IDENTITÀ CULTURALE E DIASPORA

 

Stuart Hall

 

 

Il nuovo cinema emergente dei Caraibi si sta unendo alla compagnia degli altri “Third Cinemas”. Sebbene sia diverso, questo cinema è connesso alla vitalità del cinema e delle altre forme di rappresentazione visuale dei “neri” afrocaraibici (e asiatici) delle diaspore occidentali – i nuovi soggetti postcoloniali. Tutte queste pratiche culturali e queste forme di rappresentazione centrate sul soggetto nero mettono in discussione il problema dell'identità culturale. Chi è questo nuovo soggetto emergente del cinema? Da dove parla? Le pratiche di rappresentazione implicano sempre una posizione da cui parliamo e scriviamo – la posizione dell'enunciazione. Ciò che le recenti teorie dell'enunciazione suggeriscono è che, sebbene parliamo, per così dire, “in nome di noi stessi/e” e dal punto di vista della nostra esperienza personale, ciononostante chi parla, e il soggetto di cui parla, non sono mai identici, non sono mai esattamente nello stesso luogo. L'identità non è così trasparente o aproblematica come potremmo credere. Forse invece di pensare all'identità come un fatto già compiuto, che dunque le nuove pratiche culturali possono rappresentare, dovremmo piuttosto pensare all'identità come una “produzione” che non è mai finita, ma è sempre processuale, ed è sempre costituita dentro la rappresentazione, non al di fuori di essa. Questa visione problematizza la pretesa di vera autorità e autenticità avanzata dal termine “identità culturale”.
Cerchiamo qui di aprire un dialogo, un'indagine, sul soggetto dell'identità culturale e della rappresentazione. Naturalmente, anche l’“io” che scrive qui deve essere pensato esso stesso come “enunciato”. Si scrive e si parla sempre da un tempo e un luogo particolare, da una storia e una cultura specifica. Ciò che diciamo è sempre “contestualizzato” e posizionato. Sono nato e ho trascorso la mia infanzia e adolescenza in una famiglia di ceto medio-basso in Giamaica. Ho vissuto tutta la mia vita da adulto in Inghilterra, all'ombra della diaspora nera – “nel ventre della bestia”. Scrivo sullo sfondo del lavoro di una vita nell'area dei cultural studies. Se questo intervento sembra dominato dall'esperienza della diaspora e dalle sue narrazioni di dislocazione, vale la pena di ricordare che tutto il discorso è “collocato”, e che il cuore ha le sue ragioni.
Ci sono almeno due diversi modi di pensare all’“identità culturale”. La prima posizione definisce l’“identità culturale” nei termini di una cultura condivisa, una sorta di “unico vero sé” che nasconde al suo interno i molti altri sé, più superficiali e artificialmente imposti, che le persone con una storia e un'ascendenza condivisa, hanno in comune. Secondo questa definizione, le nostre identità culturali riflettono le comuni esperienze storiche e i codici culturali condivisi che fanno di noi “un popolo”, fornendoci i sistemi di riferimento e di senso stabili, invariabili e continuati, che sono alla base delle mutevoli divisioni e delle vicissitudini della nostra storia effettiva. Questa “unicità”, che sta alla base di tutte le altre differenze più superficiali, è la verità, l'essenza della “caraibicità”, dell'esperienza nera. È questa identità che la diaspora caraibica o nera deve scoprire, scavare, portare alla luce ed esprimere tramite la rappresentazione cinematografica.
Una tale concezione dell'identità culturale gioca un ruolo critico in tutte le lotte postcoloniali che hanno così profondamente rimodellato il nostro mondo. È al centro della visione dei poeti della “Negritudine”, come Aimé Césaire e Léopold Senghor, e più avanti nel corso del secolo, del progetto politico pan-africano. E continua ad essere una forza davvero potente e creativa nelle forme emergenti di rappresentazione dei popoli tuttora marginalizzati. Nelle società postcoloniali, la riscoperta di questa identità è spesso l'oggetto di ciò che Frantz Fanon ha definito come una
«ricerca appassionata [...] orientata dalla segreta speranza di scoprire, al di là di questa miseria attuale, di questo disprezzo per sé, di questa rinuncia e di questo rinnegamento, un'era bellissima e splendente che ci riabilita, al tempo stesso, di fronte a noi stessi e di fronte agli altri».
In queste società, le nuove forme di pratiche culturali si impegnano in questo progetto per la buona ragione che – come ha affermato Fanon – in un passato recente
«Il colonialismo non si soddisfa di stringere il popolo nelle sue spire, di vuotare il cervello colonizzato d'ogni forma e d'ogni contenuto. Per una specie di perversione della logica, esso si orienta verso il passato del popolo oppresso, lo storce, lo sfigura, lo annienta».1
L'osservazione di Fanon solleva una domanda: qual'è la natura di questa “profonda ricerca” che guida le nuove forme di rappresentazione visuale e cinematografica? Si tratta solo di dissotterrare ciò che l'esperienza coloniale ha seppellito e soffocato, riportando alla luce le proiezioni occultate che essa ha soppresso? Oppure si tratta di una pratica differente che implica – non la riscoperta ma – la produzione dell'identità. Non un'identità basata sull'archeologia, ma sull'atto di ri-raccontare il passato?
Dovremmo cercare, almeno per un attimo, di non sottovalutare o di non trascurare l'importanza dell'atto immaginativo della riscoperta, implicito in questa concezione di un'identità essenziale da riscoprire. Le “storie occultate” hanno giocato un ruolo critico nell'emergere di molti dei più importanti movimenti sociali del nostro tempo – femminista, anti-coloniale e anti-razzista. L'opera fotografica di una generazione di artisti giamaicani e rastafariani, o di artisti visuali come Armet Francis (un fotografo nato in Giamaica e vissuto in Gran Bretagna sin dall'età di otto anni), è una testimonianza della continuità del potere creativo di questa concezione dell'identità nell'ambito delle pratiche di rappresentazione emergenti. Le fotografie dei popoli del Triangolo Nero, scattate da Francis in Africa, nei Caraibi, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, tentano di ricostruire in termini visuali “l'unità fondamentale della gente di colore, che la colonizzazione e la schiavitù hanno disperso da un capo all'altro della diaspora africana”. Il suo testo è un atto di riunificazione immaginativa.
