Boy Lebu
- Capitolo undicesimo
del romanzo Vita a spirale - Abasse
Ndione
Il sole al tramonto era un enorme disco scarlatto che spariva lentamente in
mare come oro fuso. L'orizzonte era infuocato. Il mare era calmo, ondulato
da una leggera brezza. Un vero e proprio mare d'olio. Le onde si infrangevano
sulla riva con un mormorio melodioso, immensi orli di merletto che morivano sulla
sabbia bianca lasciando un leggero ricamo. Bande di uccelli marini che in fila
indiana volavano a pelo d'acqua così compatte da fare impallidire i soldati
che sfilano il 4 aprile, si ritiravano a dormire sul vecchio pontile di Rio per
metà inghiottito dal mare. Stava per calare la notte. La spiaggia era deserta. Diedi
un ultimo tiro al krado1 che avvampò come il faro che
lampeggiava in lontananza, poi con un buffetto lo lanciai in una piccola onda
che era venuta a morire ai miei piedi. Mi alzai e con le mani spazzai via la sabbia
dai pantaloni. Avevo il cervello in pappa da una grande quantità di marijuana.
Per tutto il giorno avevo pensato al consiglio di Cu. Decisi di andare a fare
un giro a Dakar. Il Palladium, situato nel cuore del popoloso quartiere di
Medina, è il cinema più malfamato della capitale e, stranamente,
il più frequentato. Malgrado la pessima qualità dei film, ogni sera
la sala era stracolma. Questo intenso afflusso aveva un unico motivo: la sala
coperta era un "fumoir" di yamba2. Gente perbene e
irriducibili delinquenti la frequentavano per rifornirsi di erba e sviluppare
in tutta tranquillità. Una volta degli impi3 avevano
tentato d'intervenire all'altezza del getty-bey4. Erano stati
riempiti di botte, feriti e buttati fuori. Come rappresaglia (tanto per far capire
al proprietario, un libano-siriano, che doveva darsi da fare per assicurare agli
spettatori-sviluppisti5 la massima tranquillità) la sala
era stata saccheggiata e incendiata. Dopo il restauro, nessun impi si era
mai più avventurato là dentro. Quando entrai al Palladium, il
secondo spettacolo era appena iniziato. Nella sala aleggiava l'odore denso della
marijuana. Trovai un posto. Uno sviluppista avvolto in un grande boubou
si era appena alzato dopo aver spento il suo krado. Nel sedermi mi sbottonai
il giubbotto. Dentro il cinema c'era un caldo bestia. I venditori che si aprivano
un varco tra le file degli spettatori proponevano la loro merce. Qui non c'erano
gelati o caramelle come nelle sale chic del Plateau. "Droga di Mboro,
droga di Mboro!" urlavano ad alta voce. Lo spettatore seduto alla mia
sinistra ne prese tre bustine, una la vuotò nella pipa che accese sprofondando
nella poltrona. Con uno schiocco delle dita chiamai il venditore. Lui si chinò
verso di me e mi infilò in mano una dose. "Cinquecento franchi"
disse. Il suo alito avrebbe fatto secca una mosca o uno scarafaggio, tale e
quale a un insetticida. In bocca aveva un topo marcio! Scostai la faccia per
mettere al riparo le narici da quell'alito fetido, tirai fuori dalla tasca una
banconota da mille franchi che arrotolai intorno a una dose che avevo portato
come campione. "Tieniti i soldi" dissi. "Consegna il sacchetto
a Rön e digli che voglio vederlo". "Ok, sarò un fulmine!"
rispose Bocca Rancida dopo una breve esitazione. Sospese le vendite, tagliò
dritto attraverso gli spettatori e sparì verso la sala proiezioni. Non
mi restava altro che aspettare. Rollai un troncone con la roba di Bocca Rancida.
