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Scrittori e Scrittrici Migranti
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2° giorno - Martedì 11 luglio ore 15,30 Sala Maria Luisa

 

Julio Monteiro Martins:
Benvenuti al terzo incontro di questo nostro seminario. Sono molto felice di avere qua con noi la professoressa Laura Barile e il poeta Gregorio Carbonero.
Io e la professoressa Barile ci siamo conosciuti a Siena durante un incontro organizzato da lei con il professore Antonio Prete nel Febbraio scorso ed è stato straordinario, un incontro organizzato in maniera esemplare, con una presenza di pubblico eccezionale, e lei ha presentato gli autori invitati manifestando una grande conoscenza delle opere di questi autori, che sono tutt'ora poco conosciuti, e questo mi ha colpito molto. Per me è un grande onore averla qui con noi e conoscere le sue riflessioni su questo momento della letteratura della migrazione in Italia e sono sicuro che saranno riflessioni che apriranno le nostre menti e chiariranno la nostra visione su questo fenomeno in cui siamo immersi in questo momento della nostra vita. Passo quindi la parola alla professoressa Barile.

Laura Barile:
Sono io che ti ringrazio per queste splendide parole ed è vero che quell'incontro di dieci scrittori che scrivono in Italiano ma sono di lingua madre straniera è stato uno dei più seguiti ed affollati quest'anno all'università di Siena.
Io pensavo di fare un discorso molto familiare, diciamo così, anche perché ho letto vari autori ma sto ancora cercando di farmi un'idea e partirei dallo stato delle cose.
Darei l'attenzione all'inizio soprattutto al punto di vista degli editori, quel tramite necessario tra la scrittura e la pubblicazione. All'inizio degli anni '80/'90 si era arrivati a due o tre iniziative molto volenterose. Armando Gnisci a Roma ha creato una banca dati che poi però si è un po' arenata. Viceversa qui a Lucca c'è "Sagarana" che è sia rivista online che scuola di scrittura e dobbiamo anche a Julio Monteiro Martins se questi testi sono entrati a far parte della conoscenza degli italiani. Mi è piaciuto quello che è stato detto ieri, cioè quel senso di appartenenza anche se c'è un certo rischio di ghettizzazione, non vorrei riprendere questo discorso infinito che oscilla molto, tuttavia fare gruppo e essere insieme è una cosa che tutto sommato serve, psicologicamente e anche dal punto di vista concreto per farsi conoscere e altrettanto significativa anche la rivista "El Ghibli online", che voi tutti conoscete, ma per fare un po' il punto della situazione, Gabriella Ghermandi aveva fatto una intervista su che cosa significa per un autore straniero usare la lingua italiana e scegliere di usarla perché non è la lingua della colonizzazione, c'è una scelta necessaria per avere un contatto col mondo in cui vivono ma comunque è una scelta e a differenza della Francofonia qui non c'è di mezzo la colonia tranne che nei casi di Etiopia ed Eritrea che però è stata una colonizzazione di pochi anni che non ha inciso molto.
Questa letteratura però in Europa è la più significativa, si pensi ai Turchi di Berlino oppure come dicevo ieri alla scrittrice algerina Assia Djebar, accademica di Francia, il che significa che i Francesi si sono aperti tantissimo.
L'Europa questa cosa l' ha capita e come diceva Gabriella Ghermandi, noi rinfreschiamo un Italiano che comincia ad essere ripetitivo a formule ed inizia a prendere prestiti da modi di dire americani e dunque usa una specie di Inglese basico ed invece questo inserimento di una sintassi ed una identità linguistica "altra" rispetto all'uso dell'Italiano, uso minore come ha scritto Deleuze, grande filosofo francese che su questo ha scritto delle cose interessantissime parlando di Kafka che parlava non tanto del problema di una letteratura minore rispetto ad una letteratura maggiore (che già è tutto da vedere) ma parlava della scelta del Tedesco e la scelta di un uso minore di una lingua maggiore. Ecco io credo che sia questo il punto su cui bisognerebbe studiare meglio il discorso che ci può interessare veramente, è l'uso della lingua che fa una minoranza nel senso numerico di abitanti di una nazione che parla Italiano.
Come diceva ieri Kossi Komla-Ebri quando parlava del suo già edito "Imbarazzismi", coniando una nuova parola, imbarazzi e razzismi, e naturalmente l'ironia aiuta molto, un modo per parlarne con più leggerezza e non essere intimiditi di fronte all'Italiano, per esempio Italo Svevo è intimidito nei confronti dell'Italiano, lui che per altro aveva studiato in una scuola ebraica da bambino e in una scuola tedesca da adolescente ed aveva conosciuto Shakespeare in tedesco ma parlava Triestino come si usava fino ai primi del secolo scorso era intimidito e dunque temeva che lo rimproverassero sulla purezza, in tutti i campi, e dunque l'uso di Svevo non è un uso minore.
Negli ultimi due anni c'è stata un'apertura che rasenta quasi la moda, che è un altro rischio, l'esotismo, cioè che allora noi tutti vogliamo scrittori stranieri che scrivono in lingua italiana.
C'è uno Yacht che si chiama "Zingara" che da Luglio a Novembre di questo anno passa da tutte le coste dei migranti, quindi parte da Lampedusa e fa tutto il giro. Quindi in questo momento non si parla d'altro, a tutti i livelli questo è il tema numero uno, e anche sulla Rai ci sono sempre più speciali su questo tema che è sempre più un problema sociale evidente.
Il premio Berto lo ha vinto un giovane scrittore iraniano e il premio Viareggio è stato vinto da Ornella Vorpsi, albanese, dunque cominciamo a parlare di libri editi anche da Einaudi, che fino al primo decennio potevamo comprare solo al di fuori delle librerie dove c'è sempre qualche senegalese a venderli ed io, che una volta ho presentato un libro di questi, dissi "entra dentro e presenta uno dei vostri libri" lui rispose "non posso perché mi cacciano a pedate" e quindi c'è questo paradosso che accadeva fino a tre anni fa.
Ora un altro editore "Baldini e Castoldi" ha ripubblicato Pap Khouma "Io venditore di elefanti" scritto a quattro mani nei primi anni 90 ed ora è pubblicato insieme ad un altro libro quindi dal sommerso c'è una sorta di emersione.
Un altro premio è stato dato recentemente ad Adrian Grima, poeta maltese bilingue. Questo tema del bilinguismo, come nelle poesie di Gëzim Hajdarï che hanno il testo a fronte ma sono tutti e due testi, sia quello italiano sia quello albanese, suoi.
Qui si apre un grande problema che è: Qual è la lingua madre?
La lingua che parla la madre al bambino, ma molto spesso i genitori parlano due lingue diverse o addirittura sono immersi in una terza lingua quindi qual è la lingua madre?
E lo stesso vale per il bilinguismo, esiste una lingua materna o sono davvero bilingue? E poi come si fa a tradursi? Come mi diceva Julio a pranzo "Io non posso tradurmi", ma io allora citavo traduzioni e rifacimenti di Joyce del "Finnengans wake" intraducibile nella maniera più assoluta ma lui l' ha riscritta, come Nabokov che ha tradotto il suo Russo in Inglese creando una serie di pasticci inverosimili quindi, chi può tradurre se stesso e qual è l'anima linguistica?
Non è una cosa nuova quindi esiste una tradizione di uno scrittore che scrive in un'altra lingua.
In questo senso per noi come strumento di tipo letterario per capire il rinfrescamento come direbbe Ezra Pound, rinfrescare la lingua immettendo una quantità di altre lingue anche non conosciute. Il discorso è altamente interessante.
Un altro fenomeno di bilinguismo è quello di Amara Lakhous che ha pubblicato questo Scontro di civiltà in un ascensore di Piazza Vittorio a Roma e l' ha scritto in Arabo e l' ha tradotto in Italiano e che comunque è stato recensito sul Sole 24ore della settimana scorsa.
A questo punto dobbiamo dire qualcosa riguardo a questo fenomeno, l'esilio come dice Brodsky è la condizione ideale per l'ascolto e la scrittura della lingua. Brodsky ha scritto delle cose meravigliose sull'esilio e la condizione dell'esilio è proprio il recupero della propria lingua che si trova in una situazione di straniamento, quello che Victor Sklovskij chiamava lo "straniere" cioè il fatto che per rendere viva una cosa che ormai è nota bisogna spiazzarsi. Allora lo spiazzamento è un fenomeno che per l'artista è necessario. Tutta l'arte del 20° secolo è la ripresa di questo fenomeno dello straniamento. Questo tema della pluralità delle lingue nello straniero come avviene? Avviene come un intreccio, la contaminazione, il meticciato e questi sono i fenomeni che ravvivano la lingua e dunque tutti questi sono fenomeni che danno ricchezza. Prima si temeva, soprattutto nel fascismo e nel nazismo, questa contaminazione anche come malattia invece oggi si desidera la contaminazione linguistica, l'ibridazione.
Questa ricchezza consiste proprio nella pluralità cioè nel fatto che in una persona ne esistono una o due perché se uno parla bene due lingue, parla in maniera diversa.
C'è una bella frase di Amin Maalouf scrittore egiziano che dice una cosa molto bella "l'identità è un fatto intimo e plurale", mi piace perché ricorda tanti modi di definire l'ebraitudine da parte di Natalia Ginzburg o Vladimir Jankelevitch cioè cos'è un ebreo francese, non è né un ebreo e basta, né un francese è un ebreo-francese, quindi diciamo che Julio è lo scrittore italiano del Brasile, cioè non scrive in Italiano e basta, cioè un di più, e lo spazio intimo lo trovo molto importante, appartenenza alla pluralità e all'intimità e tutto questo ci da una dimensione di estraniamento rispetto alla realtà che permette allo scrittore di dare qualcosa di più, di diverso.
Il pericolo è quello dell'assimilazione e quindi non riuscire più a decentrare lo sguardo e questo vale anche per la musica, perché la musica è sempre in avanti rispetto alla letteratura e certe pubblicazioni musicali ne sanno molto di più.
La musica sta già facendo questo lavoro di ibridazione con grandissimi risultati.
Il discorso che viene fatto dagli studiosi di musica è ripreso sempre dal filosofo Deleuze, scusate se vado un po' sul difficile ma credo che siano temi che richiedono quella che è la deterritolizzazione, cioè da un territorio che può essere quello del Brasile una certa musica si deterritorializza ed arriva a Parigi, come ieri avevo accennato il fenomeno del Tango che arriva a Parigi e la classe intellettuale o la classe dei musicisti se ne appropria trasformandolo in qualcosa che lusinga ognuno di noi e ci trasforma un po' ma che poi si riterritorializza, tornando in patria.

