LUNEUR

 

Claudio Morici

 

 

Fino a ieri frequentavo il Luneur. Ci lavora una ragazza bellissima e io ero lì due volte a settimana. L’ho fatto per un paio di mesi. Il suo nome è Chiara, almeno l’ho sentita chiamare così. Non molto alta, biondina con i capelli corti, bellissima appunto. Certo avrà diciassette anni, quindici in meno di me, ma non ci posso fare niente: è la donna della mia vita. Lo dico pur sapendo che il suo fascino dipende anche dal lavoro al Luneur. Anzi, credo che il suo lavoro sia determinante.

Si tratta del gioco in cui tiri l’anello. C’è questo chiosco rotante con tanti oggetti sopra. Un trionfo dell’hi-tech: cellulari, lettori mp3, cd, sveglie, agende digitali, televisorini. Ma ci sono anche bocce di spumante, limoncelli, peluche, orologi, in pratica almeno una cosa la vorresti avere. Questo tavolo gira con tutto sopra, tu compri 5 anelli a 3 euro e glieli tiri. Devi riuscire a circondare il premio con l’anello. Pensi: “Che cazzo ci vuole?”. Poi segui bene il gioco e capisci che c’è qualcos’altro. Chiara ti fa vedere che l’anello può e deve arrivare fino alla base del piedistallo che sorregge il premio. Fa: “Vedi? Vedi com’è facile?” e ci riesce. “Basta questo?”, e lei “Sì”. Al quel punto ti giri intorno, per vedere se altri giocatori possono fregarti l’oggetto che hai adocchiato. Poi calcoli il valore dei premi e valuti che lo potresti fare come professione, con un paio di ore al giorno. Allora investi 3 euro iniziali e cominci a tirare.
Il primo anello rimbalza trai premi e schizza fuori, il secondo anello becca un Amaro Montenegro ma non scende, terzo anello cilecca, quarto anello l’autoradio ma non scende, quinto anello fa una serie di giri intorno al cellulare e poi si blocca di sbieco, senza raggiungere la base del piedistallo. Allora Chiara: “Vedi? Vedi come è facile?” e il suo scende proprio giù, come dovrebbe. Ti fermi a riflettere, mentre tutto continua a girare: Motorola, lettore mp3, videofonino. Provi altri 3 euro, tiri, stavolta li azzecchi tutti ma l’anello non scende mai, mai fino in fondo. Hai avuto mira, hai avuto costanza, l’hai preso, è quello che ti piace, non è il peluche. Eppure c’è qualcosa che non va: leggi della fisica, fortuna, effetto ottico. In ogni caso quell’anello non scende, il premio rimane lì, al Luneur.

Ma io credo di piacere a Chiara. Fa la simpatica con tutti, certo. Però c’è qualcosa con me che esce fuori dallo schema. Fino a ieri mi vedeva tutte le settimane, andavo lì davanti, 3 euro, facevo una partita e me ne andavo. Ad un certo punto ha cominciato a darmi appuntamenti: “Allora ci vediamo domani?”, pur sapendo che io non venivo proprio tutti i giorni, ma solo due volte a settimana. Può sembrare sottile, lo so, ma tutto è sottile nel corteggiamento.
Poi quando tornavo a casa la pensavo. Pensavo a lei bellissima mentre tirava l’anello intorno a un videogioco tascabile. “Vedi? Vedi come è facile?”.