Il primo tiro mi infiammò la gola: del maas-maas6. Di
colpo la proiezione venne sospesa e si accesero le luci. La sala vibrò
per le urla isteriche di disapprovazione, interrotte da oscenità. Nelle
file del getty-bey, gli spettatori erano in piedi sulle panche e agitavano i pugni
verso la sala proiezioni. Una donna lanciò sullo schermo una bottiglia
di vino vuota che si ruppe in mille pezzi. Nel caos vidi Bocca Rancida tornare
verso di me. Indossava un completo jeans di una sporcizia rivoltante. Quando si
chinò su di me smisi del tutto di respirare. Dovette urlare più
di una volta per coprire il rumore degli altoparlanti che diffondevano musica
hindu. Il disco aveva un fruscio di sottofondo, simile a quello di un fornello
a petrolio acceso. "Dice che verrà appena avrà finito di
sistemare il proiettore" sorrise, scoprendo una dentatura coperta da una
sostanza giallastra con cui si sarebbe potuto imburrare il pane. Quando in
sala tornò il buio, riprese la sua attività. Quando il film ricominciò,
a poco a poco tornò la calma. Alcuni minuti dopo mi si avvicinò
un uomo tarchiato. "Rön?". "In persona". "Hai
avuto le mie noccioline?". "Sì, e allora?". "È
stato Cu a farmi il tuo nome". "Dove l'hai conosciuto?". "Siamo
dello stesso villaggio". "Dove abiti?". "Senti, non
ho voglia di subire un interrogatorio. Vengo a vendere noccioline. Le vuoi o no?".
"Ok, ok! Ora vediamo. Quantità?". "Ne ho venti chili.
Cu mi ha detto che eri interessato a grosse quantità". "Perché
no?" disse laconico. "Mi allontano cinque minuti per dire a uno dei
miei ragazzi di occuparsi del proiettore". Sparì per un'ora. Quando
tornò il film era appena finito e la sala si svuotava a poco a poco. Mi
fece cenno di seguirlo. Uscimmo dal cinema. Fuori, l'aria pura mi fece bene al
cervello in ebollizione. "Dov'è la roba?" chiese. "In
macchina" risposi indicando la Simca posteggiata sul marciapiede di fronte
al cinema. Attraversammo la strada e salimmo in macchina. "È
un bel malloppo" disse. "Qui non ho da pagarti i venti chili. Imbocca
la Corniche, andiamo a Teerub Baay Sõgi". Mi avviai. Parecchio
preoccupato. La zona del Cap Manuel, la punta estrema del continente, aveva la
fama di essere la più pericolosa del paese. Era il rifugio di tutti i banditi
che tra le rocce erano perfettamente al sicuro. Nessun impi osava andare da quelle
parti e le poche persone che vi si avventuravano dopo il tramonto venivano aggredite
e a volte ci lasciavano le penne. Dopo il Palazzo di giustizia, la Simca penetrò
nella zona d'ombra. Ròn, che era rimasto in silenzio durante il tragitto,
mi fece cenno di fermarmi alla curva che portava al faro. Nell'oscurità
si intravedeva una macchina posteggiata lungo la strada. "Prendi la roba
e seguimi" disse Rön scendendo per primo dalla Simca. Una strada
si apriva in direzione del mare. Un vero sentiero da capre. Scivolavamo sui grandi
sassi lisci. Rön, davanti, mi guidava attraverso il labirinto. Un tunnel
in discesa, ancora più buio, che dovemmo percorrere chinati, poi sbucammo
in una grotta immensa, grande come tre stanze, le cui pareti finivano a tre o
quattro metri di altezza in una volta liscia. Un'apertura naturale serviva da
finestra: una cinquantina di metri più in basso si vedeva brillare il mare.
Si sentiva il sordo muggito delle onde che andavano a infrangersi sul bordo della
scogliera. Al centro della grotta era acceso un grande falò da cui proveniva
un'illuminazione vacillante. Quattro uomini si alzarono quando entrammo, seduti
sulle rocce in fondo alla grotta. Tre sembravano barboni. Il quarto, invece, che
si avvicinò da solo a Rön e me, non aveva nulla in comune con la fauna
degli emarginati. Per quanto riguarda i vestiti. Sulla quarantina, quasi obeso,
indossava un costoso completo beige con cravatta e fazzoletto nel taschino. Teneva
un troncone stretto tra le labbra. "Salve, Mista Ha" disse con rispetto
Rön. "Ecco il ragazzo". Posai il sacco a terra. Il sunnominato
Mista Ha mi ispezionò dalla testa ai piedi, a lungo e con lentezza. Sulle
labbra gli spuntò un sorriso cattivo. Decretò freddo: "Questo
tizio ci vuole fregare, è uno sporco cokoto. Liquidatelo!". Mi
si bloccò il respiro. In quale casino ero andato a ficcarmi? Chi era
quel personaggio ben vestito, che dava ordini in quella grotta di Teerub Baay
Sõgi? Cu mi aveva detto che Ron sarebbe stato interessato alla mia merce;
ero venuto per incontrarlo e ora scoprivo che era solo un subordinato che non
prendeva iniziative ma dipendeva da un padrone. Ecco perché al Palladium
era stato via tanto tempo. Per avvertire il suo padrone. E il padrone, Mista Ha,
dava l'ordine di liquidarmi. Chiaro e semplice. Così avrei imparato a fidarmi
di uno sporco ladro come Cu. "Si sbaglia" contestai, sforzandomi
di non mostrare il mio turbamento "Non sono un cokoto". "Dài,
Boy Rëbëjé" intimò il padrone. Dal gruppetto si
staccò un uomo. Un armadio, le spalle larghe. Fece due passi, poi si voltò
e consegnò cerimoniosamente il troncone che stava sviluppando a uno dei
suoi compagni. Mi si avvicinò dondolando come un lottatore. Arretrai
di tre passi, un po' furtivamente. Boy Rëbëjé credette sicuramente
che fosse una ritirata. Si sbagliava: avevo fatto ventiquattro mesi nella compagnia
dei commando parà e avevo imparato bene alcuni trucchi efficaci per colpire
velocemente un aggressore. Senza controllo, Boy Rëbëjé si lanciò
a testa bassa, come un toro su una stoffa rossa. Mi girai facendo leva sul piede
sinistro. Con leggerezza. Boy Rëbëjé trovò il vuoto prima
che la punta della mia scarpa destra lo colpisse al centro dell'epigastrio. Si
lasciò sfuggire un lamento sordo, spalancò le mascelle barcollando.
