IL
BELL’ANTONIO
( – brano
del romanzo – )
Vitaliano
Brancati
Dei
siciliani scapoli che si stabilirono a Roma intorno al 1930,
otto per lo meno, se la memoria non m’inganna, affittarono
ciascuno una casa ammobiliata, in quartieri poco rumorosi e frequentati,
e quasi tutti andarono a finire presso insigni monumenti, dei
quali però non seppero mai la storia né osservarono
la bellezza, e talvolta addirittura non li videro. Che cosa non
saltò il loro occhio ansioso di scorgere la donna desiderata
in mezzo alla folla che scendeva dal tram? Cupole, portali, fontane...
opere che, prima di essere attuate e compiute, tennero aggrottate
per anni la fronte di Michelangelo o del Borromini, non riuscirono
a farsi minimamente notare dall’occhio mobile e nero dell’ospite
meridionale! Antiche campane, dalla voce grave e delicata, che
si erano meritate i versi di Shelley e di Goethe, si guadagnarono
un “Chi camurria, ‘sta campana! Che seccatura, questa
campana!” per aver fatto tremare all’alba, coi loro
rintocchi, la parete su cui il giovanotto poggiava la fronte
da poco addormentata e ancora rosseggiante del disegno di una
bocca.
Per il rispetto che il mio mestiere di cronista deve alla verità,
dirò che questi scapoli siciliani erano piuttosto brutti,
fuorché uno, Antonio Magnano, che era bellissimo. Con
questo non voglio però affermare che i brutti riuscissero
sgraditi alle donne: al contrario molti di essi, nonostante la
bassa statura, e i nasi ebraici, e l’unghia del mignolo
lasciata crescere per pulire l’interno dell’orecchio,
parevano legati da una grave complicità a tutto il genere
femminile, si sarebbe detto che fra loro e qualunque donna ci
fosse una cattiva azione compiuta insieme chissà dove
e quando: non v’era sconosciuta che, al primo vederli,
non sembrasse riconoscerli impallidendo e rivelarsi subito legata
a loro da vecchi e inconfessabili trascorsi. Per questo, i loro
successi avevano sempre un’aria esosa di ricatto, sebbene,
posso giurarlo, questi uomini di venticinque e trent’anni
fossero di una cortesia e una tenerezza senza pari nei riguardi
dell’altro sesso. Ma sulla terra piena di misteri, il vivente
più misterioso è forse l’uomo brutto.
Di ben altra qualità erano invece i “successi” di
Antonio Magnano. Nel 1932, egli aveva ventisei anni, e le sue
fotografie, esposte in piazza di Spagna, arrestavano persino
la signora di mezza età, carica di pacchetti e traente,
con la stessa mano che l’aveva picchiato, un marmocchio
tutto in lacrime. Un’istantanea dolcezza si partiva dal
suo volto olivastro, affumicato potentemente dalla barba, ma
delicatissimo e quasi unto di lacrime al di sotto degli occhi,
nel primo contorno delle guance su cui le lunghe ciglia trattenevano
a volte la loro ombra. La donna più inquieta e isterica
accanto a lui taciturno, veniva presa da quello sbadiglio che
scarica i nervi e spinge ad alzarsi dalla sedia per sdraiarsi
sul letto. Un osservatore superficiale e invidioso avrebbe potuto
consolare se stesso dicendo che le donne si annoiavano stando
insieme ad Antonio. Quale inganno grossolano! Le donne si sentivano
dominate e, insieme, a loro agio completo e perfetto: accanto
a lui, bruciavano dolcissimamente, e soffrivano, e impazzivano
con una soavità sì profonda da far pensare che
una grave anomalia si fosse impadronita di esse confondendo il
piacere e il dolore in quella totale mancanza di discernimento,
che è il solo stato in cui una persona osa dire a voce
alta: io mi sento felice!
(Tratto dal romanzo
Il bell’Antonio, casa editrice Bompiani, Milano, 1997)
Vitaliano
Brancati
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