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Scrittori e Scrittrici Migranti
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2° giorno - Martedì 11 luglio ore 10,00 Sala Maria Luisa

Julio Monteiro Martins:
Benvenuti tutti al secondo incontro di questo seminario e ho il grande piacere di presentarvi il poeta Arnold de Vos, poeta italiano di origine olandese che scrive poesie in italiano dagli anni '70 ma che è in Italia dagli anni '60. E'un poeta importante, citato in diverse antologie, è un poeta con una sensibilità particolare e sono onorato che sia qui con noi oggi. Passo la parola ad Arnold de Vos. Grazie.

Arnold de Vos:
Grazie. Ti ringrazio per avermi invitato a questo seminario. Ho accettato subito, anche se ho tentennato un po' tra me e me, perché devo dire che per un poeta la vita privata è bene che stia un po' sotto sigillo, perché è la materia viva da cui trae le sue opere. È un po' come lo scultore che vede nel marmo già l'opera compiuta, ma non è ancora a questo punto e finché l'opera non è finita, è meglio che non la si faccia vedere e siccome io uso me stesso per scrivere, sono un po' riluttante a farmi vedere visto che questo può comportare anche conseguenze non sempre piacevoli.
Leggo una breve "Dichiarazione poetica", come è stata tradotta dal termine inglese "Poetic Statement": un breve testo fatto per una mia opera scritta in italiano e tradotta poi due anni fa in anglo-americano per apparire l'anno prossimo a New York, visto che il testo italiano era stato accettato da Luigi Fontanella che in America si occupa, oltre che della sua poesia, di poesia italiana più in generale. Questo vuol dire che, a partire dall'anno prossimo, forse, passerò all'estero per poeta italiano. Anche questo non è del tutto positivo, visto che ormai non appartengo più da tempo alla cultura e alla letteratura olandese e che da parte olandese non mi si dà più nessun appoggio perché mi dicono che ormai sono fuori: con questo intendo dire che chi fa il poeta migrante casca anche in una serie di trappole.


POETIC STATEMENT


Nato in Olanda agli albori della Seconda Guerra mondiale, ho trovato nella
poesia una forma di riparazione e riparo dai mali del mondo. Suggestionato
dal flagello della bellezza di uomini e cose, la poesia mi estorce però,
come sotto tortura, confessioni che si prestano a essere interpretate male,
causando altre lacerazioni. Il rapporto virtualmente conflittuale con il
lettore fa sì, che mi rifugio spesso in epoche e culture remote, nelle
quali i poeti si facevano carico degli stessi problemi a me congeniali: il
rapporto omoerotico, la trasposizione della tensione bipolare nel rapporto
uomo-Dio.
Particolarmente affascinato dalla poesia sufi di stampo arabo-persiano, mi
sono fatto una cultura del mondo mediorientale tramite lo studio delle
disquisizioni di Annemarie Schimmel, raffinata islamologa recentemente
scomparsa. Anni passati in Tunisia hanno contribuito all'arricchimento del
mio orizzonte culturale di poeta notoriamente encomiaste della povertà in
tutte le sue forme, esperita come unica via di sublimazione del male
personale e del mondo.