Significativamente, queste immagini offrono un modo per imporre un'immaginaria coerenza all'esperienza della dispersione e della frammentazione – che è la storia di tutte le diaspore forzate – attraverso una rappresentazione o “figurazione” dell'Africa come la madre di queste diverse civiltà. Questo Triangolo, dopo tutto, è “centrato” in Africa. L'Africa è il nome del termine mancante, la grande aporia che giace al centro della nostra identità culturale e che dà ad essa il senso che, fino a tempi recenti, è mancato. Chiunque guardi oggi alla tessitura di queste immagini alla luce della storia della deportazione, della schiavitù e della migrazione, può capire che la ferita della separazione, la “perdita dell'identità”, parte integrante dell'esperienza caraibica, comincia a rimarginarsi solo quando queste connessioni dimenticate vengono nuovamente ristabilite. Questi testi restituiscono una pienezza immaginaria, da contrapporre alla frattura del nostro passato. Sono risorse identitarie e di resistenza, con cui contrastare le modalità frammentate e patologiche che hanno caratterizzato le ricostruzioni di questa esperienza all'interno dei regimi dominanti della rappresentazione cinematografica e visuale dell'Occidente.
Ma c'è anche una seconda visione dell'identità culturale, connessa alla prima ma diversa. Questa seconda posizione riconosce che, oltre ai numerosi punti in comune, ci sono anche dei punti critici di profonda e significativa differenza che costituiscono “ciò che davvero siamo”; o piuttosto – visto che il tempo è trascorso – “ciò che siamo diventati”. Non possiamo parlare approfonditamente, né con esattezza, di “una sola esperienza, una sola identità”, senza riconoscere il suo rovescio – le fratture e le discontinuità che costituiscono, precisamente, l’“unicità” dei caraibici. L'identità culturale, in questa seconda accezione, riguarda il “divenire” come l’“essere”. Appartiene al futuro come al passato. Non è qualcosa che esiste già, che trascende lo spazio, il tempo, la storia e la cultura. Le identità culturali provengono da qualche parte, hanno delle storie. Dunque, come tutto ciò che ha una dimensione storica, esse subiscono una costante trasformazione. Lungi dall'essere eternamente fissate in un passato essenzializzato, sono soggette all’“azione” continua della storia, della cultura e del potere. Lungi dall'essere basate sul mero “recupero” di un passato che aspetta di essere ritrovato e che, una volta ritrovato, rafforzerà la nostra percezione di noi stessi nell'eternità, le identità sono i nomi che diamo ai differenti modi in cui veniamo posizionati dalle narrazioni del passato, e in cui noi stessi ci posizioniamo al loro interno.
È solo da questa seconda posizione che possiamo comprendere completamente la condizione traumatica dell’“esperienza coloniale”. I modi in cui i popoli neri e le esperienze nere, sono stati posizionati e assogget-ati nei regimi dominanti della rappresentazione, erano gli effetti di un esercizio critico del potere culturale e della normalizzazione. Non solo siamo stati/e costruiti/e come diversi/e e altri/e – nell'accezione “Orientalista” definita da Said – all'interno delle categorie conoscitive occidentali, proprio da parte di tali regimi dominati. Ma questi regimi avevano anche il potere di farci vedere e sperimentare noi stessi/e come “Altri/e”. Ogni regime della rappresentazione, come ci ricorda Foucault, è un regime di potere formato dal distico fatale di “potere/sapere”. Ma questo tipo di sapere è interiore, non esteriore. Una cosa è posizionare un soggetto o un insieme di persone come l'altro/a da un discorso dominante. Tutt'altra cosa è assoggettarlo a quel “sapere”, non solo in ragione dell'imposizione e della dominazione, ma attraverso il potere di una coercizione interiore e di una con-formazione alla norma. È questa la lezione – la cupa maestosità – dell'intuizione di Fanon sull'esperienza coloniale in Pelle nera, maschere bianche.
Quest'espropriazione interiore dell'identità culturale paralizza e deforma. Se non ci si oppone ai suoi silenzi, essi producono, come nella vivida frase di Fanon, «gente senza sponda, senza limite, senza colore, apolidi, non-radicati, angeli».2 Ciononostante, quest'idea di alterità come una coercizione interiore modifica la nostra concezione dell’“identità culturale”. In questa prospettiva, l'identità culturale non è un'essenza fissata una volta per tutte, che giace immutata al di fuori della storia e della cultura. Non è un qualche spirito interno a noi, universale e trascendentale, su cui la storia non ha lasciato tracce significative. Non è una-volta-per-sempre. Non è un'origine prefissata a cui possiamo fare un qualche assoluto e finale Ritorno. Naturalmente, non è nemmeno un mero fantasma. È qualcosa – non un mero inganno dell'immaginazione. Ha la sua storia – e la storia ha i suoi effetti reali, materiali e simbolici. Il passato continua a parlarci. Ma non si rivolge a noi come un semplice, fattuale “passato”, visto che la relazione che ci lega ad esso, come la relazione che lega il figlio alla madre, è sempre-già “dopo la rottura”. Ed è sempre costruita attraverso la memoria, la fantasia, la narrativa e il mito. Le identità culturali sono i punti di identificazione – gli instabili punti di identificazione o di sutura – costruiti all'interno dei discorsi della storia e della cultura. Non un'essenza ma un posizionamento. Dunque, c'è sempre una politica dell'identità, una politica della posizione, senza alcuna garanzia assoluta offerta da una qualche “legge dell'origine” trascendentale e aproblematica.
