ASPIRANTI USURPATORI
Javier Marías
Anticamente i creatori a volte neppure firmavano le loro opere. Le cattedrali romaniche e gotiche di solito non sono di un architetto concreto, non soltanto perché sono state edificate lungo decenni o secoli e sotto la direzione di diversi maestri, ma soprattutto perché le si considerava un progetto comune e condiviso, in cui la cosa meno importante era ciò che oggi intendiamo come autoria, essere l'autore di qualcosa. Altrettanto è accaduto per parecchi anni con il cinema, un'arte del nostro secolo, come ha indicato l'incomparabile critico Erwin Panofsky. I film non erano degli attori, né del regista, tanto meno del produttore; e se non erano anonimi, venivano visti come collettivi. I pittori medievali raramente firmavano i loro quadri, ed ecco perciò che ne ignoriamo i nomi e li chiamiamo “Il Maestro di Flémalle", ad esempio. Perfino gli scrittori, la cui arte è probabilmente la più individuale di tutte e quella che ha meno bisogno di supporti tecnici altrui, avevano l'abitudine di tenersi in disparte, e perciò non abbiamo certezza circa l'autore del Mio Cid né circa quello del Lazarillo.
Le cose sono cambiate, ma ancora cent'anni fa si riteneva che la cosa principale di un libro fosse il testo e non il suo responsabile, di un quadro la pittura stessa e non chi avesse tenuto in mano il pennello, di un brano musicale la musica interpretata e non il compositore. E ormai da molto, tuttavia, che gli autori hanno finito per diventare essenziali, al punto che le poche opere che oggi si presentano in modo anonimo o sotto pseudonimo hanno di solito un cattivo destino commerciale, come se ai consumatori interessasse qualcosa che possano identificare con qualcuno. Qualcuno con un viso e una biografia, e per questo noi scrittori passiamo quasi più tempo a rispondere a domande e a tracciare un ritratto di noi stessi che a comporre romanzi o poesie o saggi.
Quello che io ritengo un errore e addirittura una perversione sembra sedurre, tuttavia, quelli che non sono neppure creatori né artisti, e negli ultimi tempi, e in tutti gli ambienti, sempre più si va riproducendo una sistematica usurpazione dell'essere autore, per fortuna non sempre conseguita. E facile vederlo nel calcio: quand'ero bambino non c'erano altri idoli che Di Stéfano, Kubala, Puskas, Suárez o Gento, e si ignorava chi fosse l'allenatore di una squadra, per non dire il presidente di un club. Oggi, invece, i tecnici e i dirigenti finiscono sulla stampa quanto i maggiori astri del pallone e molto di più, naturalmente, dei giocatori secondari, e in fin dei conti non so di nessuno che abbia pagato per sentire parlare Clemente o Capello, e piuttosto credo che molti pagherebbero per non dover ascoltare Gil di Marbella o Núnez di Josep Lluís. Nel campo della moda, fino a poco tempo fa quelli che si conoscevano erano Balenciaga o Dior o Armani, e le modelle, sebbene degne di apprezzamento, erano non soltanto effimere, ma in generale anonime e intercambiabili. Oggi sembra che il successo dei disegnatori dipenda dai volti famosi di alcune giovani mute.
Ma dove il mondo appare ancora più alla rovescia è nelle attività realmente artistiche. Molti produttori cinematografici – volgari e interessati imprenditori per la maggior parte, tutto considerato – rivendicano l'autoria suprema dei film che finanziano; arrivano a dire che in più li concepiscono, li organizzano, li supervisionano, li controllano; insomma, li creano, e lo affermano con grande sfacciataggine, come se non vi fossero mai stati studi sullo stile dei registi, i quali hanno lasciato la loro impronta in maggior proporzione che qualunque altro partecipante alla confezione di film, indipendentemente da quelli che li abbiano prodotti o interpretati. E vi sono addirittura editori – lungo la mia vita ne ho conosciuto più d'uno, ma soprattutto, in maniera madornale, uno – che nella loro pazza smania di protagonismo arrivano a credersi – e quel che è più demenziale, a cercare di convincerne gli scrittori – di essere loro i veri artefici dei libri che pubblicano; e che se questi hanno successo lo si deve al marchio della loro azienda, senza che interessi loro il doversi contraddire quando invece attribuiscono all'autore la colpa del possibile fallimento. Affermano sciocchezze megalomani come: “Il mio romanzo è il mio catalogo”, e arrivano a pensare – innocenti fatui – che i lettori acquistino i libri non per il testo ma per l'involucro che loro ci mettono. I più presuntuosi sono di solito, casualmente, quei galleristi, produttori ed editori – ce ne sono anche di eccellenti – che più fingono, ma hanno molto dei veri bottegai, manifatturieri, facchini o salumieri, come si preferisca.
1996.
(Tratto dalla racconta di saggi brevi su calcio Selvaggi e sentimentali, Einaudi, Torino, 2002. Traduzione di Glauco Felici.)
Javier Marías è nato a Madrid nel 1951. È il più importante scrittore spagnolo di oggi ed è molto conosciuto da quando, dieci anni fa, uscì Un cuore così bianco.)
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