Julio Monteiro Martins:
Come la fusione degli anni '50 del Jazz con la Samba che creò la Bossanova.

Laura Barile:
Ecco, appunto già dagli anni '50! La musica è in avanti!
Nella musica tutto questo passa più liscio perché non ci sono i confini nazionali che corrispondono alle lingue. La musica parla un linguaggio universale.
Vi ho messo lì tanti temi che non ho sviluppato per farvi capire quante cose, quanti temi potrebbero essere sviluppati.
Tornando in Argentina, riguardo al Tango, vorrei leggervi una pagina di Miguel Angel Garcia, scrittore argentino che usa molto il computer per fare letteratura virtuale e creazioni strampalate ma ha scritto anche un libro di racconti che è uscito ora e questo racconto si chiama "Maestro di Tango":

[Miguel Angel Garcia, Il maestro di tango, Eks&tra editore 2006, p.8]

"Sì, sono ebreo come dite voi italiani: a me 'ebreo' dà l'idea di qualcosa di religioso, di talmudico; io mi considero judìo (sarebbe giudeo), che è una appartenenza culturale, e non necessariamente religiosa. Anzi. 'rusito', piccolo russo, come mi dicevano da piccolo
alla scuola, perché i miei sono di origine tedesca, ma in Argentina la maggioranza dei giudei aveva il passaporto russo, perché erano polacchi, ucraini o moldavi, e allora esisteva ancora l'impero. (...)."

Perché non Italia ma in Argentina o in Brasile dove sono arrivati, per esempio, dal Veneto ed esiste una lingua che è una specie di Veneto-Portoghese che sono i Veneti che sono arrivati in Brasile.

Julio Monteiro Martins:
C'è, per esempio, una comunità che parla un dialetto veneto già scomparso in Italia da più di un secolo, quindi i linguisti italiani vanno in Brasile per recuperare questo dialetto antico.

Laura Barile:
Esatto, il dialetto veneto antico lo troviamo in Brasile così come lo Spagnolo antico lo troviamo in Latino parlato dagli ebrei dipartiti nell'area mediterranea del '500 perché ancora ci sono restrizioni cinquecentesche e quindi tutto questo arricchisce.
Tornando alla lettura.

"(…) Mi hanno detto che anche in Italia i giudei si chiamavano giudei. Poi è venuto
il fascismo, con la sua paranoia razziale, e 'giudeo' è diventata una parolaccia, così che 'ebreo' è emersa dal polveroso scaffale degli arcaismi per tornare attuale. Solo che le parole non si cambiano impunemente, portano con sé ombre di contenuto che ne cambiano il senso.
(...) Sono le parole che mi hanno portato al tango. Il tango parlava come me, in quella lingua argentina infarcita dal lunfardo della strada e dalle parole di mille lingue e dialetti del mondo.
Non immagini neanche quanto ci si può sentire sollevato, quanto può allegrie il cuore ascoltare una storia nella propria lingua, questo perché a scuola ci obbligavano a leggere testi in un presunto Casigliano colto (…)"
Allora i bambini argentini imparano lo Spagnolo a scuola così come Svevo imparava l'Italiano a scuola, anche se lui in una scuola italiana non c'è mai andato, però diciamo che nella sua epoca succedeva questo. E Svevo diceva che piacere finalmente sentire il Triestino e parlare il Triestino, e quando Carla l'amante tira fuori la canzonetta in Triestino viene fuori la dolcezza di questa ragazza, la voce che ritorna nell'aria della naturalezza.

"(…) a scuola ci obbligavano a leggere testi in un presunto Casigliano colto pieno di parolone spagnole di significato enigmatico e di suono allegro.
L'Argentina è forse l'unico paese che vive la propria lingua nazionale come se fosse un dialetto, vergognandosi. Tranne che nel tango, dove esibisce impudicamente il proprio dire."

Questo è il fenomeno di esotismo di ritorno.
Invece ora farei un'ultima citazione da una lettera inedita di Beckett uscita poche settimane sul Sole 24ore della domenica in cui Beckett dice una cosa riguardo all'uso della lingua e credo che ci riguardi da vicino.
Con questa lettura io chiudo il mio discorso che poi, se volete, possiamo ampliare.
Dice Beckett:

"Speriamo che venga il tempo, e già è giunto, grazie al cielo, almeno in certi circoli, in cui il miglior uso della lingua sarà con la più alta bravura mal usarla…"

Un testo tra gli ultimi di Beckett degli anni '80 direi mai più, mal visto, mal detto cioè dire male per riappropriarsi del senso delle cose è una cosa che diceva anche Georges Perec, grande scrittore francese morto negli anni '70, imparare a balbettare lui aveva scritto, testo formidabile molto umoristico. Ribalbettare i nomi delle cose. E Beckett diceva questo, speriamo che col tempo l'uso della lingua sarà con la più alta bravura mal usarla che è la posizione di chi si trova a scrivere in una lingua che non è la sua.