Lo colpii di nuovo con un grandioso pugno al mento. Girò su sé stesso
prima di crollare. K.O. E già il padrone ne aveva lanciato in lizza
un altro."Banta, vai tu!". Banta si avvicinò zoppicando. La
gamba destra era rigida e finiva con una specie di zoccolo di plastica. Una gamba
di legno! Sì, ma gamba di legno era armato di un terrificante pugnale la
cui lama affilata, di almeno venticinque centimetri, alla luce del fuoco lanciava
riflessi argentati. E sembrava proprio che sapesse usarlo. Si avvicinava, il corpo
asciutto da felino raccolto su sé stesso, mordendosi il labbro inferiore,
il pugnale che passava da una mano all'altra. Indietreggiai fino alla parete
della grotta. Mi ci appoggiai, concentrato, tutti i muscoli contratti. Banta fece
un salto in avanti, con l'arma diretta alla mia pancia. All'ultimo momento mi
spostai di lato. Il pugnale mi strappò il giubbotto e andò a spaccarsi
contro la parete della roccia. La mia scarpa gli arrivò sulla tibia sana.
Singhiozzò di dolore, sollevò la gamba, volteggiò sullo zoccolo
e perse l'equilibrio. "Va bene, va bene!" dichiarò il padrone
con una risata smisurata mentre Banta cercava di alzarsi. "Finiamola. Questo
ragazzo sa battersi". Si avvicinò, mi tese una mano ornata da un
grosso anello d'oro. "Come ti chiami? Io sono Bator Mangara". Quel
nome mi diceva qualcosa: l'avevo letto sulla targa all'ingresso di un grande magazzino
dove si vendevano mobili, in avenue De Gaulle: "Falegnameria Bator Mangara". "Quello
delle poltrone?". Annuì. Mi presentai. "Tu sei un Lebu.
Di dove?". "Sambey Karang". "Conosco. Vicino a Rio,
un villaggio di...". Lo interruppi. "Cosa significa tutta questa
stronzata?". Di nuovo rise sguaiatamente e mi passò il troncone
che teneva tra le dita. "Volevo metterti alla prova. Non sei un pivello:
di questi tempi non si gira con venti chili di roba. Volevo vedere come te la
cavavi". "Il pugnale di Banta era per mettermi alla prova?".
Bator Mangara annuì. "Se ti avesse sventrato ti avremmo buttato
dalla finestra. Paf! In fondo al mare. Non ti avrebbero mai ritrovato" disse
indicando l'apertura. "Non tratto con le pappemolli. Fai vedere il colore
della tua merce". Aprii il sacco. Bator Mangara afferrò un pugno
di marijuana e l'annusò, poi annuì. "Dove l'hai trovata?". "In
Casamance". "Venti chili?". "Esatto!". Mi ero
comprato una bilancia, utile per il sipikat7 quanto un amo per
il pescatore. "Boy Ron" chiamò. "Porta la bilancia". Ron
si diresse verso una pila di cartoni in fondo alla grotta e portò una bilancia
con i pesi. Erano esattamente venti chili. "Che prezzo fai al chilo?"
