SHOPPINGBERLUSCA
Marco
Di Porto
Quella
notte, infausto presagio, avevo fatto un sogno trash: in un
supermarket completamente vuoto, cercavo disperato un commesso
che mi scortasse verso l'uscita, ma ad ogni angolo sbattevo
contro un omino dal sorriso beffardo, del tutto simile a Silvio
Berlusconi. Il plurindagato padrone d'Italia cercava di convincermi
che tutto quel vuoto era in realtà appetibile, desiderabile,
e mi esortava ad utilizzare il bancomat sul terminale che egli,
androide del neoliberismo, aveva incastrato dietro l'orecchio.
Diceva: “Mi consenta di suggerirle l'uso della carta!”
Io cercavo di sfuggirgli, ma non c'era niente da fare, era ovunque.
L'unico modo di evitarlo, era uscire dall'enorme, labirintico
ipermercato. Non ricordo molti altri particolari, tranne questa
lunga lotta col petulante dal sorriso ipocrita, e il finale gustoso
in cui io tentavo di strozzarlo, e quasi ci riuscivo. Dico quasi,
perchè in quel momento mi svegliai: essendo io una persona
perbene, il mio inconscio si rifiuta di ammazzare chicchessia,
e non me lo permette, neanche in sogno. Comunque, già solo
la sensazione di averlo strangolato un pochino, contribuiva a
iniziare al meglio la giornata.
Era sabato, era estate, stavo per andare in ferie: era un bel
momento. Giunto da poco agli anni della maturità non solo
intellettuale, ma anche emotiva e pratica, notavo che il cosmo
e gli dei mi assecondavano sereni, portandomi fortuna: avevo
un lavoro, ero in salute, ero felicemente fidanzato e, dulcis
in fundo, progettavo di iniziare la mia vita indipendente: in
autunno, sarei andato a vivere da solo. Se poi a tutto questo
aggiungete che stavo per partire per la Grecia in compagnia dei
miei amici, potrete concludere, con una punta di insofferenza
nei miei confronti, che stavo un pascià. Ma vi assicuro
che quella libertà, quel momento di effimera spensieratezza,
era frutto del sudore, di anni di studio e lavoro, e dunque decisamente
meritato.
Ma bando alle ciance, e passiamo alle circostanze che quel giorno
agirono, inizialmente a incrinare e poi a distruggere, il nirvana
in cui mi beavo. Furono tre gli accadimenti che m'infastidirono
al punto da farmi sprofondare nella depressione nera, dalla quale
mi ripresi solo salpando per le Cicladi circa due settimane dopo.
Per tutto quel tempo vissi completamente disilluso da ogni aspettativa,
astioso nei confronti di una società barbara e ingiusta,
avida come una comitiva di usurai ad un'inquietante convention.
Mentre
gustavo, ancora in pace col creato, i miei muesli vitaminizzati,
suonò il citofono. Ingenuamente pensai che mi chiamassero
per notificarmi la vincita del Nobel per la letteratura. Invece
no, era il postino, che con voce gracchiante e quasi afona
mi intimò - primo atto violento subito nella giornata
- di scendere per “firmare”. Vagamente risentito,
sbattei con forza il citofono e m'infilai ciabatte e maglietta,
interrompendo la goduria dell'abbuffata di cereali, che di
certo si sarebbero trasformai in quei pochi minuti d'assenza
in una pappa triste e poco appetitosa. Scesi di corsa le due
rampe di scale che mi separavano dall'inopportuno impiegato
statale, il quale mi apparì più vecchio e fastidioso
di come lo avevo immediatamente immaginato. Egli, quasi ce
l'avesse con me, esclamò nervosamente: “raccomandate”.
Quella “e” finale
faceva presagire nulla di buono. E infatti, erano tre multe.
L'anziano messaggero, senza pietà e senza concedermi
un minimo di supporto psicologico nel difficile momento che
stavo vivendo, mi consegnò la penna, ottenne le sue
belle firmette e bofonchiando un arrivederci se ne andò pingue
e privo del benchè minimo stile. Quell'uomo, pensai,
attira e porta sfiga.
Non
capivo perchè lo Stato si riservasse la perversa facoltà di
dispiacere il contribuente con ben tre multe all'unisono. Non
capivo, inoltre, dove avessi messo le chiavi di casa: mi frugai
nell'unica tasca dei pantaloncini, e non c'erano. Riflettei
sul da farsi: mi trovavo senza soldi, senza casa, e con tre
multe in mano. Non mi sovvenne alcuna soluzione, così citofonai
all'unico vicino col quale intrattenevo un rapporto decentemente
umano per chiedergli ospitalità, in attesa che mia madre
rincasasse per donarmi di nuovo un tetto sopra la testa. Ma
il vicino era evidentemente fuggito per altri lidi, totalmente
ignaro dell'esistenza di colazioni da buttare e multe da pagare.