"…E poiché non si può eliminarla d'un tratto, bisogna almeno nulla trascurare che possa contribuire al suo discredito. Trapanare in essa un buco dopo l'altro, finché ciò che si rannicchia dietro - che sia qualcosa o nulla - cominci a trasudare, non posso rappresentarmi compito più alto per uno scrittore d'oggi."

[Lettera inedita a Axel Kaun di Samuel Beckett uscita nel Domenicale del "Sole 24ore" del 12 marzo 2006]


(Applausi)


Julio Monteiro Martins:
Io vorrei iniziare con un commento e una domanda alla professoressa.
Il commento parte da quella frase che lei ha citato "L'identità è una questione plurale e intima" che è vero, però la cosa straordinaria è che allo stesso tempo in cui questi fenomeni sono così intimi e personali non potrebbero accadere al di fuori di un periodo storico in cui i confini nazionali stanno crollando, in cui c'è questo fenomeno che alcuni chiamano globalizzazione altri mondializzazione, insomma è impossibile definire secondo me in quale punto finiscono la storia personale e esistenziale e in quale punto inizia un movimento storico e collettivo che trascende al loro desiderio personale, al loro percorso personale e forse non è nemmeno importante definire questo confine perché forse è solo un grande sistema di eventi oggettivi e soggettivi che si mette in moto nella creazione di una letteratura. Era un'osservazione interessante perché proprio la bellezza di questo fenomeno è questa simbiosi tra motivazioni intime e processo storico.
La domanda che volevo fare invece è su un altro aspetto, cioè io a volte ho l'impressione, ascoltando certi teorici, non è il caso della professoressa Barile ma di altri che ho sentito negli ultimi tempi, una cosa che io considero pericolosa cioè una sorta di aspettativa forte di una trasgressione linguistica della lingua italiana a partire da questi scrittori come se fosse un obbligo per questi scrittori non di origine italiana reinventare la lingua italiana. Tra questi scrittori c'è una diversità enorme, e a qualcuno di loro piace questo lavoro sulla parola, sulla lingua, sui neologismi, ma ad altri, prendo anche il mio caso specifico, proprio oggi a pranzo parlando con Arnold de Vos dicevo che da quando ho cominciato a scrivere all'inizio degli anni '70 ho cercato, non so se ci sono sempre riuscito, di illuminare certi angoli bui dell'esistenza umana, della natura umana, della presenza dell'uomo che non sono mai stati presentati dalla letteratura, ed ho cercato di metterli in luce. Quando riesco, o credo, magari mi illudo, di essere riuscito, a trovare qualcosa che prima non era stato chiarito, io voglio trasmetterla! A me non interessa fare degli esperimenti a livello linguistico, invece nella mia opera in Italiano ho creato delle espressioni, delle parole, che non esistono, ma non perché appositamente ho fatto quella ricerca, ma perché a volte per poter esprimere un determinato concetto io ero costretto a creare qualcosa di nuovo, ma non era questa la mia priorità, l'intenzione era riuscire a comunicare una scoperta. Allora vorrei sentire da Laura Barile come lei vede questa aspettativa e come la percepisce nell'ambiente di chi studia questa letteratura.

Laura Barile:
Io sono assolutamente convinta che la scrittura fatta per sperimentare qualcosa e fatta così a freddo non funzioni e anzi in questa cosa che dicevamo della estraniazione è chiaro che l'Italia per noi è già più conosciuta che per te Julio, dunque certe cose del mondo che ci circonda tu le puoi vedere con una sfumatura troppo diversa e cogliere quel nuovo e che per dirlo sei stato costretto a creare qualcosa per dare questa sfumatura che forse era collettiva e non solo tua perché magari i brasiliani vedono questa cosa in maniera diversa da noi, ed allora per quelle sfumatura devi usare in modo diverso la lingua ma assolutamente prioritaria è la percezione e la necessità artistica di questo discorso e poi viene di conseguenza un uso tuo della lingua non necessariamente inventando neologismi.

Interviene dal pubblico Giovanna Zunica:
Su questo aspetto, a me interessa molto questa cosa, neanche a me interessa tanto quella forma di sperimentazione con cui si forma quella specie di fusione italo-brasiliana o italo-venezuelana e non credo sia la cosa più interessante e anche francamente, e questo può darsi sia un aspetto mio personale, non mi interessa neanche l'aspetto etnologico cioè come mi vede lo straniero, mi domando un'altra cosa, non credo siano state fatte ancora riflessioni su questo, come accade in tutte le lingue, e stiamo parlando di chi parla e scrive una lingua bene, è chiaro che chi usa bene una lingua la ricrea, la reinvesta, la rinnova come un autore francofono non francese scrive un Francese che nessun francese scriverebbe, ineccepibile ma pensato da una testa non francese allora quello che mi interesserebbe è uno scrittore italofono non italiano che apporto può dare alla lingua italiana? Quali elementi di rinnovamento proprio in quanto essere che pensa nella mia lingua (nel senso che sono italiana) perché vedo una potenzialità di innovazione, di estensione, di articolazione, di arricchimento enorme che però non mi pare sia stata ancora oggetto di riflessione, forse perché è un fenomeno relativamente nuovo.

Gregorio Carbonero:
Per quanto riguarda la domanda credo che la scrittura sia una ricostruzione dell'esperienza quindi per quanto la storia possa essere conosciuta, l'esperienza è sempre nuova e tanto più quella di un emigrante. L'esperienza è quella cosa miracolosa insostituibile, irripetibile della vita di un individuo quindi credo che questa possa essere la risposta alla domanda. Io mischio la mia esperienza da venezuelano con il ritrovarmi in Italia.

Julio Monteiro Martins:
C'è una persona che deve fare un intervento, chiedo di essere breve.

Interviene dal pubblico Aldo Ricci:
Io mi chiamo Aldo Ricci e sarò brevissimo.
Sono uno scrittore, fino ad un certo punto, perché non faccio sempre questo, ed ho portato alcune copie del mio libro "Il tonto" e mi fa molto piacere regalarlo a degli scrittori stranieri perché questo è un caso. Questo libro è stato appena rieditato con un altro titolo "Brasile d'inferno" ed è stato presentato all'ultimo salone di Torino e definito un libro maledetto che non è "Brasile d'inferno" ma è questo (Il tonto) perché è stato distribuito e poi attraverso un'operazione abbastanza complessa è stato tolto dal mercato. È stato quindi rieditato, un libro che inizia come romanzo ma che diventa un saggio quindi è molto interessante vedere i diversi linguaggi, compreso lo slang carioca perché è un libro ambientato dal Brasile in Italia, ma è stato rieditato solo il romanzo, tutti i nomi fittizi che sono pseudonimi nella prima parte nella seconda diventano nomi reali di persone che esitono in Italia e quindi potete capire perché questo libro è stato tolto dal mercato.
Vi lascio queste copie con un biglietto da visita per eventuali commenti. Grazie a tutti.


(Applausi)


Julio Monteiro Martins:
Ora vorrei passare la parola a Gregorio Carbonero però prima vorrei dire che Gregorio è un poeta di una grande sensibilità. Nato in Venezuela e vissuto là fino ai 35 anni, un po' come me che ho vissuto in Brasile fino a 40 anni, quindi diciamo la metà cronologica all'incirca della nostra vita nel paese di origine e la seconda metà nel paese di arrivo e lavora come musicista, suona l'oboe in un'orchestra di Cremona.
In questa antologia "Ai confini del verso" c'è una poesia di Carbonero che mi ha colpito moltissimo si chiama "Otto chili, otto" e parla di un cane magro che dopo aver mangiato troppa salsiccia trovata fuori casa non riesce a camminare perché la pancia si era gonfiata troppo, e la trascina movendosi male, e trovo che questa sia una sorte di antropomorfizzazione del cane, una metafora della condizione umana di una certa immersione nell'eccesso spinta dalle motivazioni contemporanee e la scomparsa della vittima consumista attraverso la punizione che questo consumo da. È una poesia scritta in maniera semplicissima, l'io poetico sembra un bambino che si importa di quel cane. Volevo raccontarvi questo per introdurvi Gregorio e per darvi un po' l'idea e il valore della sua produzione.
Passo la parola a Gregorio Carbonero.

