ORZALA

Giovanni Bellisario

 

"Ero una donna…"
Sono trascorsi quasi due anni, ma a volte, di notte, sento ancora la voce ripetermi quella frase, come se volesse rimproverarmi il mio sonno.
E' la sua voce, stanca ed intrisa di rassegnata disperazione. Non mi chiede aiuto, eppure è così impregnata di rimpianti amari, che subito mi sveglio con l'angoscia nel cuore, e scruto nel buio sino a quando recupero la mia lucidità.
Faccio fatica a riaddormentarmi: gli occhi sono chiusi ed il volto sprofondato nel cuscino, il corpo è rilassato, ma nella mente è un turbinio di ricordi che si accavallano, di immagini che si inseguono.
Sino alla luce dell'alba.
Quando la luce filtra attraverso la finestra piombo in un sonno profondo, ma breve, perché è presto interrotto da una sveglia impietosa.
Ogni volta è così.
Appena alzato, istintivamente, vado allo scrittoio di fronte alla finestra e tiro fuori dal cassetto quella foto.
E' in bianco e nero, scattata con una reflex russa "Zenith".
Lei è bellissima .
Seduta su uno scalino, le gambe lasciate scoperte dalla gonna corta, discretamente piegate da un lato. Una mano abbandonata sul ginocchio destro.
E il suo volto…
I capelli di un nero lucente, come gli occhi. Occhi luminosi e sorridenti.
Già, sorride con le labbra, che scoprono denti bianchissimi, ma sorride soprattutto con gli occhi.
E' un sorriso che sale dal cuore. Che proviene dall'anima.
Avrei potuto amarla.