Questa seconda visione dell'identità culturale è molto meno familiare, e più sconvolgente. Se l'identità non deriva da una qualche origine fissa, secondo una linea diretta e ininterrotta, come dovremmo comprendere la sua formazione? Dovremmo pensare alle identità nere caraibiche come “formate” da due assi o vettori che operano simultaneamente: il vettore della similarità e della continuità; e il vettore della differenza e della frattura. Le identità caraibiche devono essere pensate sempre nei termini della relazione dialogica tra questi due assi. Il primo ci dà un qualche fondamento, una qualche continuità col passato. Il secondo ci ricorda che ciò che condividiamo è precisamente l'esperienza di una profonda discontinuità: i popoli trascinati nella schiavitù, nella deportazione, nella colonizzazione, nella migrazione, provengono soprattutto dall'Africa – e una volta esaurita quella riserva, sono stati temporaneamente sostituiti dalla manodopera a contratto proveniente dal subcontinente asiatico. (Questo fatto dimenticato spiega perché, se si visitano la Guyana o Trinidad, si scopre, simbolicamente inscritta nei volti dei loro popoli, la paradossale “verità” dell'errore di Cristoforo Colombo: si può scoprire l’“Asia” navigando verso occidente, se si sa dove cercare!) Nella storia del mondo moderno, ci sono altre fratture tanto traumatiche quanto questa separazione forzata dall'Africa – già rappresentata, nell'immaginario europeo, come “il Continente Nero”. Ma gli schiavi provenivano anche da diversi paesi, comunità tribali, villaggi, lingue e divinità. La religione africana, che è stata così profondamente formativa per la vita spirituale caraibica, è differente dal monoteismo cristiano proprio perché crede che Dio sia così potente da poter essere conosciuto solo attraverso una proliferazione di manifestazioni spirituali, presenti ovunque nel mondo sociale e naturale. Queste divinità continuano a vivere, di un'esistenza sotterranea, nell'ibridato universo religioso del voodoo haitiano, della pocomania, del pentecostalismo nativo, del battismo nero, del rastafarianesimo e del cattolicesimo latinoamericano dei santi neri. Paradossalmente è stato proprio lo sradicamento della schiavitù e della deportazione, e l'innesto nell'economia della piantagione, come pure nell'economia simbolica del mondo occidentale, che ha “unificato” questi popoli attraverso le loro differenze, nello stesso momento in cui li ha tagliati fuori dall'accesso diretto al loro passato.
La differenza, perciò, persiste – dentro e accanto alla continuità. Ritornare nei Caraibi dopo ogni lunga assenza è come sperimentare di nuovo lo shock della “duplicità” di similarità e differenza. Visitando i Caraibi Francesi per la prima volta, a un tratto ho visto anch'io quanto la Martinica sia diversa dalla Giamaica: e non si tratta di una mera differenza topografica o climatica. È una profonda differenza culturale e storica. E la differenza conta. Posiziona Martinicani/e e Giamaicani/e sia come simili che come diversi/e. Comunque, i confini della differenza vengono continuamente riposizionati in relazione ai diversi punti di riferimento. Faccia a faccia con l'Occidente sviluppato, siamo esattamente “gli/le stessi/e”. Apparteniamo al marginale, il sottosviluppato, la periferia, l’“Altro/a”. Noi siamo sempre sul bordo esterno, il “margine”, del mondo metropolitano – siamo sempre il “Sud” di El Norte di qualcun altro/a.
Allo stesso tempo, non siamo nella stessa relazione di “alterità” con i centri metropolitani. Ognuno/a ha negoziato diversamente la propria dipendenza economica, politica e culturale. E questa “differenza”, che ci piaccia o no, è già inscritta nelle nostre identità culturali. È questa negoziazione che a sua volta ci rende differenti – noi Caraibici/he, les Antillennes (“isolani/e” rispetto alla loro terraferma) – faccia a faccia con gli altri popoli latinoamericani, con una storia talmente simile. E ancora, faccia a faccia l'uno/a con l'altro/a, giamaicano/a, haitiano/a, cubano/a, abitanti di Guadalupe, delle Barbados, ecc...
Allora, come descrivere questo play3 della “differenza” all'interno dell'identità? La storia comune – deportazione, schiavitù, colonizzazione – è stata profondamente formativa per tutte queste società: perché ci ha unificato attraverso le nostre differenze. Ma la storia comune non costituisce un'origine comune, poiché tale storia è stata – sia metaforicamente che letteralmente – una traduzione. L'inscrizione della differenza è anche critica e specifica. Uso la parola “play” perché il duplice significato della metafora è importante. Nell'accezione di “gioco”, essa suggerisce l'instabilità, lo sconvolgimento continuo, la mancanza di qualsiasi risoluzione finale. Nell’accezione di “esecuzione musicale”, ci ricorda che il luogo in cui questa “duplicità” può essere colta più energicamente è nell’ambito della varietà delle musiche caraibiche. Dunque questo “play” culturale non può essere rappresentato cinematograficamente come una semplice opposizione binaria – “passato/presente”, “loro/noi”. La sua complessità eccede questa struttura binaria della rappresentazione. In luoghi e tempi differenti, e in relazione a differenti questioni, i confini vengono ri-collocati. Non solo essi diventano ciò che certamente, un tempo, sono stati – categorie che si escludono a vicenda – ma anche ciò che talvolta sono – punti differenziali lungo una scala mobile.