Gregorio Carbonero:
Ringrazio Julio dell'invito e volevo ricordare qualcosa che lui diceva ieri parlando dell'antologia, diceva che era talmente fraterno il senso di appartenenza che trovava in questa antologia che sembrava che queste poesie le avesse scritte lui. A me sembra lo stesso, io ascoltando gli interventi di questi seminario e leggendo i seminari passati mi sembra di essere stato presente, veramente c'è un ambiente molto accogliente e se posso permettermi fraterno e vi ringrazio di questo.
Volevo anche prenderne atto e in un certo senso ringraziare le parole della professoressa Barile. Ho trovato moltissimo stimolo e positivismo ed è una cosa che dà molta speranza e incoraggiamento e veramente ringrazio la professoressa Barile.
Volevo dire alcune cose, magari leggo qualcosa che ho preparato in modo molto frammentario, farei leggere a mia moglie che è diventata la mia lettrice ufficiale, quindi ascolterei prima qualche poesia e poi parlerei ancora.
Volevo dire che io trovo che nella scrittura ci sia qualcosa di misterioso, sembra che quando ci si accinge a scrivere ci sia qualcosa di pericoloso, di definitivo, di non ritorno, c'è qualcosa che rimarrà scritto anche se magari queste cose si pensano senza responsabilità ma quando le si scrive c'è questo senso di non ritorno che io ho trovato nello scrivere in Italiano.
Se dovessi esprimere la fragilità e magari la massima permeabilità quando ci si sente che d'ora in avanti si scriverà in un'altra lingua, come se si raggiungesse quel punto di non ritorno, come si diceva ieri quel lutto apparente. Io non credo nelle scelte. Certe volte sono circostanze molto dure che spingono a scegliere ma trovo che chi cambia da un paese all'altro è una persona con tutte le sue caratteristiche, sogni, emozioni, principi morali e quando cambia paese si porta dietro tutto questo e quindi direi che in un certo senso un momento di maggior pericolosità è quando si decide di portare tutta la persona in un'altra realtà e credo che ci sia sempre un senso di colpa, un senso di irreversibile, un senso di tradimento, forse era meglio non venire a meno degli impegni già previamente acquisiti, dell'esperienza storica, della costruzione della sensibilità, c'è una sorta di senso di morte e conflittualità e penso che sia una cosa che ognuno di noi esprime facendosi tante domande su fino a che punto riuscirò a integrare la mia esperienza in un'altra cultura e fino a che punto riuscirò a integrare la mia sensibilità in un'altra lingua.
Penso che la scrittura non scaturisce da una domanda del tutto etica ma c'è un borbottio etico, c'è uno stridore che accompagna ogni tentativo di esprimersi e penso che sia riemerso probabilmente da quest'ultima ondata di scrittori migranti e penso che sia una cosa che accomuna tutti noi in un certo senso.
Io, nella mia esperienza, sono stato abbastanza inquinato da letture di psicoanalisi e non farei affidamento a nessuna interpretazione nella scrittura unilaterale in questo caso però volevo dire che la teoria psicoanalitica parla di prescrizione della lingua, di impadroneggiabilità della lingua perché il soggetto è costituito dalla lingua, è abitato dalla lingua, il flusso della lingua possiede dei sedimenti correnti e contrastanti, la sua inerzialità, la tradizione in ogni collettivo come posizione o pregiudizio è quello che si pensa di superare. La ricerca e l'esperienza della lingua è un atto di fede della lingua, e ascoltare gli stati creativi dell'idioma è una ricerca di comunicabilità anche in quei casi di estrema oscurità in cui questa scaturisce dalla vicinanza a un linguaggio prerazionale o dalla ribellione contro un linguaggio mercificato o logorato da stereotipi.
Dal mio punto di vista, nella mia esperienza personale, vorrei dire una cosa che probabilmente è successa a tutti gli immigranti. Io ero il più grande tra i miei fratelli e quindi ho vissuto il periodo iniziale e quindi il più traumatico e mi ricordo che sebbene in casa i miei genitori parlassero Italiano come diceva la professoressa Barile la lingua madre è quella che il bambino sente dalla madre già prima della nascita, c'era l'Italiano un po' dappertutto e c'è stato un rifiuto totale e nessuno di noi, né io né i miei fratelli, parlavamo Italiano. È stata una cosa abbastanza intensa, io mi chiedo qual è la mia lingua madre? La lingua madre di mia madre, la lingua della mia educazione, una miscela di tutto, e quindi che cosa è una lingua madre se non una capacità di permeabilità. Io credo che la lingua madre è una sorta di stato profondo, poroso e quando mi sono trovato in Italia, avevo già pubblicato qualcosa in Spagnolo, e decisi di scrivere in Italiano credo che la mia inclinazione in Italiano sia dovuta al fatto che io non potevo più esprimere la mia sensibilità senza contare con la realtà viva nella quale ero immerso.
Le cose che ho sentito sull'estraniamento, sullo spaesamento della migrazione le condivido e credo che una delle cose più evidenti è l'incapacità di vivere un presente molto più concreto. Vivere il presente è la capacità di frammentare questa esperienza in modo da assimilarla. L'esperienza deve essere decostruzione e ricostruzione, deve essere capacità di imbattersi con la realtà della vita in modo molto vivo e trascinarsi dietro un'idea del passato che comincia a staccarsi dalla propria realtà, dalla propria esperienza quotidiana e comincia ad essere un'orbitazione di ricordi, di esperienze aliene, di suggerimenti rielaborati che incide su questo senso di concretezza dell'esperienza immediata. Questo è anche un arricchimento, una constatazione di questa identità porosa, multiforme.
Chiamerei mia moglie e passerei alla lettura.

Legge Isabel Ruiz:

[Poesia tratte da "NERVATURE" autore G.C. Zone Editrice (Roma 2006) collana "Cittadini della poesia" diretta da Mia Lecomte con la collaborazione di Francesco Stella.]

"Ascolto, Dalla cruna dell'ago"

V'è nel le cose un'ombrosa certezza
un'arida tenerezza
un'altera vulnerabilità

dalle parole mute e la pienezza
allontanami. Socchiudi gli occhi
acquieta il respirare agitato, posa
le mani con leggerezza.

Lascia che le pause ti calmino.

Con appena un filo di fiato
senza parole, con cautela
quasi in silenzio
qualcosa ancora da sfilare

dalla cruna dell'ago
lo si può tuttavia ascoltare
non dice nulla
solo respira.


"Otto chili, otto"

Otto chili di salsiccia o forse più,
attorcigliata ad asciugare alla corda dove
si stendevano i panni, profumava.
Fatta in casa, le budella lavate
con un po' di ripugnanza.
Eccitato il cane, si slegò dalla sua cuccia,
ne mangiò la metà
nascose il resto nello scantinato,
si era ingozzato quasi da non poter
camminare, sempre affamato e magro
forse aveva i parassiti.

Con la mazza della scopa le prese
dalla mamma senza che lei s'impietosisse
dal fatto che barcollava gonfio
come una barca ormeggiata
sull'alta marea.
Sparì un giorno, fu portato via da casa
aveva bisogno di spazio
dissero, per curarsi, ora che ci penso,
fu ucciso perché era troppo
guasto.