Credetti di trovar conforto effettuando un'inutile passeggiata
nel mio stupido quartiere, ma mi sentii un disadattato e dopo
un giro d'isolato desistetti. Tornai al portone del mio palazzo,
e mi sdraiai sulle scale come un barbone, meditando l'omicidio
in massa degli ausiliari del traffico - i quali, vigliaccamente,
tendono a mimetizzarsi nei luoghi più impensati dell'urbe
pur di far pagare il povero cittadino. Si vocifera, in ambienti
pesantemente vessati dalle contravvenzioni, che questi krumiri
dell'ammenda guadagnino una certa percentuale per ogni ferita
inferta al prossimo. Un po' come il becchino che fiorisce sul
perire altrui, questi aguzzini fanno soldi a palate con sadica
e cieca ritualità.
Mia
madre arrivò circa due ore dopo, quando il mio corpo
si era ormai ambientato alla durezza dei poco ergonomici scalini
di marmo. Trasalendo come avesse visto un fantasma, del tutto
ignara dei miei crucci e delle mie peripezie, disse vagamente
ironica:
“
Sei rimasto fuori casa? Beh, ti sta bene, io ti avevo avvertito,
sei troppo sbadato!”
Rimasto senza parole per la sua evidente mancanza di sensibilità,
mi alzai, ma mi ci vollero cinque sei secondi a trovare un equilibrio
stentoreo sulle gambe ormai prive di vita. Poi le dissi:
“
Mi sono arrivate tre multe. Questi cazzo di ausiliari del traffico,
dovrebbero ammazzarli tutti!”
“
Ancora multe?” disse sbigottita, affondando il coltello
nella piaga. “Lo Stato ci finanzia intere opere pubbliche,
con le contravvenzioni che paghi tu!”
“
...e poi sono due ore che ti aspetto. Ma non dovevi andare solo
dal parrucchiere?”
Lei fece un gesto di sufficienza con la mano, a significare: “mi
sono intrattenuta a conversare con amiche.” Mia madre era
capace di passare giornate intere a conversare con quelle dementi.
Da quel momento, e per i dieci minuti successivi, mi chiusi in
un mutismo ermetico, poi misi in atto la tattica del pensiero
terzomondista, che è cioè quel meccanismo di difesa
che l'occidentale usa quando si sente male in questo mondo: pensando
alle disgrazie degli afgani, dei kurdi e di quasi tutti gli africani,
quasi non ci si sente in diritto di prendersela per facezie.
Così facendo, ridimensionai le mie disgrazie, per così dire “razionalizzai”,
e dopo un po' il malumore quasi passò. Sentivo ancora
una punta di nervoso, ma era una percezione vaga, ci si poteva
passar sopra. Fu così che m'infilai nella doccia, stoico
mi feci anche uno shampo, e profumato come una battona m'imbellettai
per sentirmi al massimo delle forze.
Mia madre, prima che uscissi, mi chiese comprensiva:
“
Passato il rodimento?”
“
Sarà la dodicesima multa che prendo quest'anno...”
“
Sei troppo sbadato”.
Non aveva tutti i torti, devo ammetterlo. La sbadataggine era
una delle mie caratteristiche fondamentali, assieme alla vanità e
alla generosità, alla tendenza al vittimismo e alla forza
di volontà. Questi lati del mio carattere, uniti inscindibilmente
nella mia persona, facevano di me un essere umano unico (come
tutti, del resto); gli altri si aspettavano da me un certo comportamento,
e io, senza fatica, e nel bene o nel male, giocavo la mia parte.
E' questo forse il problema dell'età adulta: nel bisogno
di impersonare un ruolo, tendiamo ad escludere tutti gli altri
possibili “se” che non abbiamo voluto o potuto sviluppare.
Il bambino è così elastico, e da così pochi
giudizi, proprio perchè ancora nessuno gli chiede di essere
precisamente un certo tipo di persona, e si può permettere
di giocare, di cambiare, di non prendersi responsabilità.
In ogni caso, fui precisamente io, coi miei dubbi e le mie incertezze,
ad uscire per andare in banca. Dovevo fare un versamento, e controllare
lo stato della mia pecunia in vista delle vacanze estive.
Entrai
nell’edificio, e uno tsunami di aria condizionata m’investì facendo
abbassare la mia temperatura corporea di qualche decina di
gradi. Mi guardai intorno, e osservai i cinque sei clienti
che, in disciplinata attesa, si erano premuniti di sciarpe
e colbacchi ad evitare una polmonite fulminante. Unico avventore
in maglietta, mi misi comunque in fila, giusto dappresso a
una signora con pelliccia di visone e cappellino da neve completo
di paraorecchi. Nell’attesa, tentavo di scaldarmi mani
e piedi effettuando una sorta di ginnastica impercettibile
e inventata al momento, che consisteva nel muovere aritmicamente
gli arti periferici, poco irrorati da una circolazione cardiaca
resa difficoltosa dalla temperatura polare. E poi arrivò il
mio turno. Intirizzito, il volto ormai livido, consegnai la
metà del mio stipendio al lentissimo e quasi subnormale
cassiere, al quale chiesi di effettuare il versamento e di
farmi anche un saldo.