Ieri sono andato al Luneur con tutta l’intenzione di chiederle come cazzo fa a far scendere l’anello fino alla base del piedistallo. “Magari, a me, lo dice”, ho pensato. Pur sapendo che il fatto di lavorare lì glielo avrebbe impedito: avrei vinto tutti i giorni, il chiosco sarebbe fallito, l’avrebbero licenziata, cose così. Mi sono chiesto anche come mai Chiara non se ne andasse in giro per Lunapark a sbancare i chiostri concorrenti. Ho pensato infine che sì, forse me l’avrebbe detto, ma facendomi promettere di non giocare più. Allora non ci saremo visti mai più, addio, cose così.
“O la va o la spacca” mi sono detto. E sono andato da lei e ho fatto i miei cinque tiri, ho pagato 5 euro e poi “Devo parlarti”. Lei stava spiegando il gioco a una famiglia, non erano di Roma, il padre teneva in braccio il figlio e gli chiedeva di scegliere il premio. Chiara gli aveva appena detto “Vedi? Vedi com’è facile?”. Quando mi ha sentito ha risposto subito che potevamo incontrarci dopo, quando staccava, alle 23. Me l’ha detto con una faccina bellissima. E senza chiedermi se era una cosa lunga o corta, privata o non privata. Tutto si faceva meno sottile.
A questo punto, con il cuore palpitante, ho fatto una passeggiata. Non volevo far vedere che rimanevo tre ore lì davanti, avrei speso anche un patrimonio, e allora le ho detto che avevo da fare e tornavo alle 23. Invece ho passeggiato per il Luneur.
E’ stato molto interessante. Ormai non ci va più nessuno al Luneur, credo sia colpa della Play Station, ma io conservo molti ricordi legati a questo posto. C’abitavo vicino, quando avevo più o meno l’età di Chiara. Camminare accanto al mostro di LockNess, assistere a uno scontro di go-cart, vedere la faccia stravolta dell’unico passeggero della nave Pirata, è stato un po’ come giocare al tiro dell’anello. Mi venivano in mente delle immagini, le vedevo, le seguivo. E per un attimo scendevo giù, vivevo quella cosa come vera, con le stesse emozioni, lo stesso sguardo, fino a dimenticarmi dove fossi. Ma proprio nel picco più intenso, tornavo al presente. Come un Tagadà che gira vuoto, la mia immaginazione tradiva i presupposti, era vuota, non portava a casa nulla. Beccava quella cosa e si fermava a metà. Il passato è passato, anche se nel presente ci sarebbe un sacco di spazio.
Pensavo: “Come fa a riuscirci? C’è il trucco? Me lo dirà?”.

Allora tiro i miei anelli. Primo anello.
Avevamo dormito dentro la mia Fiesta nera, meglio che guidare da Nettuno a Roma, ubriachi. Torniamo alle sei di mattina e dove andiamo? “Passiamo al Lunapark”. Io dico sì, avrei detto di sì a qualsiasi cosa pur di non pensare a lei: “Forse altri 30 minuti senza pensarla”. Scavalchiamo e iniziamo la nostra passeggiata in un Luneur fermo, desolato, eppure forte lo stesso, anzi, ancora più forte. La cosa strana del Luneur alle sei di mattina è che esiste lo stesso, non l’avrei mai detto.
Poi uno ha l’idea di pisciare dentro la bocca della verità, quella dove ci metti la mano e ti esce una carta che ti legge il futuro. Pisciamo uno appresso all’altro, è comodo, ha proprio quell’altezza. Per la gente che, tra poco, farà domande sul suo destino.

Ecco, secondo anello, tiro…
Al Luneur ci andavamo per rimorchiare il sabato pomeriggio. Ti vestivi bene, ma senza collanine d’oro, che la settimana prima avevano scippato uno. Camminavi avanti e indietro, guardavi culi, facevi le battute da lontano, chiedevi una sigaretta, ti fermavi a parlare quando trovavi il coraggio e molto raramente ti andava bene. Anzi, diciamo mai. Ad un certo punto mi sento una mano da dietro, sulla pancia. Mi giro e vedo lei, certamente più grande di me, jeans chiari, capelli biondi lisci, una bella ragazza. Ricordo che notai la cinta del Charro. Mi guarda, ha le pupille strane e un sorriso demente, ogni tanto barcolla. Mi fissa, sempre con la mano sulla mia pancia, poi chiama le sue amiche e mi fa: “Se vieni con noi ti facciamo un pompino”. Mi viene da ridere, ma lei è seria e insiste. Guardo i miei amici, ridono anche loro, poi non so come scompaiono. Lei mi prende per un braccio e tira: “Vieni dai”. Io mi reggo sulla ringhiera, ora sono in tre, “No, non mi va”, devo prenderle a calci, una cade a terra, l’altra mi strappa la camicia, continua a dire oscenità, convinta, giuro, convinta. Scappo via. Quando rivedo i miei amici, uno mi fa “potevi andarci”.