Un esempio banale è il modo in cui la Martinicaè – e allo stesso tempo non è – “francese”. Naturalmente è un department della Francia, cosa che si riflette sul suo stile di vita: Fort de France è un luogo molto più ricco e “alla moda” di Kingston – che non solo è visibilmente più povera, ma si trova ad un punto di transizione tra l’essere “alla moda” nello stile anglo-africano e afroamericano – almeno per coloro che possono permettersi di seguire le mode. Ma ciò che distingue l’“essere martinicano/a” può essere descritto solo nei termini di quello speciale e peculiare complemento che la pelle nera e mulatta aggiunge alla “raffinatezza” e alla sofisticazione della haute couture di derivazione parigina: cioè una sofisticazione che, essendo nera, è sempre trasgressiva.
Per cogliere questo senso della differenza che non è pura “alterità”, è necessario dispiegare il gioco di parole di un teorico come Jacques Derrida. Derrida usa una “a” anomala nel suo modo di scrivere “differenza” – differance – come un indicatore che provoca un turbamento nella nostra radicata comprensione o traduzione di questa parola/concetto: una “a” che mette in moto la parola verso nuovi significati senza cancellare la traccia degli altri suoi significati. Perciò il suo senso della differance, come afferma Chris Norris, «rimane sospeso tra i due verbi francesi per “differire” e “deferire” (posporre), entrambi i quali contribuiscono alla sua forza testuale, ma nessuno dei quali può catturare appieno il suo significato. Il linguaggio dipende dalla differenza, come ha dimostrato Saussure ... la struttura delle proposizioni distintive che costituiscono la sua economia di base. Derrida apre nuove prospettive ... nella misura in cui “differire” sfuma in “deferire” ... l’idea che il significato è sempre deferito dal gioco della significazione, forse fino al punto di una supplementarità infinita».4
Questo secondo senso della differenza sfida i binari prefissati che stabilizzano il significato e la rappresentazione, e mostra come il significato non è mai finito o completo, ma continua a muoversi per comprendere significati altri, addizionali o supplementari, che – come Norris sostiene altrove5 – “disturbano l’economia classica del linguaggio e della rappresentazione”. Senza relazioni di differenza, non sarebbe possibile alcuna rappresentazione. Ma allora ciò che si costituisce nell’ambito della rappresentazione è sempre soggetto ad essere differito, ad essere fatto vacillare, ad essere serializzato.
Allora dov'è che entra in gioco l'identità in questa infinita posposizione del significato? Qui Derrida non ci aiuta tanto quanto potrebbe, sebbene in qualche modo ci venga incontro con la nozione della “traccia”. Talvolta sembra quasi che Derrida abbia concesso ai propri seguaci di riappropriarsi delle sue profonde intuizioni teoriche, entro una celebrazione di “giocosità” formale che le priva del loro significato politico. Poiché se la significazione dipende dall'infinito riposizionamento delle sue relazioni differenziali, il significato, in ogni caso specifico, dipende da una sosta arbitraria e contingente – un “intervallo” necessario e temporaneo nell'infinita semiosi del linguaggio. Cosa che non si discosta dall'intuizione originale. Minaccerebbe di farlo se confondessimo questo “taglio” dell'identità – questo posizionamento che rende possibile il significato – come una “conclusione” naturale e permanente, piuttosto che arbitraria e contingente. Invece io intendo ognuna di queste posizioni come “strategica” e arbitraria, nel senso che non c'è alcuna equivalenza permanente tra la particolare frase che concludiamo e il suo vero significato come tale. Il significato continua per così dire, a dispiegarsi oltre l'arbitraria chiusura che lo rende, in ogni momento, possibile. È sempre sovra- o sotto-determinato, è sempre un eccesso e un supplemento allo stesso tempo. C'è sempre qualcosa che “avanza”.
Con questa concezione della “differenza”, è possibile ripensare al posizionamento e al riposizionamento delle identità culturali caraibiche in relazione ad almeno tre “presenze”, prendendo a prestito la metafora di Aimé Césaire e di Léopold Senghor: la Présence Africaine, la Présence Européenne, e la terza – la più ambigua di tutte le presenze, il termine mobile – la Présence Americaine. Naturalmente sto mettendo da parte, per il momento, le molte altre “presenze” culturali che costituiscono la complessità dell'identità caraibica (indiana, cinese, libanese, ecc.). Intendo qui l'America, non nel suo senso “primomondista” – la grande cugina del nord, della quale noi occupiamo il “margine” – ma nel suo senso più ampio: l'America, il “Nuovo Mondo”, la Terra Incognita.
La Présence Africaine è il luogo del represso. Evidentemente il potere dell'esperienza della schiavitù l’aveva ridotta al silenzio da tempo immemorabile, ma nei fatti l'Africa era presente ovunque: nella vita quotidiana e nelle abitudini degli alloggi degli schiavi, nelle lingue e nei patois delle piantagioni, nei nomi e nelle parole, spesso disconnesse dalle proprie tassonomie, nelle segrete strutture sintattiche tramite le quali si parlavano altre lingue, nelle storie e nei racconti narrati ai bambini, nelle pratiche religiose e nelle credenze, nella vita spirituale, nelle arti, l'artigianato, le musiche e i ritmi della società schiavista e post-emancipazione. L'Africa, il significato che non poteva essere rappresentato direttamente durante la schiavitù, rimase e rimane la “presenza” inespressa e indicibile nella cultura caraibica. Si “nasconde” dietro ogni inflessione verbale, dietro ogni intreccio narrativo della vita culturale caraibica. È il codice segreto tramite cui ogni testo occidentale è stato “ri-letto”. È il basso ostinato di qualsiasi ritmo e di qualsiasi movimento corporeo. Questa era – ed è – l'«Africa» che «è ancora viva e vegeta nella diaspora».6