Nel 1999 mi ero recato in Afghanistan a seguito di una missione assistenziale europea.
Avevo avuto l'opportunità di osservare da vicino un mondo sbalzato indietro nel tempo.
Tre anni prima una delle fazioni coinvolte nella guerra civile, i Taliban, avevano occupato Kabul e gran parte del territorio del centro sud.
Avevano insediato un governo islamico integralista, con regole ferree quanto assurde, specie agli occhi di un occidentale, ed una facilità di disporre della vita umana altrui agghiacciante.
Le donne.
Imprigionate in una cella di tessuto, il burqua, che le copriva interamente da capo a piedi, ti apparivano come fantasmi colorati, dal corpo e dalle sembianze invisibili e non intuibili.
Mi chiedevo, incontrandole per la stada, mai da sole, se sotto quell'abito ci fosse una donna giovane o anziana, se fosse bella o brutta…
Le donne non potevano lavorare, né presentarsi da sole in pubblico, né scoprirsi o mostrarsi.
Quelle che non avevano parenti maschi che potessero curarsi di loro si prostituivano o chiedevano l'elemosina.
Potevano essere uccise solo per un sospetto non provato di infedeltà.
Ne vedevo molte rannicchiate agli angoli delle strade, mentre si dondolavano e piangevano, piene di paura.
L'avevo incontrata in un ospedale.
Giaceva su un letto, rinchiusa nel burqua celeste.
Un medico mi disse che stava lì da giorni, senza voglia di parlare, né di mangiare. Si stava spegnendo lentamente.
La osservai, immobile, rannicchiata su se stessa. La sua mano sinistra stringeva forte qualcosa.
Si accorse di me.
Sentivo un insopprimibile desiderio di parlarle. Sapevo che l'avrei sottoposta al rischio di qualche grave punizione: una donna non poteva parlare ad un uomo, ancor più se era uno straniero.
Avvertì la mia presenza e sollevò leggermente il capo.
Mi osservò per qualche istante attraverso i fori del burqua e mi ritrovai ad immaginare di quale colore avesse gli occhi, se fosse giovane, e bella.
"Buon giorno" mi salutò in inglese.
Mi sentii a disagio, era così improbabile in quella realtà che una donna potesse rivolgersi a me.
Risposi al saluto.
Si sollevò mettendosi a sedere ed invitandomi a sedere accanto a lei sul letto.
Il mio imbarazzo aumentò visibilmente: non capivo se avesse solo voglia di parlare o se volesse offrirsi a me, prostituendosi come tante altre. In ogni caso coglievo la gravità della situazione e il rischio che correva.
Mi accovacciai di fronte a lei
"Può essere pericoloso" dissi
Annuì con un gesto del capo
"Ormai…E' Inglese?"
"Italiano"
"Ho sempre sognato di fare un viaggio in Italia. Mi piace la storia e il suo paese ne è ricco, immagino"
Parlava in un inglese colto, perfetto.
"Non sta bene?" chiesi, sentendomi immediatamente uno stupido.
Si schiarì la voce
"Mal di vivere" rispose con un tono che non riuscì a nascondere un velo di sofferta ironia.
"E' un medico?" riprese
"No, sono uno scrittore"
"Uno scrittore…Io sono… ero un medico. Ho lavorato qui sino a tre anni fa. Solo tre anni… eppure è così tanto…"
Le chiesi dove avesse studiato.
Si era laureata in Inghilterra. Poi era tornata nel suo Paese, perché dopo la liberazione dal giogo sovietico si preparava un'era nuova. I sogni e le illusioni si erano però subito infranti.
La guerra civile le aveva portato via la famiglia e non si era mai sposata, troppo presa dalla passione per il suo lavoro.
Poi si era insediato il governo dei Taliban e tutto era cambiato.
"Non ho più lavorato, è proibito. Amavo molto il mio lavoro.
Sa mi piaceva molto indossare la minigonna, adoravo sentire il tepore del sole sulle gambe.
Mi piacevano molto anche i jeans, stavo bene…"
Colsi una sfumatura di civetteria nelle sua parole.
"Ero una donna…
Sa, io avevo un carattere ottimista. All'inizio l'ho presa anche con filosofia, sarà un periodo, mi dicevo, ma era solo un modo per esorcizzare il problema, sapevo intimamente che così non era. Alcune delle mie amiche, molte colleghe, si rifugiarono in Pakistan, io rimasi qui.
Vivo sola, in periferia. Una stanza fatiscente, priva di servizi. I vetri delle finestre sono dipinti, perché nessuno può vederci dall'esterno, e in casa devo usare scarpe che non facciano rumore, perché la mia presenza non deve essere colta.
Io potevo aiutare il mio paese, ho una laurea, una specializzazione.
All'inizio ho lottato, soprattutto con me stessa, per non mortificare la mia dignità, poi…"
L'ascoltavo in silenzio, la sua voce adesso era rotta dal pianto.
"Non ero più nulla e la fame non si sopporta. Mi sono venduta per strada. Ho chiesto l'elemosina….
Non ho uno specchio, non ricordo più il mio volto, non so come sono. So che sono morta…"
"No…" cercai di intervenire.
"Mi scusi, ma è così…"
Tacque e si lasciò cadere nuovamente sul letto.
Rimasi ad osservarla, immobile, in silenzio, impotente.
Volevo aiutarla e, nello stesso tempo, volevo andare via.
Feci per allontanarmi.
"La prego !" mi fermò "La prego, mi porti via…"
Mi volsi di scatto. Mi porgeva qualcosa, quello che teneva stretto nella mano sinistra.
"Tenga, mi porti via…per favore…" mi supplicò con la voce rotta dai singhiozzi.
Presi quello che mi porgeva e me lo infilai in una tasca.
Lo tirai fuori solo nella mia stanza di albergo.
Era uno foto in bianco e nero.
Sono trascorsi due anni. Sento spesso la sua voce.
Mi chiedo se sia viva, ma so che così non è.
Mi chiedo anche se quel suo ultimo dialogo l'abbia fatta sentire viva ancora per una volta.
Poi osservo la sua foto, la sua bellezza, la sua espressione trasparente e so di averla portata via da quell'inferno.





Giovanni Bellisario, 47 anni, avvocato. Vive e lavora in provincia di Lecce. Ha scritto racconti, articoli e saggi a carattere storico. Nel 1999 ha vinto il Premio Firenze per la narrativa con il racconto " L'Iniziazione". Nel marzo 2000 ha pubblicato la raccolta di racconti "La valle delle memorie" (ed. Piero Manni) .



          Precedente     Successivo    VENTONUOVO    Copertina