"Inaspettatamente"

Hazlas poeta
Haz que se traguen todas sus palabras
O. Paz


Tienile a bada, non lasciarle alla deriva
le spurie, quelle del malessere
che ci cresce tra le dita
e dopo decanta tessendoci giardini,
o sotterfugi sugli occhi.
Inaspettatamente si curvano sulla voce
e ci troviamo a parlare di cose intime
senza volerlo.
Sono le parole più familiari quelle che ci scivolano dalle mani.

Raggirale, mettile di traverso, fa che stiano strette tra loro.
Sono anche la blandizia, il conforto
che ci riporta all'infanzia, tra diserzioni e quel respirare
rotto che in certi momenti zittisce tutto in torno a noi.

A volte si cancellano, intimamente,
si svuotano, sono mani piene di parole rotte:
sono la lealtà del salto, l'animale che si acquatta
che aspetta e sa aspettare.

Ma sono anche i silenzi pieni
in quei giorni non posseduti,
in cui la vita si affretta, stringe il passo.

Ci calano fino alle ossa
relitti o rimasugli o acute certezze, insisti! Dicono.
Sono la forma paziente dell'acqua, che si ripete
monotona sullo scoglio
e il lento parsimonioso cedere
del minerale eroso e incrollabile.

Trattale con cautela, non sono malleabili,
angolose si sbrecciano con facilità,
fiutano le cose che meglio conosciamo
che ci sono più intime, le feriscono
e rimangono accanto alla ferita
quasi con dolcezza.

Sono quelle del disagio, dell'inadeguatezza
perseverante, tenace; i gesti contenuti
a stento come se d'improvviso temessimo
svelarci, esporci ad altri sguardi.
I gesti che mentono quando parliamo
o che parlano quando mentiamo.

"La capra"

Sei scalini di cemento, per passare
sotto il rosaio, intelaiatura della luce
il pergolato delle rose per scendere
nel patio. L'albero dei frutti inverminiti
lontano in fondo, a destra confinando
con lo scantinato; poi altre piante
e anche un bananeto. E una volta
perfino una capra, ma allora
il patio sembrò troppo piccolo:
l'irruente mietitrice di ogni cosa
divorò fiori, piantine, alberelli,
e anche i giornali vecchi nel mio nascondiglio.
Dopo fu uccisa e mangiata. (Poi)
Sgozzata appesa dalle zampe posteriori.
Il sangue gorgogliava nella bacinella,
scendeva come da un rubinetto aperto.
Gli altri, estranei e familiari, ma non io,
celebrarono l'uccisione della capra.
A tavola sembravano tutti a casa
emigranti tornati in patria.


(Applausi)


Julio Monteiro Martins:
Apriamo il dibattito a tutti ma se vuoi dire ancora qualcosa tu, Gregorio.

Gregorio Carbonero:
Si, leggo alcune poesie.

"Newtoniana"

Non si sapeva da dove entrassero,
ma per uscire dalla cucina
i topi passavano sempre
sull'orlo del muro
al buio, velocissimi, un tramestio che schizzava
in un angolo in alto, dove c'era una via di fuga
tra le travi di legno che reggevano
le lamiere del tetto senza soffitto, e le pareti
grezze, senza intonaco,
della stanza più esterna.

Con la solita malvagità che cova
dentro le mura domestiche s'ideò
un modo per non farli tornare:
un filo elettrico scoperto dal rivestimento isolante
teso e fermo tra due barrette, come un ponticello.
Appena lo attraversavano
la corrente li faceva saltare per aria. Ma non morivano,
per un po' di tempo sparivano,
qualche giorno, dopo tornavano.

Durante la cena aspettavamo,
seduti a tavola verso le otto e mezza.
Ascoltavamo il repentino zampettio, e poi uno scatto
brusco e il tonfo lieve della caduta,
dall'altro lato della porta.

Dopo era lo scompiglio: le zampe che scivolavano e raschiavano (poi)
in fretta, sul pavimento liscio di cemento.
In un attimo sparivano e noi eravamo contenti
che la trappola funzionasse
e che l'evento fosse accaduto un'altra volta.

Non ci sembrava crudele.
Era un gioco di causa effetto che si compiva,
strano e inatteso anche se ce lo aspettavamo.
Una sorta di meccanismo a scatto,
da quell'aldilà vicino, dove ogni cosa tutte le mattine
per me ricominciava.

Là, dietro la cucina separata da una porta reticolata
ogni sera chiusa da un catenaccio, iniziava la discesa,
da scalini ruvidi di pietrisco, di graffi sulle ginocchia
ne avevo una collezione,

o da un salto dal parapetto delle bombole del gas
domestico. Dopo era l'internarsi nello scantinato dei residui (Poi)
dove in un mare di muffa c'erano cose ignote
lasciate dai vecchi inquilini.
E poi il terreno e il cane spesso infangati
per le piogge frequenti.

Vantavi
le lucertole acchiappate battendo di colpo
le mani vicino, il rumore le spaventava e
rimanevano immobili. Poi le prendevi
lievemente dalla pelle vicino alla testa,
attento che la coda non ti rimanesse in mano e fuggissero.
L'odore pungente del cane e le sue impronte
che ti sporcavano la camicia.
Erano cose che nel tuo intimo contavano.
Erano i limiti della tua appartenenza,
il divario e i luoghi del dissenso.
Ma non doveva finire lì,
quello era il confine, era varcare una soglia.
Eri costretto. In principio erano quelli i luoghi del dissenso.


"Sul comodino vicino alla sveglia"

Fa che io oggi stia zitto, che non sappia che dire
o che nel momento preciso
non trovi le parole
o che prima di parlare ci ripensi
e non dica niente.

O se inavvertitamente mi scappa
di aprir bocca, fa che la mia voce
sembri estranea, o dimessa
tra i rumori del esistere
o delle consuetudini.

Dopo alla fine della giornata fa che
mi rimanga una intima consapevolezza:
oggi non ho molto da cui pentirmi,
oggi no ho perso molto. Se oggi c'era
qualcosa d'altro nell'aria, per un momento
mi è rimasto tra le mani.
Oggi è uno di quei giorni
in cui sono stato attento.

[Poesia tratte da "NERVATURE" autore G.C. Zone Editrice (Roma 2006) collana "Cittadini della poesia" diretta da Mia Lecomte con la collaborazione di Francesco Stella.]


(Applausi)


Julio Monteiro Martins:
Faccio la prima domanda. Come mai la presenza di tanti animali? Un cane, una capra, poi dei topi.

Gregorio Carbonero:
La presenza di tanti animali è dovuta ad un fatto puramente casuale. Sono cresciuto in un piccolo paese della Ande e c'erano sempre tanti animali nelle case, case enormi con giardini e parchi enormi e c'è una presenza di vita quasi rurale che probabilmente mio figlio non conoscerà e che probabilmente oggi non è consueta.
Credo che gli animali nell'infanzia hanno sempre una sorta di valenza misteriosa, gli animali sono sempre vicino ai bambini, ai luoghi proibiti, fanno compagnia quando si è soli, hanno una certa libertà che magari nell'infanzia l'educazione inibisce agli esseri umani.