Terzo anello, tiro più piano, lo accompagno con il corpo.
C’è mio padre che mi dice che possiamo fare l’ultima giostra. Io scelgo i caccia spaziali che girano sul braccio meccanico. Mio padre si mette sul caccia davanti al mio. Siamo solo noi sulla giostra, questa comincia a prendere velocità e sono schiacciato contro il sedile, vedo mio padre davanti, terrorizzato, spettinato, che ad un certo punto si gira bianco e mi fa “reggiti!” col tono serio. Provo fastidio a vederlo così e la giostra sembra troppo lunga, infinita. Quando scendiamo, lui fa finta di niente.

Quarto anello.
Passeggio con Antonio, è una delle ultime volte che lo vedo. Mi ha chiamato lui, mi ha detto lui di venire qui, davanti al tunnel dell’orrore. Parla da solo e parla tanto, si capisce che sta male: “Ma come fai ad avere paura di qualcosa circondato da gente fuori con lo zucchero filato? Di cosa hai paura? Ma come fai a spaventarti di uno scheletro davanti la macchina? Che cos’è allora quello scheletro?”

Quinto anello, sono incazzato. Penso a Louis-Ferdinand Céline. Quando gli chiedevano come facesse a riprodurre in modo così efficace il linguaggio della gente, con quei dialoghi fantastici, quelle voci così fedeli al popolo, lui rispondeva con l’esempio del bastoncino nell’acqua. Il bastoncino è dritto, ma se lo immergi nell’acqua lo vedi storto. Ecco, lo scrittore deve conoscere le regole di questa distorsione e, prima di immergerlo, sapere come e dove incurvarlo, in modo che dopo sembri dritto. La letteratura è l’acqua.
Allora provo a tirare verso l’alto sperando che poi l’anello scenda in verticale… e non becco nulla. Anzi, il cerchio esce fuori dal chiostro, il proprietario sbuffa e deve uscire a riprenderlo. Hai 7.000 battute, mi fa. Questo è un racconto, mica casa tua.
“Ok”, rispondo io.
Ci riesce solo Chiara. Lei potrebbe dirmelo, potrebbe farlo per me. E’ bellissima.

Alle ventitre meno cinque ero lì davanti. Lei aveva già chiuso, mi osservava, sorrideva, era bellissima. Poi si è avvicinata e abbiamo cominciato a camminare sottobraccio, appoggiava la testa sulla mia spalla, leggera, profumata. Ho pensato subito ai preservativi: “forse ce n’ho uno in macchina”, “Farmacia più vicina? A viale Europa, è aperta tutta la notte”.
“Che mi devi dire?”
Si capiva che stava scherzando, ormai non dovevo chiederle nulla, era fatta. Stava lì e sorrideva, mi fissava. Era il momento per baciarla.
“Che fai?”
“Come che faccio?”
“Io ho il ragazzo”.
Sono rimasto stupito, solo stupito giuro. Ma incredibilmente stupito. Ho fatto appena in tempo ad allontanarmi di qualche centimetro che si è avvicinata una moto: il ragazzo. Lei subito me l’ha presentato, ci ho parlato, simpatico, hanno la stessa età, si era appena comprato la moto. “Però Laura quando corro se la fa sotto”. Cavolo, non si chiama Chiara, perché ero convinto di sì? Lei: “Non è vero che ho paura” e gli ha dato uno schiaffetto sulla guancia, neanche troppo piano. Non sapevo che dire e ho fatto qualche battuta sulla superiorità delle moto giapponesi. Lui mi ha confessato che questa era il suo sogno, da tre anni la desiderava.
Ad un certo punto lei è montata sulla moto con un saltino. Ha detto qualcosa all’orecchio di lui e subito mi hanno salutato, mi è sembrato anche con un certo affetto.
Visti da lontano, mentre costeggiavano le montagne russe, sembravano un anello sceso fino giù.
Ma non vinceranno nulla neanche loro. E’ tutta un’impressione, e poi lavorano lì.




Claudio Morici vive a Roma dove è nato nel 1972. Ex psicologo, esordisce con il romanzo Matti Slegati (Stampa Alternativa, 2003). Recentemente ha ideato e curato Teoria e tecnica dell'artista di merda (Valter Casini, 2004), la singolare antologia dove 18 artisti, provenienti da più campi, raccontano come vivono (o sopravvivono) con la propria attività. Si occupa di net art ed è uno dei fondatori di www.gordo.it.



          Precedente     Successivo    VENTONUOVO    Copertina