Dirò solo che mio cugino, spendaccione figlio di papà che
conduce una vita sregolata e all’insegna del divertimento,
mi disse in seguito: “io, quando vado a guardà quanto
c’ho in banca, me pia sempre ‘n colpo. Perché nun
me ricordo mai che me so comprato ‘na cosa, o che ero ‘mbriaco
o m’ero fatto na canna e nun ce so stato attento. A fine
mese va a finì che sto sempre impicciato coi sordi!”
Tale comprensione da parte del facoltoso parente non mi fece
sentire meglio: dal conto in banca mancavano un sacco di soldi,
duramente messi da parte nei mesi precedenti. Non mi spiegavo
come potesse essere, ma così era: evidentemente, non mi
ero regolato con le spese.
Uscii dalla banca decisamente nero, tanto che neanche feci caso
all’impatto con la temperatura equatoriale di luglio inoltrato.
Il mondo mi appariva una menzognera costruzione di cartapesta,
un baraccone costruito sul nulla, nel quale le ingiustizie si
distribuivano random senza preavviso e senza ragione. Quel giorno
decisi tra l'altro che non avrei più usato il bancomat,
pezzo di plastica foriero di sviste contabili e, senza dubbio,
di disastri nell'economia delle famiglie. Tornando a casa, mentre
sentivo i muscoli cervicali che iniziavano a duolermi a causa
della tensione ormai accumulatasi, mi lanciai tra me e me in
una impietosa e un po' delirante requisitoria anticapitalista,
grazie alla quale giunsi alla brillante conclusione che l'anoressia è generata
non solo da disturbi nervosi, ma dal miraggio e oblio narcisista
che ci viene propinato con la pubblicità, con i film,
con la televisione, con i miti dell'occidente postfordista. In
quel momento avrei messo una bomba, mi sarei iscritto ai terroristi,
avrei fatto la rivoluzione, rubato soldi ai ricchi, distribuito
il grano ai poveri, tolto la tassa sul pane, preso la bastiglia,
fondato una comune socialista, rilanciato il concetto di kibbutz.
I miei neuroni impazziti bramavano vendetta, ma essendo l'oggetto
del mio odio intangibile e intoccabile (la società), le
mie pulsioni erano tragicamente destinate a rimanere tali, a
essere dunque represse.
Tornai a casa mortificato, mi buttai sul letto, tentai di addormentarmi.
Lo
shopping è uno sporco godimento, su questo non vorrei
si sindacasse. Io, del tutto conscio dello scialo e dell'opulenza
in cui i miei coetanei si sciaquettavano, avevo preso coerentemente
le distanze dalla società dei consumi. Come ho avuto
modo di far presagire al lettore, il temperamento combattivo
di cui ero dotato mi permetteva con una certa soddisfazione
di condurre uno stile di vita quasi ascetico. In altre parole,
negli ultimi tempi ero diventato un po' taccagno. Parsimoniavo
sulle mie risorse perchè tutto sommato erano i primi
tempi che mi sudavo il denaro, e il giovane lettore comprenderà questo
arguto concetto solo quando si troverà a pagarsi da
solo l'affitto di casa.
Detto questo, vi comunico che in quella giornata devastante crollò ogni
mia certezza sul genere di rapporto che intrattenevo coi soldi.
Accadde che mi svegliai con un gran senso di malessere, un rancoroso
senso di rivalsa, evidente bisogno di compensare le frustrazioni
della mattina. Spinto da un impulso sadomasochista, decisi invasato
di darmi allo shopping selvaggio.
Così andai al più vicino ipermercato e comprai:
tre paia di pantaloni, dodici magliette, un set di palle da tennis
(non gioco a tennis), una rete da pallavolo, una tenda da sei
posti con doppia zip antisequestro, tre videocassette con i goal
più belli del campionato, uno zaino da campeggio, un sacco
a pelo militare e un paio di scarpe da ginnastica costosissime,
oltre a un'amaca senza pretese e a un coltellino svizzero multiuso.
Mentre riempivo il carrello, una parte di me godeva come un riccio,
e l'altra soffriva: una scissione mentale preoccupante, forse
avvisaglia di una pericolosa nevrosi. Giravo per gli scaffali
soddisfatto e inquieto, eccitato come un bambino, ma in fondo
triste.
Tornando a casa, mi veniva in mente solo una cosa: il nano malefico
che mi era apparso in sogno, il quale era riuscito nel suo intento
di farmi omologare alla massa, di farmi cadere nel suo tranello
così piacevole. Scesi dalla macchina carico di buste e
bustine, salii a fatica le scale e approdato in soggiorno mi
guardai allo specchio, e vidi un giovane uomo provato. Poi frugai
tra i pacchi, contrassegnati ognuno dall'indelebile etichetta
del supermercato nel quale mi ero servito, e scovai i tre involucri
delle palle da tennis. Le scagliai con forza una ad una contro
il televisore, al quale davo la colpa di avermi ammaliato sin
da piccolo con queste stronzate.
Marco
Di Porto, 24
anni, è pubblicista da 3 e si sta laureando al DAMS
di Roma con una tesi su "Internet e movimento no-global".
E' autore di due cortometraggi, presentati al festival Arcipelago
di Roma nel 2000 e nel 2001.
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