Interviene dal pubblico Vera Horn:
Salve a tutti. Io sto facendo una tesi sulla letteratura migrante e uno dei miei capitoli è sulla lingua e quindi sono abbastanza curiosa su questo argomento.
Premetto che la mia tesi è solo sulla narrativa e non sulla poesia quindi ho letto molto meno di poesia che non di narrativa però mi sembra che nella poesia ci sono meno intromissioni linguistiche del proprio paese rispetto alla narrativa soprattutto di quelli che sono arabi che hanno parole intraducibili oppure anche la saudade brasiliana stessa. Nella poesia, in questo piccolo campione che ci avete mostrato, non ho trovato queste intromissioni. Come mai? Non ci sono mai oppure sono presenti in altre poesie?
Parlo di influenze della lingua di origine come presenza di parole nella poesia.
C'è una scrittrice italiana che non è migrante ma però parla spesso di migrazione che è Laura Pariani, lei ha vissuto alcuni mesi della sua vita in Argentina e molto spesso usa delle parole spagnole nella sua narrativa per dare questo tono un po' ibrido, un po' meticcio per ricreare quest'atmosfera di immigrati, questo miscuglio linguistico. Questa cosa non la ritrovo in questo piccolo campione di poesie che ho ascoltato. Esiste oppure no?

Gregorio Carbonero:
Io ritengo che lo Spagnolo e l'Italiano siano due lingue molto vicine.
Posso dire che da quando io vivo in Italia con mia moglie e mio figlio in casa parliamo sempre in Spagnolo perché lo vogliamo preservare, anche se lo stiamo perdendo perché stiamo perdendo quello che è la base di una lingua cioè il ritmo, la sensibilità, il pulsare più profondo della lingua. Aggiungo una cosa molto personale che nella mia famiglia si è sempre parlato molto Italiano.
Gli immigrati italiani in Venezuela hanno un rapporto con la propria cultura tramite piccoli trucchi cioè festeggiamenti di santi e varie festività.
Io non ho interesse nel dipingere luoghi stranieri o atmosfere o ricordi o avventure, che probabilmente in narrativa è più presente; la mia esperienza tra una lingua e l'altra credo che debba venir fuori dall'uso delle parole italiane, c'è in letteratura una certa etica, una certa sincerità, se non si vuole essere banali, se non si vuole non dire nulla c'è bisogno di depurare l'uso della lingua quindi quest'uso deve corrispondere ad una certa autenticità intrinseca quindi non credo di aver bisogno di utilizzare parole che abbiano una valenza eterna.

Interviene dal pubblico Sigrid Rahimi:
Che lei sia stato in Venezuela, in Tibet o in Marocco la cosa non ha importanza ma è importante l'essenza della cosa cioè è giusto che sia una qualsiasi lingua ma che sia quella!
Io ho letto Zenta Maurina una scrittrice lettone. In Lettonia gli esami di maturità di fanno su tre temi diversi in tre lingue diverse cioè Russo, Lettone e Tedesco ma hanno sempre molta importanza a non mescolare le lingue.

Gregorio Carbonero:
Il problema è che la lingua si mescola inevitabilmente, non in modo evidente ed esplicito ma quando una persona non conosce una parola in un idioma evita di usarla.
Il pulsare della lingua, il ritmo e la costruzione tendono a convertirsi un po'.
Giorni fa parlavo con Mia Lecomte e lei era rimasta molto interessata al fatto che noi non cambiamo lingua, non si migra tra le lingue ma veniamo colonizzati dalle lingue, ci si sprofonda per quanto si abbia cautela di non mischiarle una lingua entra sempre per vie esterne. Il problema è che se io continuo a ricordare il mio passato in Spagnolo e continuo a pensare ai nomi dei luoghi del mio passato, che sono ovviamente in Spagnolo, non riesco a riportare questa mia esperienza alla vita mia quotidiana. È inevitabile ad un certo punto la mescolanza e riprendere certe cose e rielaborarle in una memoria linguistica diversa.

Giovanna Zunica:
Prima ha parlato di comprensione della realtà attraverso un processo di frammentazione, di decostruzione e ricostruzione, potrebbe approfondire?

Gregorio Carbonero:
Se una persona ha dei sogni, delle mete, degli impegni o dei convincimenti politici, morali o etici non se li può tenere dentro ma deve sbatterli contro la realtà, deve frammentarli, deve decostruirli, deve esplodere e buttarli contro la vita concreta. Se questa soggettività è stata costruita in un'altra lingua si rischia di avere tanto da dire ma non avere a chi dirlo e che quello che si ha da dire non interessi a nessuno quindi bisogna trovare il modo di inserirsi in una realtà di cose in cui quello che si ha da dire sia possibile dirlo a qualcuno e confrontarlo con la realtà.

Laura Barile:
Mi dispiace molto di dover andar via perché stasera devo essere a Siena quindi mi scuso ma sono costretta ad andare e ad interrompere questa serata che sicuramente voi continuerete. Ringrazio tutti i poeti che sono intervenuti ed hanno letto le loro opere stamani ed oggi. Arrivederci a tutti.


(Applausi)


Julio Monteiro Martins:
Possiamo continuare.
Questa esperienza come ha vissuto Gregorio e come ho vissuto anch'io, cioè di vivere gran parte della vita nel paese di origine, nel suo caso 35 anni nel mio 40 anni, e poi interrompere radicalmente quell'esistenza per iniziare un'esistenza totalmente diversa, con persone mai viste prima e in una lingua non conosciuta, anche in un paesaggio diverso dove le stagioni stesse sono al contrario perché è inverno quando si è abituati all'estate e viceversa. Io penso che sia un'esperienza che chi non ha vissuto non è in grado di valutare. Quando parlo di 'piccola morte' potrei parlare anche di resurrezione, di rinascita, ma non rinascita come metafora logorata ma nel senso più profondo cioè azzerare l'esistenza, ripulire una lavagna per iniziare una scrittura diversa; è uno dei rari eventi felicemente drammatici che un essere umano possa vivere.
Una volta mi hanno spiegato che alcune malattie, come si sa, nascono dallo stress e la prima causa di questo è un lutto ma la seconda è il matrimonio, è un evento lieto, felice ma è fonte di grande stress.
Quando sono arrivato dal Brasile, il primo paese dove ho vissuto è stato il Portogallo, ho vissuto lì un anno poi sono venuto qua in Italia. Ricordo che dopo qualche giorno dal mio arrivo in Portogallo sono andato ad un parco chiamato 'Parque da Serafina', su una sorta di collina c'è questo gigantesco prato di trifogli. Ricordo che camminavo su questo prato con questa luce atlantica del Portogallo con il cielo azzurrissimo; erano le sei di sera e c'era questa luce quasi arancione che fa si che il verde dei trifogli sia più intenso. In quel momento camminando, e sapendo che avevo fatto un cambiamento definitivo della mia vita, cioè un passo senza ritorno, io ho avuto una sensazione come una sorta di epifania, di rivelazione improvvisa, che io ero morto ed ero andato in quel posto; come quando nei film camminano sulle nuvole in quella luce. Ma sono vivo? Forse. Anche se razionalmente sapevo che ero vivo, la sensazione di sapere che ero lì solo come corpo ma non come spirito era fortissima. Forse era una sorta di metafora che il mio inconscio aveva creato. Consapevole, l'inconscio, più di me stesso, della radicalità di quello che era appena accaduto, di quella rottura della mia vita. Vi racconto questo per sottolineare che è un'esperienza straordinaria, quasi extraterrestre, e quindi è impossibile che l'arte o la letteratura di una persona che l'ha vissuta in pieno non sia in qualche modo segnata da questa morte e rinascita, che non ci sia in qualche modo tra le righe questo senso di più grande avventura esistenziale che un essere umano possa vivere. Come una volta ho detto, vivere un suicidio autogestito, amministrare consapevolmente la propria scomparsa per darsi la possibilità unica di rinascere e ricominciare tutto da capo altrove. Credo che dietro tutte queste poesie, questi romanzi, questi racconti così diversi ci sia la stessa essenza che è la materia stessa di questo trauma, di questa immensa avventura.

