COME AL SOLITO

 

Carla Mellidi

 

 

Come al solito l’avevo aspettata per almeno mezz’ora, prima che si presentasse trafelata e scompigliata a reclamare la mia presenza con un colpo di clacson. In tanti anni non ero mai riuscita né a farla arrivare puntuale, né a farle smettere la fastidiosa abitudine di chiamarmi dall’auto, senza scomodarsi neppure a scendere e fare i tre passi che la separavano dal citofono. Neppure ora che andavamo progettando di dividere lo stesso appartamento avevamo trovato un compromesso tra i miei abusati dovere e rispetto, zavorre di incertezze e paure che rallentavano i miei passi in prigioni di orme d’arresto, e la leggerezza con cui Monica sembrava attraversare la vita. Così anche quel tardo pomeriggio invernale che aveva anticipato i colori e gli odori della notte, il cielo una pozza d'acqua sporca sospesa, dopo aver sbirciato dalla finestra ogni frenata d’auto, già col cappotto chiuso al collo dal nodo della sciarpa e la borsa a tracolla, l’avevo vista arrivare e mi ero precipitata per le scale prima ancora che inscenasse uno dei suoi maldestri tentativi di parcheggio.
Solo quando ero ormai con la mano sulla portiera mi accorsi del cane che neppure stavolta, a dispetto di tutte le mie preghiere e delle sue promesse, s’era degnata di portare dai suoi e che non aveva nessuna intenzione ora di lasciare a casa mia. Ero già pronta a intonare la litania solita sulla sua indifferenza alle richieste degli altri, sul suo egoismo, sulla sua inaffidabilità, fondamentali questioni di rispetto e attenzione, ma il sorriso che accompagnava la sua aria scanzonata, rese le mie parole sono un indistinto borbottio, messo a tacere alla fine anche quello dalle feste del cane.
Entrai in auto comunque sbuffando:
– Siamo in ritardo!
– Non tanto, se ci sbrighiamo.
– No, solo quaranta minuti. Se ci sbrighiamo.
Avvio solito di parole consunte, appartenute a troppi incontri per mancare questo.
– E poi veramente sei tu che sei in ritardo...
Monica che nemmeno si gira a guardarmi, io che parlavo, ma non era importante. C’era Chiara da passare a prendere. Troppo tardi. Si sarebbe comunque arrangiata. Noi due sole in auto, Monica e io, alleanza improbabile e certa di sempre.
I quaranta minuti d’auto che seguirono si sono confusi nella mia memoria tra i mille altri passati insieme tra pettegolezzi, confessioni e segreti ammiccati appena, tutti miei sforzi per ritagliare quello spazio, restituirgli la sua autonomia, restituirlo alla mia vita, sono stati inutili. Per mesi ho aspettato che i minuti si ricomponessero, ma altre scene simili si sono sempre sovrapposte, qualche volta regalandomi ricordi che credevo persi. Frammenti isolati della nostra amicizia mi si parano davanti agli occhi all’improvviso, con la violenza di un lampo, e resistono a tutti i miei sforzi di collocarli in un racconto lineare. Quei minuti no, non sono più tornati.
A volte guardo il cane che ora vive con me e mi pare che lui mi guardi con lo stesso mio sguardo, gli faccio domande, aspetto ottusamente che almeno lui risponda, lui che ora è solo un vecchio cane senza razza che si trascina stancamente per casa quando vuol farmi festa, ammesso che abbia ancora voglia di far festa a qualcuno, e che allora era poco più di un cucciolo, che non si poteva lasciare solo a casa perché “sarebbe morto di nostalgia”. Racchiude ricordi un cervello di cane? C’è un modo per renderli compatibili coi miei? Siamo noi due, reciprocamente muti, condannati a conservare, ognuno a suo modo, brandelli di caos, e lui è vecchio. Resisterà ancora per quanto? troppo poco per riuscire a strappargli il segreto.
Mi ricordo invece la cena che doveva inaugurare la casa e la convivenza di Marzia e Michele, le risate, il vino, la sensazione un po’ inebriante di ogni inizio. Anticipo di vita adulta preparato da famiglie benestanti e protettive. L’imbarazzo degli ospiti per il cane che immediatamente, bagnato e fangoso, s’era accomodato sul divano che odorava ancora di nuovo, Monica che sembrava non preoccuparsi per niente, mentre io mi accanivo a scusarmi tentando goffamente di tirarlo giù, provocando lamenti strazianti del cane e risate convulse della padrona. Poi tutto era andato avanti da sé: eravamo un gruppo piuttosto affiatato, ci frequentavamo da tanto tempo da aver perso la memoria di un inizio, alcuni dei nostri genitori erano amici prima ancora che noi nascessimo, in un tempo che sconfinava nel sempre; qualcuno certo l’avevamo introdotto in momenti successivi, ma anche per loro era difficile stabilire un prima.