Fine


Per darvi una breve introduzione di me vi dico che sono arrivato in Italia negli anni '60 per produrre una nuova versione in olandese della Divina Commedia: avevo una borsa di studio ma non avevo sussidi per fare il lavoro e così, visto che la mia tesi verteva sulla perdita di materiale, di informazione fornita al lettore se bisogna produrre una traduzione nella forma applicata dall'autore del testo, avevo visto peraltro che questo portava necessariamente ad una perdita di informazioni di un quarto del contenuto del verso. Dato che non potevo fare questo sacrificio del vostro sommo autore e che non c'erano altri fondi per fare il lavoro, ho deciso di non farlo, però sono rimasto in Italia per preparare un'antologia della poesia italiana da far apparire in olandese: ho accompagnato l'editore Scheiwiller, morto da un paio di anni, che portava avanti la tradizione della casa editrice del padre e che entrava volentieri e spesso in contatto con autori del passato per cercare di avere da loro in dono dei manoscritti che naturalmente avevano un certo valore. Era un collezionista e per fare buon viso alla situazione, l'editore portava anche me per ravvivare la conversazione. Per me è stato molto utile perché così ho conosciuto nei suoi ultimi giorni persino Ungaretti, e naturalmente sono rimasto un po' sulle mie perché il personaggio non mi è piaciuto affatto. Per parlare più concretamente, il mio primo lavoro erano sei racconti intitolati "Fortezze vuote" e questi hanno avuto il premio Castellammare del Golfo del 1977 e, con orgoglio, posso riferire che la giuria era presieduta da Nino Borsellino, professore alla Sapienza e fratello del giudice finito ammazzato dalla mafia. Questi racconti sono poi usciti a Palermo anche nel 1977, pubblicati da una casa editrice ormai obsoleta, Vittorietti, e la cosa non ha avuto nessun'eco nazionale, perché è rimasta chiusa dentro Palermo. La mia prossima produzione sono state le "Poesie del deficit" ed erano il risultato di un premio Piccolo Strega per poemetto, un premio realizzato a Varese nel 1979, e l'unico premio Piccolo Strega è stato dato alle mie poesie. Poi il Premio è deceduto per cambio della giunta. Quando hanno premiato le poesie, i soldi non c'erano più perché erano stati stanziati dalla giunta precedente. Comunque queste poesie che erano ispirate all'omicidio di Pasolini, hanno avuto nel 1980 il Premio Taormina e quindi per uno scrittore migrante principiante era bello avere due premi in tasca e quindi si pensava che la cosa potesse avere un qualche futuro. Poi per disperazione ho preso contatto con due care amiche di Firenze, Maria Bettarini e Gabriella Maleti, che mettevano su la collana di poesie Gazebo e le mie poesie con loro sono uscite nel 1985, nel terzo volumetto che usciva nella loro collana intitolato "Il portico". Su questo testo forse tornerò più avanti; per non far lavorare la Bettarini che con la selezione aveva già fatto un lavoro piuttosto duro, ho scritto io stesso l'introduzione a questa raccolta.
L'introduzione è stata scritta nel 1985 e da quell'anno ha avuto due edizioni perché ultimamente è stata ripresa in una pubblicazione dell'Istituto Italiano di Cultura di Napoli, che ha dato agli inizi del 2005 in stampa un volume intitolato "'900 e oltre" di prose inedite e un po' nascoste: e la mia introduzione autobiografica faceva parte di queste prose nascoste. Il professor Ernesto L'Arab ha scritto nello stesso volume che questa prosa bellissima apparterebbe al filo del miglior romanzo psicologico europeo.
Io volevo questa mattina parlare del mio penultimo lavoro, un volumetto curato da Mia Lecomte per la collana Scritture migranti di Armando Gnisci. È il primo volume di poesie che esce in questa collana: si chiama "Merore o Un amore senza impiego", e quest'ultimo termine è un eufemismo per l'amore omosessuale, col sottinteso che non si tratti di vero amore. Io, invece, ritengo che possa trattarsi di vero amore per cui ultimamente mi sono dato a scrivere un resoconto in versi del mio amore per un giovane pachistano: raccolta che s'intitola "dio errante". E su richiesta di Mia Lecomte devo dare assolutamente il titolo con la d minuscola perché lei, per un suo retaggio cattolico, non sopporterebbe la D maiuscola. Rimango indeciso però mi sono rimesso al giudizio della Lecomte, che generalmente è a me molto favorevole.
Voglio qui parlare di questo, e voglio parlarne tramite un commento editoriale che mi è giunto la settimana scorsa: anche se sembra che io stia improvvisando, non è così. Questo commento firmato Marco Nicolai, è di un'organizzazione che vorrebbe occuparsi di editoria ma che non è ancora una casa editrice, però ha molti lettori che hanno preso questo mio testo come un pretesto per produrci commenti editoriali e, fra questi commenti che mi piacciono molto perché li trovo calzanti, ce n'è uno di Marco Nicolai che vorrei leggere come breve introduzione alla mia poesia tout court, perché vale per la mia poesia in generale.