Gregorio Carbonero:
Volevo dire una piccola cosa. Tengo a raccontare in famiglia che mio padre dopo essere emigrato in Venezuela non tornò più in Italia, ci tornò solo quando aveva 70 anni ed erano già passati quasi 40 anni, e quando andò a visitare i suoi fratelli rimase esterrefatto, trovò sua sorella invecchiata!

(Risate)

La cosa curiosa è che i suoi fratelli e le sue sorelle non si meravigliarono perché sapevano di ritrovarlo invecchiato. Questo è quello che io ho immaginato come una sorta di ancoraggio in un presente stagnante, un presente che non evolve, presente che non matura. E l'ho vissuto con l'esperienza della mia famiglia.
Quando, per esempio, arrivò il momento in cui io e i miei fratelli uscimmo di casa ci fu una diaspora perché due andarono in Francia, io in Italia e un altro negli Stati Uniti ed i miei genitori si ritrovarono improvvisamente soli, senza sapere cosa fare e senza riuscir a capire cos'era successo. Il loro tragitto esistenziale sembrava ora distorto e senza continuità e questo a causa dello sradicamento.

Giovanna Zunica:
Come è stato vissuto dai tuoi genitori questo tuo tornare indietro, cioè tornare al punto in cui loro erano partiti?

Gregorio Carbonero:
Me l' hanno totalmente sconsigliato perché non capivano perché io dovessi tornare indietro quando erano stati loro ad andare via da là, era totalmente inspiegabile.

Arnold de Vos:
Sono olandese e vengo da un'Olanda piuttosto calvinista. Del tuo discorso mi ha colpito una sfumatura che non è stata rivelata, credo, tra traumi e matrimoni, cioè il senso di colpa. Voi avete interrotto la vostra esistenza in quel paese intorno ai 35 anni, io sono andato via dal mio paese all'incirca quando avevo 30 anni e certamente non avevo il senso vivo di interrompere una esistenza; questo che lasci dietro non colpisce te però ti lasci dietro delle rovine non dico sentimentali ma specialmente di famiglia e naturalmente i parenti si chiedono se tutto questo fosse veramente necessario, probabilmente per la tua esistenza di uomo lo era perché, parlo di noi, abbiamo sviluppato la vita in una direzione nella quale forse nel paese di origine non era possibile, cioè si spera sempre di trovare un pubblico per quello che si scrive ed io, ad esempio, trovavo l'Olanda una prigione per il fatto che era un paese piccolo con un numero di lettori esiguo però i parenti mi hanno sempre guardato un po' di traverso, questo senso di colpa di cui tu Gregorio parlavi l' ho avuto anch'io però poi l' ho rimosso e questo implicava anche tornare poco in Olanda perché confrontarsi con i parenti ed amici con questa rottura non portava niente di positivo, sia per me che per loro, perché con le rovine si possono fare poche cose se non c'è possibilità di restauro o di rimedio. Credo, però, che questo senso di colpa sia una cosa che può colpire chi esce dal suo paese da intellettuale e non è assolutamente possibile che la provi una persona che lascia il suo paese per lavoro e la maggioranza degli immigrati e emigranti, tralascio la parola scrittori, esce fuori obbligatoriamente e quindi per loro questo senso di colpa anche se si avrà certamente sarà come senso di realtà miserabile che si lascia alle spalle. Quindi per loro il senso di colpa non può esserci perché emigrano per le necessità della vita.

Gregorio Carbonero:
Il fatto è che molte volte queste persone sono soddisfatte di trovarsi in una realtà più promettente con più possibilità. Ho conosciuto tante persone che all'inizio riuscivano a superare gli ostacoli immediati però dopo volevano tornare ad essere persone complete, avere rapporti familiari, poter festeggiare le loro ricorrenze, seguire le loro inclinazioni religiose questo è un problema tremendo. Io ieri parlavo di questo senso di eurocentrismo ed ho l'impressione che questo senso della migrazione sia capito diversamente dagli altri paesi, credo che in Europa ci sia molta vigilanza, ci siano degli organismi protettivi, ci siano degli organismi immunitari molto gelosi, molto cauti e non appena queste persone cominciano a manifestarsi come persone anche più contraddittorie, come si comporta una persona normale, vengono un po' ghettizzati, un po' criticati, un po' inibiti e gli vengono negate queste possibilità.

Arnold de Vos:
Ma l'Italia sta diventando un po' una Svizzera in questo, perché già in Svizzera quelli che non avevano le carte in regola sono stati tutti buttati fuori quindi si vuole con lo straniero che viene a fare i servizi un rapporto asettico e credo che l'Italia stia camminando in questa direzione, stranamente, però sembra di si.

Gregorio Carbonero:
Esatto.

Interviene dal pubblico Judith Siegel:
Mi interessava un argomento, credo sia stata la Professoressa Barile a parlare di pluralità-intimità e qualcuno ha accostato, con un punto interrogativo, appartenenza. Per appartenenza io capisco identità, è ovvio che l'identità venga aumentata in maniera esponenziale quando una persona attraversa culture e lingue diverse e diventa un'altra persona. Ho trovato qui oggi molto conforto nelle definizioni perché ognuno, quando mette insieme più culture, conia la propria e quindi è già di per sé molto arricchente ma pensavo più al concetto di appartenenza che io intendo come identità e mi faccio delle domande che vorrei fare a tutti voi: come faccio io ad essere generosa con un'altra persona, a conoscerla, a scambiarmi con lei se la mia identità non è forte? Avere una forte identità non deve essere una minaccia per i miei rapporti transculturali, biculturali.
Trovo che in Italia ci siano molti problemi, ma direi un po' in Europa in generale, la Germania ha i suoi problemi, la Francia i suoi problemi e via dicendo; ognuno ha i suoi problemi in queste politiche che vengono escogitate per assorbire persone che vengono da altre culture. Io percepisco una difficoltà in Italia rispetto ad altri paesi e mi chiedo cosa ne pensate? Perché l'identità si configura in momenti come questo quando si vince un mondiale di calcio? E mi chiedo perché dato che l'Italia è un paese che ha una storia veramente singolare e che respinge l'idea di unità qualcosa respinge gli altri che arrivano, che avrebbero bisogno e che possono arricchire? L'identità italiana è frammentata ma non si può unire? Io sono statunitense ed il patriottismo americano è proverbiale, forte, una cosa ammirabile in un certo senso però questa cosa in Italia non accade, perché?
Come riflessione sull'assorbire altri che vengono ed offrono con generosità.

Julio Monteiro Martins:
La mia non è una risposta alla sua domanda ma è piuttosto una riflessione che si aggiunge alla sua. Lei ha parlato di identità forte, si è vero che una persona con un'identità forte avrà anche una comunicazione più coraggiosa, meno minacciata con il diverso, però identità 'forte' al giorno d'oggi non è più legato a identità nazionale cioè, parlo per me ma anche per altri che conosco e sono persone che per circostanze della vita hanno vissuto parte della vita in paesi diversi, culture diverse, ma anche qualcuno che lo ha fatto senza geograficamente uscire dal suo paese di origine ma con una soggettività, un'anima che vive in diversi paesi attraverso letture fatte, attraverso il cinema, i film che vede, perché questa è una forma potente di trasferimento della soggettività nel 20° secolo e nel nostro tempo e anche attraverso internet, e credo che le persone sempre di più costruiscano, anche inconsapevolmente, una forte identità cosmopolita, personale, esistenziale. Ogni giorno vissuto con lucidità è un giorno vinto alla morte, alla pazzia, e questo fa di noi in un certo senso un piccolo eroe per questo trionfo sulla decomposizione generale del corpo e dello spirito. L'identità si trova in questo trionfo e non più nel fatto che il tuo passaporto è tedesco o brasiliano o statunitense. Io non so quanto queste nuove identità più esistenziali, razionalmente, si siano già consolidate, ma credo che un livello di sensibilità inconscio vada in questa direzione. L'uomo sente, intuisce che la sua patria è se stesso e il suo percorso, e a partire da questa condizione costruisce un'identità forte.