Aleggiava su di noi la sconsiderata sensazione che tutto fosse sempre stato così, esattamente come quella sera, e che tutto così sarebbe rimasto, a dispetto dei nostri poco più che vent’anni, a dispetto di quello che sarebbe inevitabilmente accaduto di noi. Quella sera eravamo noi come dovevamo essere, come avevamo imparato ad essere e come era impossibile che non saremmo stati mai più. Progetti relegati a un domani da venire, certi di un oggi saldato al momento. Le coppie sarebbero state coppie per sempre, anche quelle che ormai si sfaldavano, i tradimenti restavano chiusi nell’improbabile possibile, chi di noi era solo allora, avrebbe anelato sempre quell’amore irraggiungibile che la fantasia nutriva di realtà: un mondo chiuso, impermeabile, congelato all’infinito, noi sul ciglio di ogni possibilità.
Da anni non vedo più nessuno di loro. Allora i progetti nebulosi, quel divenire immobile che ci proteggeva: eravamo noi, semplicemente, a dare senso a tutto. Poi tutto è diventato fatica, gli incontri, anche quelli casuali, un’accusa, una colpa mai espiata. All’inizio c’eravamo tutti costretti a cercarci, incatenati uno all’altro, quasi che la presenza di tutti potesse restituire un’unica assenza. Quella mancata restituzione avvelenava ogni faccia, ogni gesto violava la presenza che mancava. Così cominciarono le prime imbarazzate defezioni, con troppe scuse a riempire di arabeschi le distanze che si sarebbero comunque tracciate, ma questo non potevamo ancora saperlo. A ognuno di noi toccò la fatica di cancellare gli altri per seppellire nei loro sguardi il perdurare di una domanda.
Quella sera però eravamo ancora al di qua della linea, ancora in bilico sul ciglio, convinti di essere saldamente ancorati a un divenire certo. Quando ormai le stanze immacolate erano sature di fumo, qualche macchia aveva lasciato la nostra impronta sul divano e sul pavimento, e qualcuno sonnecchiava abbandonato in qualche angolo della casa, cominciarono i saluti. Restava da compiere l’ultimo rito: organizzare il ritorno. Lentamente, faticosamente tutti trovammo una collocazione nelle auto che ci avrebbero riportati a casa, qualcuno in quel viaggio a ritroso avrebbe tentato l’approccio preparato per tutta la durata della serata, qualcun altro avrebbe ripetuto il copione della lite di fine giornata, ad altri sarebbe toccato solo commentare l’intrecciarsi dei rapporti, a qualcuno rimpiangere l’ennesima occasione persa. Forse qualcuno già covava in segreto il tarlo della noia.
Nell’auto di Monica trovammo posto, oltre a Monica, io, il cane e la povera Chiara che all’andata s’era dovuta arrangiare a ripescare un passaggio all’ultimora, da Davide ostinatamente sordo alla sua pretesa d’amore, sempre accennata, mai dichiarata.
L’auto era gelida, fuori sembrava piovesse da sempre. Decidemmo dopo una trattativa estenuante che la prima ad esser scaricata a casa, quella che avrebbe perso gli ultimi minuti di confidenze e verità irrinunciabili, sarebbe stata Chiara, quindi finalmente Monica avviò il motore. Il cane sonnecchiava, noi parlavamo una sull’altra. Padri, madri, fidanzati lasciati o sperati, le parole rotolavano, ma anche di quelle ho perso memoria: è come cercare di ridare parole a una canzone di cui si ricorda solo il motivo, che torna ossessivamente, ma resta muto, ostinato a logorare i pensieri.
In quel cicaleccio di voci, la memoria si squarcia: arrivammo a casa di Chiara, e ormai la notte aveva esaurito la pioggia, aspettammo di vederla entrare nel portone, salire le scale, accendere la luce della sua stanza, per ridere poi delle nostre paranoie su maniaci assassini acquattati nell’androne o dietro la sua porta di casa. Solo quando Monica mise di nuovo in moto l’auto lasciai distrattamente cadere lo sguardo sul segnalatore della benzina che tanto per cambiare era in riserva.
– Fermiamoci a fare benzina.
– Macché, figurati se non basta fino a casa.
– Da quanto sei in riserva?
– Che palle, sembri mia nonna. Lo so che basta, falla finita.
Era la stessa conversazione di sempre, ripetevamo solo stancamente le nostre battute per l’ennesima replica, forse per questo mi arresi tanto in fretta, o forse perché Monica attaccò subito a raccontarmi tutto quello di cui non m’ero accorta “rincoglionita com’ero”: Davide era strafatto, Mauro non aveva fatto altro che spiarmi, e forse non era poi così male, mentre io stavo dietro alle idiozie sull’arredamento dei padroni di casa. Aveva tentato di sedersi accanto a me a tavola, ma io avevo lasciato il posto a qualcun altro. Mentre rivedevo la scena cercando appigli reali alle nostre costruzioni fantastiche su amori più o meno implosi, l’auto cominciò a rantolare.
– Che succede?
– Non lo so.