Quand'ero bambino a Kingston, negli anni Quaranta e Cinquanta, ero circondato dai segni, dalla musica e dai ritmi di quest'Africa della diaspora, che esisteva solo come il risultato di una lunga e discontinua serie di trasformazioni. Ma, sebbene quasi tutti intorno a me fossero di qualche sfumatura scura o nera (l'Africa “parla”!), non ho mai sentito una singola persona riferirsi a se stesso/a o ad altri/e come, in qualche modo, “africano/a”, o come se lo fosse stato/a in passato. Fu solo negli anni Settanta che quest'identità afro-caraibica divenne storicamente accessibile alla grande maggioranza del popolo giamaicano, in patria e all'estero. In quel momento storico, i/le giamaicani/e scoprirono di essere “neri/e” – come se, a un tratto, avessero scoperto di essere i figli e le figlie della “schiavitù”.
Comunque questa profonda scoperta culturale non è stata fatta – e non avrebbe potuto essere fatta – direttamente, senza “mediazioni”. Poteva essere fatta solo attraverso l'impatto che la rivoluzione postcoloniale, le lotte per i diritti civili, la cultura del rastafarianesimo e della musica reggae – le metafore, le figure o i significanti di una nuova costruzione della “giamaican-ità” – hanno avuto sulla vita popolare. Essi significano una “nuova” Africa nel Nuovo Mondo, basata sulla “vecchia” Africa: un percorso spirituale di scoperta che conduce i Caraibi verso una rivoluzione culturale indigena; potremmo dire che quest'Africa è necessariamente “differita” – come metafora spirituale, politica e culturale.
È la presenza/assenza dell'Africa, in questa forma, che fa di essa il significante privilegiato per le nuove concezioni dell'identità caraibica. Chiunque nei Caraibi, qualunque sia la sua provenienza etnica, prima o poi deve venire a patti con questa presenza africana. Neri/e, bruni/e, mulatti/e, bianchi/e – tutti/e devono guardare in faccia la Présence Africaine e pronunciare il suo nome. Ma nonostante in questo senso essa sia un'origine delle nostre identità – rimasta immutata per quattrocento anni di dislocazione, smembramento, deportazione, un'origine a cui possiamo fare ritorno in senso finale o letterale – è più aperta al dubbio. L'“Africa” originale non è più là. Anch'essa si è trasformata. In quel senso la storia è irreversibile. Non dobbiamo essere complici dell'Occidente che, precisamente, normalizza l'Africa e se ne appropria congelandola in una qualche area atemporale di un passato immutabile e primitivo. Bisogna che almeno i popoli dei Caraibi facciano i conti con l'Africa, che però non può essere solo e semplicemente recuperata.
Essa appartiene irrevocabilmente, per noi, a ciò che Edward Said in passato ha chiamato «una geografia e una storia immaginarie», che aiutano «la mente ad avere una maggiore coscienza di se stessa, drammatizzando la lontananza tra ciò che è vicino e ciò che non lo è». Essa ha acquistato «un valore immaginativo o figurativo che si percepisce e a cui possiamo dare un nome».7 la nostra appartenenza ad essa costituisce ciò che Benedict Anderson chiama «una comunità immaginata».8 In questa “Africa”, che è necessariamente parte dell'immaginario caraibico, non possiamo letteralmente fare ritorno a casa.
La caratteristica di questo itinerario “di ritorno a casa” – la sua lunghezza e complessità – emerge vividamente in una varietà di testi. Le fotografie dell'archivio documentario di Tony Sewell, Garvey's children: the Legacy of Marcus Garvey raccontano la storia di un “ritorno” a un'identità africana che passa, necessariamente, per un lungo percorso attraverso Londra e gli Stati Uniti. Non “finisce” in Etiopia, ma con la statua di Garvey davanti alla Biblioteca Distrettuale di St. Ann in Giamaica: non con un canto tribale tradizionale, ma con le note di Redemption Song di Bob Marley e Burning Spear. È questo il nostro “lungo viaggio” verso casa. Il coraggioso testo scritto e visuale di Derek Bishton, Black Heart Man – la storia del percorso di un fotografo bianco “in cammino verso la terra promessa” – inizia in Inghilterra e prosegue attraverso Shashemene, in Etiopia, il luogo in cui molti/e giamaicani/e hanno trovato la loro via per la ricerca della Terra Promessa, e la schiavitù; ma finisce a Pinnacle, in Giamaica, dove si stabilì il primo insediamento rastafariano, e va “oltre” – tra i diseredati della Kingston del ventesimo secolo e per le strade di Handsworth, dove il viaggio di scoperta di Bishton era iniziato. Questi itinerari simbolici sono necessari per tutti/e noi – e sono necessariamente circolari. Questa è l'Africa a cui dobbiamo fare ritorno – ma “attraverso un altro percorso”: ciò che l'Africa è diventata nel Nuovo Mondo, ciò che noi abbiamo fatto dell'“Africa”: l'“Africa” come noi la ri-raccontiamo attraverso la politica, la memoria e il desiderio.
Cosa ne è del secondo, tormentato termine nell'equazione dell'identità – la presenza europea? Per molti/e di noi, questa non è una questione da poco, ma di troppo. Se per l'Africa si trattava di non detto, per l'Europa si tratta di ciò che viene continuamente detto – e continuamente detto a noi. La presenza europea nei Caraibi interrompe l'innocenza dell'intero discorso sulla “differenza”, introducendo la questione del potere. L’“Europa” nella cultura caraibica appartiene irrevocabilmente al “gioco” del potere, alle linee di forza e consenso, al ruolo del dominante. Nei termini del colonialismo, del sottosviluppo, della povertà e del razzismo del colore, la presenza europea è quella che, nella rappresentazione visuale, ha posizionato il soggetto nero all'interno dei regimi dominanti della rappresentazione: il discorso coloniale, le letterature d'avventura e d'esplorazione, il fascino dell'esotico, lo sguardo del viaggiatore e dell'etnografo, i linguaggi traslati del turismo, degli opuscoli di viaggio e di Hollywood, e i linguaggi violenti e pornografici della ganja e della violenza urbana.