Lettura del commento di Marco Nicolai:
"Valutando il contenuto dell'intera raccolta, posso riscontrare la presenza di tre temi fondamentali: la fisicità, la migrazione, la ricerca della trascendenza nel vissuto. Nelle prime due poesie ("Verbo fattoti carne" e "Frammessi") -- che vi leggerò dopo --, vi è una sorta di introduzione alla raccolta, nella quale sembrano innalzarsi, rispettivamente, una sorta di invocazione al potere taumaturgico della parola, e un lamento che mostra insofferenza verso una quiete in cui manca il peso del verbo e del tatto. Quest'ultimo aspetto viene compensato da un'esaltazione del senso olfattivo, proiettato nella ricerca dell'oggetto dei propri desideri. Anche nel terzo componimento si scorge una malinconia dovuta alla stasi descritta tramite suggestive metafore naturalistiche.
Da "Il Banchetto di piazza Erbe" -- che è la prima sessione di questa raccolta --, inizia l'"over-tour" poetico che contraddistingue questa fase della raccolta e quella successiva. I testi di questa sezione sono contraddistinti da una forte carica passionale. S'impone il dato corporeo: il corpo che migra, che fugge, che cerca l'altro corpo disperatamente, il corpo come oggetto d'amore e come oggetto amante, addirittura come simulacro di venerazione, viatico verso il cielo e l'essenza del creato. Come motivo di malinconia nell'invecchiamento e nella consumazione e nel trapasso dalla fanciullezza alla maturità.
La lotta dello sparviero con l'aquila, forse, può essere vista anche in questo senso: scontro carnale iniziato nella vastità ubriacante del cielo, in un volo che non cesserà nemmeno durante la prevista ed imminente caduta. Compare il Dio-Angelo, reale e veemente, che salva o annichilisce, e torna alla terra illuminandola. Ma in questa prima fase si denota anche la descrizione del viaggio, dell'errare attraverso paesaggi deserti e atmosfere mediterranee o mediorientali, della ricerca dell'immanenza dell'amore in un'inevitabile condizione di apolidia. Le guerre che insanguinano la terra vengono accennate appena in alcuni versi, parentesi inquietanti di spari che scalfiscono la dialettica umana.
Nella seconda sezione "Verbale della carezza" noto una ricorrente evocazione di scenari e quadri nordafricani, nuova tappa di questo tragitto umano e poetico. Si spazia dalla descrizione caricaturale de "L'alieno" alla meraviglia del mistero celeste, dalla condizione incerta e barcollante del poeta alla preghiera pagana di fronte allo strazio del sentimento mortale.
Nello stesso tempo la descrizione dei rapporti relazionali diviene più concreta, movimentata, a tratti giocosa ed ironica, a tratti inquieta e mesta. Il corpo torna ad essere piacere e tormento. La poesia è descritta come uno strumento, consapevolmente vano, per sublimare l'effimero.
Nell'ultimo gruppo di poesie (contenute in "Vae solis") vi è una sorta di riflusso, di ritorno alla solitudine, e una fioca reminescenza di luce dentro un nuovo buio. La nostalgia (in realtà sempre presente in gran parte dello sviluppo della raccolta) si affaccia prepotentemente nei versi finali. Si affronta il problema dell'incomunicabilità in un contesto oscuro, l'insufficienza della scrittura a colmare i vuoti nell'anima e le ferite del tempo. La bellezza torna ad essere sogno immateriale. Il cielo non è più un punto d'incontro con la vita terrena, ma speranza di liberazione. Si produce una scissione fra Dio e corpo, il sesso attuale è un 'macabro scherzo' rispetto al ricordo di un trasporto e di un'adorazione del passato.
Trovo l'elaborato, nel complesso, estremamente affascinante e coinvolgente. I temi ricorrenti non annoiano, bensì rendono più facile la comprensione e più scorrevole l'analisi.
Lo stile è lirico e figurativo, i componimenti sono spesso brevi e incisivi.
Il linguaggio, a tratti esplicito e semplice, a tratti aulico ed enigmatico, è ricco di citazioni geografiche ed etniche che rendono i testi evocativi e caratterizzati da una forte pregnanza multiculturale. Ciò mi ha colpito molto.
Le figure retoriche utilizzate, costanti e coerenti coi messaggi espressi, danno vita ad una poesia vivida e sensuale che non sconfina mai nell'enfasi retorica."
Io dopo aver letto questo ho scritto una breve poesia che s'intitola "Soma" : soma è la parola greca per "corpo" , ma è anche la sostanza che così per una pura coincidenza nel continente africano e nell'estremo oriente dell'Asia, in Siberia, e anche in Afghanistan, Pakistan, e in India una sostanza estratta da certi frutti, che dà potenzialità allucinatorie: Sono sostanze che nelle due culture venivano in origine utilizzate da chi si proponeva come prete o sciamano. È un bene ora ancora utilizzato da sciamani che si occupano di raddrizzare una mente umana distorta. Forse anche la mente del poeta è distorta, e quindi che lui abbia comunque un certo potere visuale per l'autosalvataggio non è male in sé.

