RICORDO
Marcel
Proust
Trascorsi
lo scorso anno qualche tempo al Grand Hôtel di T., situato
all’estremità della spiaggia, di fronte al mare.
L’insipida esalazione delle cucine e delle acque salmastre,
la lussuosa banalità delle tappezzerie che variava solamente
la grigiastra nudità dei muri e che completava questo
scenario da esilio avevano inclinato la mia anima
a una depressione quasi morbosa, quando, un giorno di gran
vento che minacciava
di diventare tempesta, attraversando un corridoio per tornare
alla mia camera, un profumo delizioso e raro mi fece arrestare
di colpo. Mi era impossibile analizzarlo, ma era così completamente
e riccamente floreale, che dei campi interi, dei campi fiorentini,
supposi, dovevano esser stati denudati per comporne solo qualche
goccia. La voluttà era tale per me che restai un lunghissimo
spazio di tempo senza muovermi; per una porta appena discosta,
e che sola avrebbe potuto offrire il passaggio a quel profumo,
scoprii una camera la quale, per quel poco che si poteva percepirne,
dava l’impressione della più squisita personalità.
Anche all’interno dell’ambiente di questo stucchevole
hotel un ospite aveva potuto santificare una così pura
cappella, raffinare un così meraviglioso boudoir,
isolare una torre d’avorio e di profumi. Un rumore di
passi, invisibili dal corridoio, e d’altra parte un rispetto
quasi religioso mi impedivano di aprire maggiormente la porta.
All’improvviso il vento furioso dal fuori aprì una
finestra mal chiusa del corridoio e un refolo d’aria
salata entrò a larghe e rapide ondate, diluendo senza
sommergerlo il concentrato profumo floreale. Mai più dimenticherò quella
fine persistenza dell’odore primitivo mentre donava la
sua tonalità all’aroma di questo vasto vento.
La corrente d’aria aveva chiuso la porta e io scesi di
sotto. Ma per un caso che mi contrariò al massimo, quando
mi informai dal direttore dell’hotel sugli occupanti
del 47 (poiché queste creature d’elezione avevano
un numero come gli altri), non mi si seppero dare che dei nomi
che evidentemente erano degli pseudonimi. Ascoltai solo una
volta una voce di uomo grave e vibrante, solenne e dolce, chiamare
Violet (violetta) e una voce di donna dalla grazia sovrannaturale
rispondere: “Clarence”. – Malgrado questi
due nomi inglesi, sembrava che, a detta dei domestici dell’hotel,
parlassero abitualmente francese – e senza accento straniero.
Pranzavano in una stanza particolare, di una distinzione così unica
che rimane per me una delle più alte rivelazioni della
bellezza, una donna alta, il viso voltato, la corporatura inafferrabile
in un lungo mantello di lana bruna e rosa. Qualche giorno dopo,
salendo per una scala abbastanza lontana dal corridoio misterioso,
sentii un debole odore delizioso, certamente lo stesso della
prima volta. Mi diressi verso il corridoio e arrivato quasi
in faccia alla camera fui stordito dalla violenza dei profumi
che tuonavano come organi con un sensibile accrescimento d’intensità di
minuto in minuto. La camera senza mobili appariva come sventrata
dalla grande porta aperta. Una ventina di piccole fiale incrinate
giacevano a terra e delle macchie umide sporcavano il parquet. “Sono
partiti stamani, mi disse il domestico che asciugava per terra,
e affinché nessuno possa servirsi dei loro profumi,
dato che non potevano rimetterli nei loro bauli a causa delle
cose che avevano acquistato qui con cui li avevano riempiti,
hanno rotto i flaconi. Questa è pulizia!” Mi precipitai
su un flacone che conservava qualche ultima goccia. All’insaputa
dei misteriosi viaggiatori esse profumano ancora la mia camera.
Nella mia banale vita fu un giorno esaltato da profumi esalati
da un mondo fino ad allora così scialbo. Erano i perturbanti
annunciatori dell’amore. Nel frattempo era sopravvenuto
lui stesso, con le sue rose e i suoi flauti, e scolpiva, tappezzava,
rinchiudeva, profumava tutto attorno a lui. Ai più vasti
soffi del pensiero stesso, ad essi si è mescolato, ed
essi lo hanno infinitizzato senza affievolirlo. Ma di lui stesso
cosa ho saputo? in niente ho illuminato il suo mistero, e di
lui non ho conosciuto nient’altro che la fragranza della
sua tristezza e l’odore dei suoi profumi. Poi se ne andò e
i profumi, dai flaconi spezzati, esalarono allora con un’intensità più pura.
Una goccia affievolita impregna ancora la mia vita.
(Tratto da Sonnolenza e altre prose, Edizioni Via del Vento,
Pistoia, 2002, cura di Susanna Mati)
Marcel
Proust
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