Poiché la Présence Européenne ha a che fare con l'esclusione, l'imposizione e l'espropriazione, siamo spesso tentati/e di collocare quel potere come qualcosa di completamente esterno a noi – una forza estrinseca, della cui influenza ci possiamo liberare come un serpente perde la pelle. Frantz Fanon ci ricorda invece, in Pelle nera, maschere bianche, che questo potere è diventato un elemento costitutivo delle nostre identità.
«L'Altro, con gesti, attitudini, sguardi, mi fissa così come si fissa un preparato con un colorante. Andavo in collera, pretendevo una spiegazione... Non servì a nulla. Esplosi. Ecco i minuti brandelli raccolti da un altro me stesso».9
Questo “sguardo” dalla posizione – per così dire – dell'“Altro/a”, ci fissa non solo nella sua violenza, ostilità e aggressione, ma nell'ambivalenza del suo desiderio. Ci mette faccia a faccia con la presenza europea dominatrice, non semplicemente come il luogo o la “scena” dell'integrazione – dove queste presenze altre che essa ha attivamente disaggregato possono essere ricomposte, ri-elaborate, messe insieme in un modo nuovo – ma come il luogo di una profonda frattura, quella duplicità che Homi Bhabha ha definito come «quest'ambivalente identificazione del mondo razzista ... l'“Alterità” del Self inscritto nel perverso palinsesto dell'identità coloniale».10
Il dialogo tra potere e resistenza, tra rifiuto e riconoscimento, a favore e contro la Présence Européenne, è complesso quasi come il “dialogo” con l'Africa. Nell'ambito della vita culturale popolare, non lo si può trovare nel suo stato puro e originale. È sempre-e-già fuso e sincretizzato con altri elementi culturali. È sempre-e-già creolizzato – non perduto al di là del Passaggio Atlantico11 – ma sempre-presente: dalle armonie delle nostre musiche alle percussioni africane, attraversa ed interseca continuamente le nostre vite. Come possiamo fare in modo di essere noi, finalmente, a rappresentare questo dialogo, piuttosto che essere sempre rappresentati/e da esso? Potremo mai riconoscere la sua irreversibile influenza, invece di resistere al suo occhio imperialista? Così facendo l'enigma è impossibile da risolvere. Richiede la più complessa delle strategie culturali. Pensate, ad esempio, al dialogo – in una direzione o nell'altra – di qualsiasi regista o scrittore caraibico con il cinema e la letteratura dominante dell'Occidente, alla complessa relazione dei giovani registi neri britannici con le “avanguardie” del cinema europeo e americano. Chi potrebbe descrivere questo dialogo teso e tormentato come “un viaggio a senso unico”?
Il Terzo termine, la presenza del “Nuovo Mondo”, non è così potente, in termini di superficie, spazio, territorio. È il punto d'incontro in cui si ritrovano i diversi tributari culturali, la terra “vuota” (sono stati i colonizzatori europei a riempirla) dove gli/le stranieri/e provenienti da ogni altra parte del globo si sono scontrati/e. Nessuno dei popoli che occupa oggi le isole – neri/e, bruni/e, bianchi/e, africani/e, europei/e, americani/e, spagnoli/e, francesi, indiani/e, cinesi, portoghesi, ebrei/e, olandesi – “apparteneva” originariamente ad esse. Questo è lo spazio in cui le creolizzazioni e le assimilazioni e i sincretismi sono stati negoziati. Il Nuovo Mondo è il terzo termine – la scena originaria – in cui il fatidico/fatale incontro tra l'Africa e l'Occidente è stato rappresentato. Dev'essere concepito anche come il luogo di molte e continue dislocazioni: degli originali abitanti precolombiani, gli/le Arawaks, i/le Caribi e gli/le Amerindi, perennemente dislocati/e dalle loro terre e decimati/e; di altri popoli dislocati in diversi modi dall'Africa, dall'Asia e dall'Europa; le dislocazioni della schiavitù, della colonizzazione e della conquista. Il Nuovo Mondo significa gli infiniti modi in cui i popoli caraibici sono stati destinati a “migrare”; è il significante della migrazione stessa – del viaggio, della partenza e del ritorno come fato, come destino; degli/le antillani/e come il prototipo del nomade moderno e postmoderno del Nuovo Mondo, in continuo movimento tra il centro e la periferia. Anche se il cinema caraibico condivide questo interesse per il movimento e la migrazione con molti altri “Third Cinemas”, questo è uno dei nostri temi peculiari, ed è destinato ad attraversare le narrative di qualsiasi sceneggiatura e di qualsiasi immagine cinematografica.
La Présence Americaine continua ad avere i suoi silenzi e le sue omissioni. Peter Hulme, nel suo saggio sulle “Isole d'incanto”,12 ci ricorda che la parola “Giamaica” è la forma spagnola per il nome indigeno Arawak – “terra dei boschi e della acque” – una forma che il nuovo nome dato da Colombo (“Santiago”) non è mai riuscito a rimpiazzare. Nelle isole di oggi la presenza Arawak rimane una presenza fantasma, visibile soprattutto nei musei e nei siti archeologici, parte del nostro passato appena conoscibile o fruibile. Hulmes osserva ad esempio che tale presenza non compare nell'emblema del Jamaican National Heritage Trust,13 che ha scelto invece la figura di Diego Pimiento, «un africano che combatté per i propri padroni spagnoli contro l'invasione dell'isola da parte degli inglesi nel 1955» – una rappresentazione differita, metonimica, scaltra e mobile dell'identità giamaicana, come se mai ce ne fosse stata una! Hulmes racconta la storia di come il primo ministro Edward Seaga tentò di modificare lo stemma giamaicano, che consisteva di due figure di Arawak che tenevano uno scudo con cinque ananas sormontati da un alligatore. «Come possono gli Arawak – annientati ed estinti – rappresentare il carattere intrepido dei Giamaicani? Un rettile a sangue freddo come il coccodrillo, rasoterra, quasi estinto, simbolizza forse lo spirito caldo ed elevato dei Giamaicani?» si chiedeva retoricamente il primo ministro Seaga.14 Ci sono poche dichiarazioni politiche che testimoniano così eloquentemente le complessità connesse al tentativo di rappresentare un popolo diverso, con una storia diversa, attraverso una singola “identità” egemonica. Fortunatamente l'invito che Mr Seaga aveva rivolto al popolo giamaicano – dall’irresistibile discendenza africana – l'invito a cominciare a “ricordare” prima di tutto “dimenticando” qualcos'altro, ha avuto la risposta che si meritava.