Lettura:

"Soma"

God's flesh

Deifico una pianta se il suo succo
mi dà l'essenza di te, corpo amato.
Mi porti nei cieli: la mia fiamma si alza
allo spirito del vento
in un viaggio della speranza mai delusa
nella mediazione della natura, se è risurrezione
a portare sulle coste inospitali
della materia in via di risistemazione
dopo essere stata flagellata dall'insorgenza delle onde.
Religione è una migrazione cruda
che forza a lasciare casa e famiglia
e il corpo alle spalle per un unico dio
onnivoro, che risana persino la morte della pianta.

[da: Arnold de Vos, Vertigo (Edizioni del Leone, Venezia 2006 in corso di stampa)]


Volevo leggere alcuni stralci da questa raccolta "dio errante", che sono, in verità, poesie dedicate a Ahmed Safeer:

"Verbo fattoti carne"

Salvami
da me, parola
tu che meglio di me
sai come sono taciturno:
inseguire nell'ennesima casa
sull'ennesimo foglio
un'ombra, non è vita.
Un'ombra non è una parola
che accarezza sulla carta
mentre scrivi, la mano.


Volevo dire che una lettrice che si firma Alessandra ha fatto un commento che passa per i miei incipit, e incrimina i titoli che metto sopra le poesie. Il poeta, secondo me, lavora anche per bassi colpi e come nel bianco e nero della fotografia, spesso per dare intensità alla poesia ci mette sopra un titolo un po' insulso per la voglia di creare un effetto forte: e quindi se lei considera i miei titoli vuoti è giustificata, però ci sarebbe da chiedersi il perché.

Lettura di alcune poesie:

"Frammessi"

Sulla soglia
ma non nella stanza.
Davanti agli occhi,
sempre più lontano.
Tra visto e non visto, intravisto.
Senso e tatto, morti.
L'olfatto più forte che mai:
avverto il tuo odore
col mare frammezzo all'abisso della distanza.
E l'udito mi detta
lettere senza eco,
non risponde nessuno.


"Selva di Grigno" (una località dove ho una casetta di campagna)

Due pietre nella forra
impediscono al tempo di fluire:
sono là, aspettando i nostri passi
nella valle dove solo l'acqua vola
e le aquile che spingono il capriolo
nel precipizio. Ossa
artigliate, pietre mummificate.


"Vivaio"

Mio sacrario di nomi
mio ossario di corpi
mio monte calvo di ricordi
tutti scivolati a valle,
nel grembo del mio fiume in secca
vi cullo, vi venero, erigo capitelli
aniconici con il solo nome
e una pietra sopra
la croce che erano.
Pochi nel mondo hanno amato come me i vostri corpi,
pochi ne hanno avuto così pochi:
viverli li trasforma
in una moltitudine giornaliera
che risale la china, il mio gregge.