– Non lo sai un cazzo, come minimo sarà finita la benzina e siamo su una strada di merda.
– Stai calma. Ora accosto nella corsia d’emergenza e vediamo.
– Che facciamo, fermiamo qualcuno?
– Sì brava. Prova a fermare qualcuno su questa strada, così finiamo sicuro o spiaccicate o violentate e ammazzate.
– Bene allora suggerisci tu.
Accostammo l’auto, le quattro frecce accese, scendemmo e restammo per un po’ a saltellare nel freddo di piombo, mentre il cane ci guardava curioso e sconsolato dietro il finestrino appannato, poi Monica si ricordò della tanica vuota nel portabagagli e partorì l’idea che io avrei raggiunto il distributore più vicino per riempirla di benzina. L’avrei strozzata, ma il distributore effettivamente era vicino e “delle due, io ero la cogliona senza patente”, quindi, senza rinunciare a recriminare, sembrò anche a me che quella fosse l’unica soluzione per non morire congelate o peggio.
– Vuoi portare il cane?
– No, se devo finire ammazzata o congelata preferisco essere da sola e lasciarti il tuo cane. E spero che almeno ti consolerà i rimorsi.
Monica rise rientrando in auto e io mi avviai. Ancora il ricordo, a intermittenza, cancellata l’andata, quello che resta del ritorno si staglia limpido, consequenziale, un racconto semplice, senza intoppi, senza buchi. Quasi correvo, un po’ per il freddo un po’ per la paura, fino ad arrivare al distributore, senza destare l’attenzione di nessuno. Quanto tempo impiegai? Non lo so. Forse neppure allora lo calcolai, forse l’ho perso dopo quel tempo. Arrivai e riempii la tanica, pagai e ripresi la strada a ritroso. C’era abbastanza gente perché non sembrasse strano che una ragazza si presentasse da sola a un distributore con una tanica vuota in mano, né riempirla e tornare indietro incuriosì nessuno.
Sorridevo al pensiero dei racconti che sarebbero nati da quell’incidente, sorridevo ancora quando udii lo stridio di freni e lo schianto di ferraglie. Poi il sorriso divenne stupore. Vedevo le auto frenare, ma continuai a camminare, forse senza neppure cambiare andatura. Le persone accorrevano disordinatamente, si consultavano freneticamente, telefonavano, urlavano, piangevano, ma io continuavo a camminare, appena un po’ stupita dalle tante presenze che popolavano quella notte.
Pensavo indistintamente a un incidente, pensavo a Monica che magari aveva visto tutto, che m’avrebbe raccontato tutto, pensavo che quella notte non finiva più, che mi pareva di pensare come se fosse già finita. Vidi un groviglio di auto incastrate una nell’altra, qualcuno venirmi incontro. Vidi il cane seduto al ciglio della strada guardare immobile l’ammasso di ferraglie che componeva un corpo nuovo scomposto di metallo e fumo.
Non avevo più la tanica in mano mentre mi liberavo dalla tenaglia che mi stringeva le braccia per raggiungere il cane. Qualcuno piangeva, il cane mi guardò un istante poi tornò a fissare il groviglio, seguii il suo sguardo fino al groviglio e, prima che riuscissi a muovermi, un muro di facce mi imprigionò. Aspettai l’ambulanza, telefonai, avvisai, spiegai a chi mi faceva domande finché il suono di una voce familiare mi raggiunse, mi trovai avvinghiata ad un corpo di cui il mio corpo conosceva l’odore. Dissi quello che potevo dire, raccontai e domandai di Monica ferita, di Monica da raggiungere in ospedale e non piangevo.
Ascoltai, smozzicata tra i singhiozzi di chi parlava il pezzo di storia che non avevo vissuto, che non conoscevo. Un camion, un autista, un colpo di sonno. L’auto diligentemente ferma nella corsia d’emergenza, le luci accese non viste. L’urto leggero del bestione che la spinge nella corsia ad alta velocità, il sopraggiungere veloce della jeep, lo schianto, il cane sbalzato illeso dal finestrino rotto. Ricomposi tutto scrupolosamente, senza piangere; dovevo raggiungere Monica.
Non piansi neppure quando Monica la raggiunsi davvero, dopo una settimana, dopo aver scongiurato, implorato. La rividi ma non la riconobbi. Restai immobile sulla porta. Il trucco l’aveva trasformata più ancora della settimana di decomposizione scandita dal gelo della cella frigorifero. La guardai e mi venne da ridere, pensai che avessero confuso i cadaveri. Cerone, ombretto, fard, rossetto dipingevano un’imitazione beffarda di faccia. Monica non s’era mai truccata. Monica neppure si pettinava sempre. Perché truccare un morto? Chi l’aveva conciata così? Perché

 




Carla Mellidi è nata a Terracina (LT) nel 1970. Laureata in filologia medievale e umanistica, ha collaborato a lungo con Rai Educational. Attualmente collabora con l'Agenzia "Migranews".



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