La presenza del “Nuovo Mondo – l'America, la Terra Incognita – è dunque essa stessa l'inizio della diaspora, della diversità, dell'ibridazione e della differenza, che fa del popolo caraibico già un popolo diasporico. Qui uso questo termine metaforicamente, non letteralmente: la diaspora non ci accomuna a quelle tribù disseminate, la cui identità può essere identificata con certezza solo in relazione ad una terra sacra in cui esse devono a tutti i costi fare ritorno, anche se ciò significa trascinare altri popoli in mare. Questa è la vecchia forma dell'“etnicità”, che imperializza ed egemonizza. Abbiamo avuto modo di osservare questa concezione arretrata della diaspora nel destino del popolo palestinese, e la complicità dell'Occidente con essa. L'esperienza della diaspora come io la intendo qui, è definita non dall'essenza o dalla purezza, ma dal riconoscimento di una necessaria eterogeneità e diversità; è definita da una concezione dell'“identità” che vive insieme e attraverso – non malgrado – la differenza; è definita dall'ibridità. Le identità diasporiche sono quelle che si producono costantemente e si riproducono nuovamente, attraverso la trasformazione e la differenza. L'unica cosa qui che è davvero unicamente – “essenzialmente” – caraibica, è esattamente la mescolanza dei colori, delle pigmentazioni, delle tipologie fisiognomiche; le “miscele” di sapori della cucina caraibica; le estetiche dei “cross-over” e del “cut-and-mix”,15 per prendere a prestito l'efficace espressione di Dick Hebdige, che è il cuore e l'anima della musica nera. I giovani artisti e critici neri della Gran Bretagna stanno riconoscendo ed esplorando in modo crescente nelle loro pratiche culturali questa “diaspora estetica” e le sue formazioni nell'esperienza postcoloniale: «C'è una dinamica sincretica che – attraverso una vasta gamma di forme culturali – si appropria criticamente di elementi che provengono dal codice del padrone e dalla cultura dominante, e li “creolizza”, disarticolando i segni già dati e ri-articolando il loro significato simbolico. La forza sovversiva di questa tendenza ibridizzante è più manifesta sul piano stesso del linguaggio, dove i creoli, i patois e il black english decentrano, destabilizzano e carnevalizzano la dominazione linguistica dell'“Inglese” – la lingua-nazione del discorso del padrone – attraverso inflessioni strategiche, ri-accentuazioni e altri movimenti performativi nei codici semantici, linguistici e sintattici».16
È proprio perché questo Nuovo Mondo è stato costituito per noi come luogo – come narrativa della dislocazione – che esso fa sorgere così profondamente un certo immaginario di pienezza, ricreando il desiderio infinito di tornare alle “perdute origini”, di essere ancora una volta con la madre, di tornare al principio. Chi potrebbe mai dimenticare queste isole d'incanto, dopo averle viste emergere da quei Caraibi verde-blu? Chi non ha mai conosciuto, a questo punto, l'impeto di una travolgente nostalgia delle perdute origini, o dei “tempi andati”? Eppure questo “ritorno alle origini” è come l'immaginario di Lacan – non può essere né colmato, né ricompensato, e dunque è il principio del simbolico, della rappresentazione, la fonte infinitamente rinnovabile del desiderio, della memoria, del mito, della ricerca e della riscoperta – in breve, il serbatoio delle nostre narrazioni cinematografiche.
Abbiamo cercato di mettere in gioco, con una serie di metafore, un diverso senso della nostra relazione con il passato, e dunque diversi modi di pensare all'identità culturale, che potrebbero costituire i nuovi punti di riconoscimento nei discorsi del cinema emergente caraibico e dei cinema neri britannici. Abbiamo tentato di teorizzare l'identità come costituita all'interno – e non al di fuori – della rappresentazione; e dunque di considerare il cinema non come uno specchio di second'ordine che riflette ciò che già esiste, ma come quella forma di rappresentazione che è capace di costituirci come un nuovo tipo di soggetti, e di conseguenza ci permette di scoprire dei luoghi da cui parlare. Le comunità – come sostiene Benedict Anderson in Comunità immaginate – devono essere distinte non in base alla loro falsità/genuinità, ma in base allo stile in cui esse sono state immaginate.17 È questa la vocazione dei moderni cinema neri: permetterci di vedere e di riconoscere le nostre diverse componenti e storie, per costruire questi punti identificativi, questi posizionamenti che retrospettivamente chiamiamo le nostre “identità culturali”.
«Non bisogna dunque accontentarsi di tuffarsi nel passato del popolo per trovarvi elementi di coerenza di fronte alle imprese falsificatrici e denigratrici del colonialismo. [...] La cultura nazionale non è il folk-lore in cui un populismo astratto ha creduto di scoprire la verità del popolo. [...] La cultura nazionale è l'insieme degli sforzi fatti da un popolo sul piano del pensiero per descrivere, giustificare e cantare l'azione attraverso cui il popolo si è costituito e si è mantenuto».18