chiese sfregandosi le mani. "Sessantamila franchi". Bator Mangara
sobbalzò. "Sei pazzo?". "È una domanda che
mi viene fatta talmente spesso che finirò per crederci! Sessantamila in
contanti". "Troppo cara". Raccolsi la borsa per andarmene. Bator
Mangar mi bloccò. "Dove vai?". "A proporre la roba
altrove". "I Lebu hanno un brutto carattere! Parliamone. Mi fai uno
sconto. A trentacinque prendo tutto". "Torno l'anno prossimo e allora
discuteremo sui trentacinque. Oggi, ne voglio sessanta al chilo. Ho visto la robaccia
che gira al Palladium. La mia è roba vera. E di questi tempi piuttosto
rara. Posso permettermelo". "Sì. Ma non è un buon motivo
per prendermi per il collo. Cinquanta e...". "Sessanta o niente". "Ok,
sessanta". Fece un cenno a Rön che gli portò una valigetta
dal fondo della grotta. Veloce come una cassiera di banca contò duecentoquaranta
banconote da cinquemila franchi. Avevo le palpitazioni quando le misi in tasca:
in vita mia non avevo mai avuto a che fare con una somma simile. Mi sorpresi a
formulare dei ringraziamenti. "Non c'è di che, non c'è di
che. In verità sono io a ringraziarti. Ho una vasta clientela e sei arrivato
proprio quando la roba cominciava a mancare. Il mio fornitore è morto la
settimana scorsa". "Ne ho ancora a casa. Altri venti chili". Lasciai
i dieci chili che restavano per il mercato di Sambey Karang. Se ti interessa,
sempre a sessantamila, posso venire domani sera alla stessa ora". "Perché
aspettare domani sera? Facciamolo subito" disse consultando l'orologio. "Sono
solo le due. Sambey Karang dista appena trenta chilometri. Andiamo". Mentre
stavamo uscendo dalla grotta, udimmo un gemito sordo. Boy Rëbëjé
si era svegliato. "Cosa... mi è successo?" balbettò
rimettendosi in piedi, ancora suonato. "Chiedilo a Boy Lebu!" scoppiò
a ridere Bator Mangara indicandomi con il dito. Mi ero appena guadagnato un
soprannome. Boy Rëbëjé mi rivolse uno sguardo vago. Gli
diedi una pacca sulla spalla. "Sei scivolato e hai sbattuto la testa sulla
parete della grotta". La Mercedes che avevo notato arrivando con Rön
apparteneva a Bator Mangara. Mi fece passare avanti. Mezz'ora dopo arrivammo a
Sambey Karang. La piazza era deserta. Tirai fuori la valigia e la bilancia da
sotto il letto e pesai venti chili. "E il resto?" chiese Bator Mangara. "È
per il mio mercato". "Quanti chili sono?". "Un po' meno
di dieci". Insistette per comprarne la metà e mi raccontò
la sua storia. La fabbrica andava molto bene, ma era soltanto una copertura. Il
vero affare era il traffico di marijuana. Aveva una rete solida e ben avviata
di rivenditori che piazzavano la merce in tutti i settori: all'ingresso degli
stadi, negli uffici, nei locali pubblici, a personalità impor-tanti, al
porto, nelle stazioni ferroviarie e negli autogrill, all'aeroporto, negli alberghi.
E poi esportava in Francia. Un traffico imponente, dunque! Gli diedi altri cinque
chili. Aprì la valigetta e pagò sull'unghia. "Posso fornirti
ogni mese la stessa quantità" proposi, ispirato. Mi guardò
incredulo."Dici sul serio? Non lo fai un volta ogni tanto?". "Sono
molto serio". "Anche se ti presentassi con un quintale te lo pagherei
in contanti!". - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - -
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Note: 1
krado - filtro dello spinello 2 yamba - marijuana 3 impi
- poliziotti 4 getty-bey - in lingua wolof, stalla per capre. Nei cinema,
i posti più economici, vicini allo schermo. 5 sviluppista - il
termine développer, sviluppare, è un termine inventato dall'Autore:
sta per rollare yamba 6 maas-maas - marijuana di cattiva qualità,
raccolta prima della maturazione della pianta. 7 sipikat - spacciatore
d'erba
(Capitolo undicesimo
del romanzo Vita a spirale, Edizioni e/o, Roma, 2003. Traduzione di Barbara
Ferri.)
Abasse Ndione è un infermiere in pensione. Vive
a Dakar. L'editore Gallimard ha pubblicato anche un altro suo romanzo, Ramata,
pubblicato in seguito in Italia dall'e/o.
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