegata di Redazione presso una Casa editrice fiorentina. Appassionata lettrice, scrive racconti, poesie, interventi critici, partecipando a Premi letterari e spesso ottenendo buoni riconoscimenti. È autrice della silloge poetica finora inedita Servono mani alle cose vive. Indirizzo: Caterina Bigazzi, Via Rocca Tedalda 37, 50136 Firenze - tel. 0556504318.



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