(Traduzione di Sonia Sabelli)


Cultural Identity and Diaspora è stato pubblicato per la prima volta in J. Rutherford (a cura di), Identity: Community, culture, difference, Lawrence & Wishart, Londra, 1990, pp. 222-37. Poi anche in Patrick Williams e Laura Chrisman (a cura di), Colonial Discourse and Post-colonial Theory. A Reader, Harvester/Wheatsheaf, 1993, pp.392-403.

Una recente intervista con Stuart Hall è stata pubblicata sul Sagarana n. 15, Aprile 2004.



NOTE
1 Frantz Fanon, "On national culture", in The Wretched of the Earth, London, 1963, p. 170 [trad. it. di Liliana Ellena, “Sulla cultura nazionale”, ne I dannati della terra, Edizioni di Comunità, Torino 2000, pp. 142-3].

2 Ibid ., p. 176 [trad. it. p. 149].

3 [In questo caso ho preferito non tradurre il termine “play” – usato qui nelle diverse accezioni di “gioco” ed “esecuzione musicale” – per l’impossibilità di rendere in italiano la stessa duplicità di significato, che assume particolare rilevanza all’interno del discorso di Hall] N.d.T.

4 Christofer Norris, Deconstruction: Theory and practice, London 1982, p. 32.

5 Idem , Jacques Derrida, London 1987, p. 15.

6 Stuart Hall, Resistance Through Rituals, London 1976.

7 Edward Said, Orientalism, London 1985, p. 55 [trad. it. Orientalismo, Feltrinelli, Milano 2001, p. 61].

8 Benedict Anderson, Imagined Communities: Reflections on the origin and the rise of nationalism, London, 1982 [trad. it. Comunità immaginate: origini e fortuna dei nazionalismi , prefazione di Marco D'Eramo, Manifestolibri, Roma 2000].

9 Frantz Fanon, Black Skin, White Masks, London 1986, p. 109 [trad. it. di Mariagloria Sears, Pelle nera, maschere bianche, Marco Tropea Editore, Milano 1996, p. 97].

10 Homi Bhabha, "Foreword" a Frantz Fanon, ibid., pp. xiv-xv [introduzione alla traduzione inglese di Pelle nera, maschere bianche].

11 [Con Middle Passage Hall si riferisce a quella parte dell’Oceano Atlantico che va dall’Africa alle Indie Occidentali, storicamente attraversata dalla tratta degli schiavi. Secondo il critico Paul Gilroy si tratta di un concetto fondamentale per comprendere l’esperienza contemporanea della diaspora nera. Cfr. Paul Gilroy,The Black Atlantic. Modernity and Double Consciousness, Verso, London- New York 1993; trad. it., The Black Atlantic. L'identità nera tra modernità e doppia coscienza , Meltemi, Roma 2003] N.d.T.

12 “ Islands of enchantment”, in New Formation, 3, Winter 1987.

13 [L’Ente Giamaicano per l’Eredità Nazionale, che si propone di ispirare il senso dell’orgoglio nazionale attraverso la promozione, la conservazione e lo sviluppo dell’eredità materiale e culturale giamaicana, cfr. http://www.jnht.com] N.d.T.

14 Jamaica Hansard, 9, 1983-4, p. 363. Citato in Hulme, ibid.

15 [“Cross-over” significa letteralmente “attraversamento” o “trasversale”: si riferisce a qualcosa che si muove da un lato all’altro, che attraversa diversi generi. La diffusione della world music e della musica etnica, ha dato vita ad un arricchimento reciproco generato dall’incontro tra diverse tradizioni musicali che si influenzano a vicenda: tale fenomeno è stato definito appunto cross-over. (Nel linguaggio tecnologico “crossover” è anche il nome di un filtro che asserve alla suddivisione delle frequenze da inviare ai vari altoparlanti che costituiscono un diffusore sonoro).
“Cut-and-mix” significa letteralmente “taglia e metti insieme”: si riferisce alla pratica con cui i dj usano i giradischi per mixare (mescolare) diversi ritmi o frammenti musicali. In questo modo il suono solidificato nel disco può essere manipolato liberamente, e diventa a sua volta materia prima di nuove performance, costruite sulla base di un’interazione dialogica e improvvisativa, tra la riproduzione della registrazione e la voce reale del dj o del cantante.
Con queste due espressioni Hall si riferisce dunque ad una caratteristica fondamentale delle estetiche nere: la capacità di riadattare sapientemente e secondo il proprio gusto– attraverso le tecniche del montaggio e dell’assemblaggio, del patchwork e del bricolage , fino alle forme postmoderne del pastiche e del frammento – gli avanzi delle nostre tecniche, delle nostre letterature e delle nostre musiche, riuscendo a rappresentare in maniera creativa e originale la frammentazione che caratterizza l’esperienza nera. Cfr. Dick Hebdige, Cut 'N' Mix: Culture, Identity and Caribbean Music , Routledge, 1987] N.d.T.

16 Kobena Mercer, "Diaspora culture and the dialogic imagination", in M. Cham e C. Watkins (a cura di), Blackframes: Critical perspectives on black independent cinema, 1988, p. 57.

17 Anderson, op. cit., p. 15.

18 Frantz Fanon, "On national culture", cit., p. 170 [trad. it. “Sulla cultura nazionale”, cit., p. 161].

 

Stuart Hall



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