"Inappartenenza"

Corpo, sei la mia patria.
Ogni volta che m'innamoro
fuggo con te in un altro paese,
fuggo da te in un nuovo paese

che m'accoglie da clandestino.
Frontiera, ti porto dietro a ogni passaggio.
Quanti dispatrii per un solo destino,
cuore che lavori per l'apolidìa dell'anima.


"Perché la terra mi sta bene"

Con te accanto
con te sotto, con te sopra
m'è indifferente la direzione
mescolo cielo e terra
come l'albero nei rami
tenta e ci ripensa
di abbracciare il cielo
perché la terra gli sta bene.


"Perdo piede"

Perdo piede sul terreno del corpo
continuamente, tra falle e sabbie mobili
e trappole del sentimento.
Incartapecoro: s'induriscono
i vasi del cuore e della vescica.
E la vena della scrittura, vespasiano
del mio cervello.


"Il dono"

Dio e tu alle spalle, vi avrò sempre davanti
ovunque mi giro
le vostre sagome risorgeranno a ricordarmi di esistere.
Ho chiesto d'essere annullato, mi avete stimolato
l'uno con l'altro, immettendo il sale della bellezza del creato
nella ferita della mia creatività.
Da ciò, nessuna creazione vi arriverà in dono.
La sterilità del rifiuto, il mio dono
vi basti: a me è bastato per amarvi per l'eternità.


"Tra due fuochi"

Siamo i due fuochi di un'ellisse
verde nel cui mezzo la terra edenica,
il paradiso perduto ci divide.
Ogni ravvicinamento fa di noi una coppia disarmonica,
un fratello che uccide l'altro, o lo priva
della primogenitura, o lo mette in ombra.
Perdutamente innamorato, temo di perdermi nel cielo
mio approdo terrestre, per fallace che sia
un legame di sesso.


"Land's End"

Sì, la tua vita è rito:
scarno ripetuto pigro
migri
sino a incassarti tra due pietre
destate dal martellare di un ciottolo
che vuole parlarti, di tra la poca terra
dell'al di là.


"Epòdo"

The radiant globe of the sun which is in this verdant dome
is the candle of the tomb of the world […].
(Jâmî, Dîvân-i Kâmil)





M'intrattengo con te ragazzo e te uomo
come se sentissi una voce bianca e di baritono
chiamarmi a turno, per rispondere di due amori
fusi in un'antifona ininterrotta:

dell'io infante che gironzola intorno al corpo adulto
che lo inizi ai misteri della vita,
e del morituro che contempla le tue angeliche fattezze
con l'occhio tellurico dell'ora e poi mai.


"A epigrafe"

mi sogno un tappeto verde, il colore del profeta
che rinnega i poeti. Erbette sulla mia tomba,
m'avete portato l'amore e me l'avete tolto
senza che gli fosse dato conoscermi per quel che sono.
Poco male, dei poeti la vita condona il dono.


"Lo sparviero"

Sono lo sparviero
che ha imparato la caccia all'aquila,
volando molto più in alto
le piombo addosso a forte velocità
affondandole gli artigli nei fianchi
e sbattendole la testa con le ali
sempre rimanendo in volo
ruzzoliamo in fondo al burrone.


"VI sec. a.C., e oggi"

Volto rosso di vergogna, offri le tue vergogne
uova di marmo, indice della virilità
alla mia faccia rosa
cosparsa di efelidi,
tronfia di fronte al tuo trionfo
della forma sulla materia.


"L'innesto"

Porto con me un pezzo di terra
esposto sul mare, ci sono nato.
Hai deposto su questa duna
un pezzo del tuo deserto. Ancora non si sono fusi.