Giovanna Zunica:
Sarò molto breve perché, senza saperlo, volevo dire sostanzialmente quello che ha detto Julio.
Io non credo che identità e appartenenza siano sinonimi. Penso che identità sia una cosa e che senso di appartenenza possa coincidere con l'identità ma al contrario può essere anche una forma di difesa quando l'identità è debole quindi quando io vedo gli italiani si scatenano per la vittoria al mondiale io temo molto perché non mi sembra un segno di identità forte, di fatto non credo che gli italiani in quanto italiani abbiano un'identità forte. Da un lato penso questo ma dall'altro concordo molto sul fatto che la letteratura sia il veicolo fondamentale per il confronto quindi chi traduce, perché evidentemente la traduzione non si fa da sé, penso che sia colui che raccoglie dei fili sparsi e ritrova un capo unico.

Julio Monteiro Martins:
Durante una discussione su quale dovrebbe essere la lingua della comunità europea Umberto Eco disse: "L'Europa ha già la sua lingua, la lingua europea si chiama traduzione."

Interviene dal pubblico Monica Dini:
Io mi chiamo Monica e sono una lettrice, lo ripeto se qualcuno non fosse stato presente ieri.
Mi piacerebbe analizzare questo discorso, che è venuto ripetutamente fuori, del diverso in senso generale. Voi avete rilevato dal punto di vista letterario quello che sono in realtà i vizi e i difetti di quello che ha la nostra società. Mi spiego con un esempio: io lavoro in un negozio e sono una commessa, siamo tante ragazze e da molti anni lavoriamo insieme ed ultimamente se ne sono aggiunte alcune di nuove, ragazze giovani senza esperienza che sono state accolte molto bene, inizialmente, perché non sapevano cosa fare. Loro sono venute da noi a chiedere consulenza e la maggior parte delle persone sono state molto carine nei loro confronti, ma quando queste ragazze sono diventate autonome ed hanno iniziato ad esprimersi secondo la loro personalità hanno iniziato a far ombra sulle vecchie commesse e questo è quello che diceva lei (Judith Siegel) prima sul fatto che a porgere la mano in realtà poi, quando quella persona diventa concorrente, può venir fuori il processo contrario e cioè che non siamo più amici perché io non ti vedo più come una persona che mi rispetta perché ho un determinato ruolo ma ti vedo come un concorrente; ma questo è intrinseco della natura umana, fa parte dei lettori, degli scrittori, delle commesse e dei medici etc., è così che sono gli esseri umani.
E lo stesso l'idea del diverso: quando ieri Kossi Komla-Ebri ha letto quel bellissimo brano in cui parlava del diverso e di come lui rimane apparentemente un "vucumprà" togliendosi il camice di Dottore, in realtà è una natura che riscontro sempre nel grande negozio perché quello parla con un accento diverso, perché a quello manca una gamba o perché quell'altro non ha propriamente la capacità di intendere e di volere. Noi abbiamo inserito un gruppo di ragazzi che provengono da una fascia protetta cioè non sono completamente stupidi come vogliono far sembrare le persone che gli stanno intorno, ma in realtà sono persone che hanno qualche difficoltà e la gente non li vuole perché teoricamente occupano un posto che dovrebbe spettare a qualcun altro perché sono differenti, allora non ci si immedesima in quello che in realtà queste persone si sforzano di fare, che vogliono raggiungere nonostante un impedimento che noi, che ci consideriamo differenti, non abbiamo ma stiamo a guardare quanto queste persone rendono e se rendono quanto noi. E questa è un'altra sfaccettatura del diverso. Non è diverso quello che è nero. Tutto quello che fa diverso fa ombra, anche il vicino di casa se stende i panni diversi dai nostri. Quello che noto, nel mio piccolo, è che quello che voi dite è quello che è l'essere umano nelle sfaccettature meno piacevoli.

Arnold de Vos:
Volevo semplicemente dire che identità e appartenenza sono cose di fatto diverse.
Do un esempio molto semplice: io ho un senso di identità molto forte con mia nonna ma non un senso di appartenenza. Questo spiega, forse, tutta la differenza che c'è tra le due parole.
Credo che se lei (Judith Siegel) viene dagli Stati Uniti non sia molto nella norma questa equiparazione tra identità e appartenenza, ma a parte tutto, come accennavo ieri, per uno scrittore migrante anche l'inappartenenza è proprio un forte stimolo di liberazione per buttarsi nella scrittura perché come il serpente cambia pelle, chi cambia lingua subisce, più o meno, un processo del genere anche se per il serpente è solamente esteriorità e per lo scrittore migrante interiorità. La lingua e la poesia vengono direttamente dall'anima.

Interviene dal pubblico Barbara Pumhösel:
Io ho avuto come un flash quando prima Gregorio (Carbonero) leggeva, avevo già letto le sue poesie ma nonostante io venga da un paese dal lato opposto del mondo al suo, quei ricordi, quell'infanzia, quella situazione quasi rurale, quel rapporto con gli animali (quasi mi vergogno ho scritto anch'ìo una poesia su una capra) mi facevano pensare che nel bambino c'è uno straniamento nei confronti degli adulti e c'è anche questo fatto che alcune persone si sentono straniere nel proprio paese, di essere già immigrate prima di emigrare, in qualche modo vivere questo processo e di vederlo già quasi finito quando veramente se ne vanno perché può succedere di non sentirsi a casa. Per tornare al bambino, la prospettiva è ad altezza occhio con gli animali, si vede un po' l'amico immaginario e si vede anche un essere antropomorfizzato, non si vede solo l'animale ma si vede anche la metafora, un po' la paura di come la vita potrebbe andare avanti e finire e con la fine del rapporto con l'animale, forse amico immaginario, e con la sua morte, finisce la storia. Ho un po' mescolato le cose ma volevo dire che la visione dell'eurocentrismo che si vive in Europa è che c'è un'Europa e c'è un nuovo mondo e poi un terzo mondo (o per usare un eufemismo 'in via di sviluppo') mentre a chiazze in un tutto il mondo si trovano queste stesse situazioni.

Gregorio Carbonero:
Leggevo ultimamente un libro di Remo Bodei, filosofo italiano, molto suggestivo ed interessante e vorrei citarlo quando scrive che dopo gli anni della seconda guerra mondiale, dopo gli anni dei totalitarismi e delle ideologie è nata una sorta di apprendistato della soggettività perché la soggettività era stata colonizzata dai sistemi che uniformavano i comportamenti. E questo coincide con quello che diceva Julio, si deve cercare un'identità forte ma basata sull'esperienza personale e sulla cultura. Si, in Italia esiste una forte cultura fondamentale per la storia dell'umanità però esistono anche tante edizioni regionali, tanti provincialismi, tanta dispersione, tanta discordia, tanto senso della disparità che non so fino a che punto io potrei fidarmi che questo senso sia radicato più di altri elementi della cultura italiana. Credo che sia un cambio della soggettività che richiede un apprendistato. C'è una proliferazione di soggettività 'usa e getta' che vengono dalla televisione, dai media, dal consumismo etc. però apparentemente Remo Bodei traccia una linea divisoria tra i decadimenti dei grandi sistemi ideologici. Lui parla di un apprendistato dell'io e mi sembra interessante contrastarlo con questo sminuzzamento regionale che io da italiano straniero, e mi immaginavo un'Italia completamente diversa, ho trovato.

Julio Monteiro Martins:
Se non ci sono altri commenti vi invito al nostro ultimo incontro che sarà domattina alle ore 10,00 in questa sala.
Grazie a tutti voi.


(Applausi)





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