LE CENERI DI MATTEOTTI
( - un brano del saggio - )

 

Marco Maugeri

 

 

(...) Leonardo Sciascia, guardando una foto di Pasolini, aveva trascritto una frase attribuita a Goethe. “Un uomo che muore a trentacinque anni è in ogni momento della sua vita un uomo che morirà a trentacinque anni”. La considerazione tocca un punto doloroso, quello della coincidenza tra vita e progetto, e, se poi ci si sforza di accettarla, è anche l’assimilazione della propria vita a un destino: ognuno di noi, insomma, avrebbe dentro di sé un nocciolo da risolvere, e una volta fatto questo, tutto è compiuto. È la sostanza dell’“entelechia”: una realtà che ha raggiunto il massimo grado dello sviluppo, la maturazione della potenza all’atto. Il frutto che si fa duro dentro un preciso destino. Era un elemento, neanche piccolo, del fascismo, familiare del resto a ogni dittatura: la morte non come punto d’arrivo, ma sostanza di vita, ragione sufficiente anche per la sua soppressione. Si presentava già di suo a grasse manipolazioni, ma l’entelechia poté addirittura diventare, in breve tempo, quello che proprio non era: “costruzione”, e stoica accettazione della morte”, meglio naturalmente se altrui. Idea tanto più risibile in quanto spesso formulata da chi più quella morte la teme, da chi ne aspetta l’avverarsi con cupo e indicibile terrore. Destino cui non sfuggì neanche Mussolini. Non a caso, negli anni a seguire rimarcò spesso come a ognuno spettasse la sua morte, quella che meglio si addiceva “al proprio carattere”. Ne pareva convinto. Sopravvalutava la propria, o forse già da allora oscuramente la temeva.
Vero è che la morte cambiò di segno non poche vite umane in quegli anni, regalando ad alcune un insperato coraggio, rinnovando in altre i calendari di un’antica infamia. A un Mussolini che, nascosto in una vecchia giacca della Luftwaffe, scappa portando con sé milioni in ogni tipo di valuta, l’entelechia mise affianco un Ciano che in punto di morte si regalò il coraggio che sempre gli aveva fatto difetto. Perché, che quell’uomo che per tutta la vita lo aveva imitato, che torturava perfino il suo naturale falsetto pur di ripetere i roboanti tamburi del suo duce, ecco, che avesse addirittura il coraggio di sfidare il plotone d’esecuzione a viso aperto – mentre altri quel plotone lo imploravano e supplicavano come meglio potevano – era una cosa che nessuno si sarebbe potuto aspettare. Ma che a questo punto, in ogni momento sarebbe stata possibile. “Il coraggio che se uno non ce l’ha non se le può dare” ha molto a che fare con l’entelechia, specialmente se “uno”, quando meno se lo aspetta, può disporne come meglio crede.
Naturalmente, quello dell’entelechia è un modo di vedere le cose. Ed è piuttosto radicale. Se tratta quindi de prenderlo per buono, due erano le conseguenze che da quell’idea – che la vita raccolga dentro di sé un progetto, che quel progetto sia la vita – inevitabilmente scaturivano.
La prima fa quasi sperare, ed è la sensazione che la vita sia una cosa sensata, che ci sia addirittura un progetto di cui prendersi cura. La seconda è invece drammatica, e sta tutta nella terribile percezione che ognuno di noi corre rovinosamente verso il compimento di quel progetto; e che, una volta portato a termine, tutto è finito. Sempre Sciascia, in una pagina su Stendhal, ricordava come lo scrittore francese avesse fatto di tutto per ritardare l’appuntamento con la sua scrittura. Si era dedicato per anni a libretti di nessuna importanza, rimandando ostinatamente i grandi libri che sapeva di dover scrivere. Secondo Sciascia era una premonizione del genio; o meglio, era la drammatica sensazione che la vita dell’artista coincidesse tutta con quella della sua opera. Stendhal rimandava. Non perché temesse il suo destino, ma perché temeva la natura stessa del destino, la certezza che questo, in un modo o in un altro, conduce sempre rovinosamente a una meta. Ma in quella frase che Leonardo Sciascia si rigirava fra le mani c’era anche un’altra verità: in ogni punto della nostra vita c’è già tutta la vita, c’è già tutto quello che è venuto prima e che verrà dopo.
Non ci sono moltissime foto di Giacomo Matteotti, e in quelle poche che ci si ritrova sempre sotto gli occhi è fin troppo facile leggere la fine nota a tutti. Ed è troppo facile proprio perché quella fine è già nota. Se proprio ci si volesse sforzare di cogliere qualcosa, si tratterebbe di rintracciare cose nella vita di Matteotti è già successo, e non quello che ancora deve accadere: la perdita del padre in giovanissima età, e quella dei due fratelli pochi anni dopo. Una cosa però è certa: Matteotti sentì la fine prossima, sentì l’ultimo giro dentro il suo destino. Avvertì la morte che si avvicinava. E tutto questo accade perché forse, come Stendhal, egli intuì che la vita di un uomo qualche volta coincide perfettamente con il suo destino. E terminato il progetto, finito il lavoro, non rimane che raccogliere tutto. E andare via. All’entelechia la morte è inevitabile, ma il martirio, oltraggiosamente, le è congeniale. (...)


(Tratto dal libro Le ceneri di Matteotti, L’ancora del Mediterraneo, Napoli, 2004)
 

Marco Maugeri è nato a Catania nel 1975. È laureato in Lettere. Collabora con “L’Unità” e “ La Sicilia”. Vive a Roma dove insegna in una scuola media.



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