[da: Arnold de Vos, dio errante]


"Ci sono attese che perdurano dalla prima infanzia. La poesia non è tra queste, se di attesa si tratta: non è dell'infanzia.
Rammento ore memorabili, lunghi silenzi nel vuoto di un pomeriggio che non vuole morire, assorto nella luce calante del giorno che evidentemente aveva dove andare, e me bambino allibito immobile di fronte al cammino molle delle ombre, felice di essere lasciato a me stesso benché attediato da non sapevo che. La riflessione vi aggiunge un tocco di poesia, che la scena non aveva. Il mito dell'infanzia è invenzione degli adulti, l'infanzia è penosa in quanto attesa senza scopo prefissato (è presto per tutto, persino per capire bisogna crescere): statu quo straziante che gli altri tentano di alleviarci, se ci pensano, con scopi fasulli che per assuefazione e vezzo possono diventare altamente seri e consolatori. La natura, i primi approcci col mondo animale ce li concedono: diventiamo la gatta affascinata dalla possibile uscita di topi, appostata incantata nei pressi dell'ingresso alla topaia. Poesia? non credo. Ma l'attesa tutto concentrata sul verificarsi dell'eventuale fatto miracoloso, la stessa pazienza con la quale l'aspettiamo provoca un benessere superiore a qualunque gioia ci possa derivare dall'esito positivo della faccenda, anche perché sarà brevissima. Per tornare al bambino seduto nella stanza semibuia, ascoltavo le urla dei pescherecci vaganti nella nebbia infittita sotto la costa con una sensazione netta di pericolo, dilazionato dal vetro delle finestre e dalle dune intromessesi tra me e il mondo di cui non avevo che nozioni imprecise, considerato estraneo. Se nel quadro non entrano genitori o fratelli, è che ero figlio unico a quei tempi - un po' lo sono rimasto -, mentre i genitori li ho tenuti sempre lontano quanto fosse in mio potere da quel che m'interessava più personalmente, piccolo ente autonomo.
Così s'è creata (ho creato, chissà) quest'attesa sublime di un intervento all'altezza delle mie aspettative, miracoloso compimento consolatore delle angosce. Di dover crescere, affrontare il mondo delle cose altre, i fenomeni non pertinenti alla sfera, ristretta, dell'io infante. Interessato ai giuochi, non m'interessava tanto giocare quanto rifletterci su, osservante le mosse delle ombre nello scacco anteserale, sullo sfondo corale dei natanti urlanti per evitare collisioni e guai. Guatavo dalla finestra il paesaggio inquietante dei miei paraggi, i cui contorni avvolti dalla nebbia e dal buio crescente non dicevano molto sul movente della generale angoscia. Ho imparato, a urti, gli abissi che può presentare la vita, e ancora mi fanno paura e stento a crederci.
L'ottimismo poco giustificato, ancorché riflessivo, di un bambino nell'affrontare cose e persone può, nel caso gli vada male, convertirsi nel rifiuto totale e l'azzeramento di ogni aspettazione, per cui si chiude in se stesso, altero e cinico. La salvazione da questo stato sono la sublimazione e le attese inappagabili. Ne trae soddisfazione come dal pericolo incombente atto a diradare il tedio, e dai tentennamenti avvertiti prima di cedere alla nevrosi cadendo nella disperazione più nera. L'esperienza insegna a coltivare, e possibilmente prolungare quegli attimi di gioia relativa, magari con l'inganno sapiente e piacente: l'autoinganno nel quale divampa la poesia, le belle illusioni delle quali si sa che non v'è nulla di ciò.
Nell'incipiente adolescenza la mia attenzione amorosa tesa a innaffiare la terra bruciata della solitudine che mi si era fatta intorno, si è scaraventata sul capezzolo bluastro intravisto nel collo allentato della camicia bianca d'un mio compagno di scuola di colore, venuto dalle Indie, paese fatto per suscitare meraviglie come lo era il ragazzo in questione, ignaro di ciò. Ero solo e pensavo a quel bottone di carne scura che mi aveva rapito e sconvolto." [da: Arnold de Vos, Il portico (Gazebo, Firenze 1985)]
Torno volentieri ad un'analisi della mia poesia fatta da Mariella Bettarini che mi pare essere assolutamente calzante, contenuta nella prefazione a una raccolta intitolata "Responso": il che naturalmente sottintende la difficoltà del responso, il problema del non-responso. Mariella Bettarini ha scritto questo testo, intitolato "La forma, l'informale, l'autosezionamento nella recente poesia di Arnold de Vos". È una raccolta che ha avuto anche un premio Sikania, e purtroppo questa raccolta poi non è stata pubblicata dall'editrice Utopia ma da un'altra casa editrice, che ha fatto, secondo me, un pessimo lavoro.
Io vorrei se voi avete ancora la pazienza di ascoltarmi leggere qualche poesia, assai datata ormai perché la raccolta è uscita nel 1990 e io ho fatto una selezione di testi da leggere oggi:


"Crisantemo"

Crisantemo di un giorno
alza, su spalle azzurrine
la testa argentea e la libra.
Fiutiamo tutti il suo naso
per il profumo di prima mattina.
Gongola, si scrolla di dosso
il nugolo di petali. Autunno che vola via.


"Matinée"

Ombre spiritate
mostra il teatrino della controra.
Girano veloci
angoli, spiazzano le facciate.
Tirata su la veletta delle rughe,
Firenze snebbiata le guarda
cappellino turrito a mezz'aria.


"Skyline"

Lei giace davanti alla finestra.
Il petto tocca il cielo.
Acmi rare, impensabili.
Tra la sizigia dei fastigi
il capezzolo che tu tocchi.


"Clausure"

Alte mura e fioca luce
ma la pianta del cervello cresce.
Nottambula estro versa.


"Un uccello su un ramo"

Un uccello su un ramo
in ultimo prevede il volo
ove tutto è leggero
e presto cade.


"Primavera nella cava"

Il silenzio in posa
davanti alla casa rosa.
Qui tutto combacia nella cava
il clamore smorto
la pietra tolta.


"Museo"

Statue e non torsi.
Nel museo della vita
vago per le sale
vuote, piene di vuoti.


"Fuochi lungo il fiume"

Fuochi sul lungofiume
assembrano gambe, stami
che l'acqua rende fumidi.
Ma la visione chiara vola
dai platani, appioppa pallottole e sogni.


"Passa per la muraglia"

Passa per la muraglia
il gregge delle campanelle
e s'infila nell'ovile. La sonata finisce
nel silenzio fatto di latte.


(Applausi)


Arnold de Vos:
Ci sono certamente delle cose che volevo raccontare o dire che non ho raccontate ma per me può bastare anche così.

Julio Monteiro Martins:
Io vorrei invitare il pubblico qui presente a fare delle domande, se ci sono.

Interviene dal pubblico Cristiana Sassetti:
Certamente la sua infanzia ha influenzato molto il suo immaginario, però mi è sembrato di capire che questi ricordi non vengono invocati con nostalgia, ma a me è sembrato di capire che questa terra che le è stata sottratta così violentemente da piccolo, ritorna nella poesia da adulto per spiegare il suo presente attuale di uomo che vive una condizione nella quale ha perso per sempre questo paradiso perduto, e forse il ritorno a questi luoghi è per spiegare cosa lei è diventato e se questo luogo non è stato una sorta di anticipazione delle delusioni o delle perdite che poi hanno accompagnato la sua vita.

Arnold de Vos:
Fortunatamente no. Io con la mente sono tornato a questa storia perché bisogna buttar fuori quello che c'è da raccontare, però bisogna anche dire che con l'aumento dell'artificio che ci può essere nello scrivere, la distanza tra la persona che amo e quella che è scritta sulla carta stia diminuendo: è come il fotografo che riesce a fare le foto alla realtà, credo che spesso vi sia un divario forse non strettamente necessario fra la situazione descritta e la capacità di esprimersi. E certamente la difficoltà di esprimersi c'è per tutti gli scrittori migranti che non utilizzano la propria lingua madre. Facilmente in Italia si tende a dimenticare quello che la seconda guerra mondiale ha creato nei nostri paesi, insomma si parla della shoah ma non di altri problemi; e purtroppo c'è anche un ribaltamento di quello che gli ebrei hanno subito durante i giorni della shoah, adesso sono loro i veri nazifascisti che si comportano come padroni in un paese non loro. Per questo la generazione di quegli anni è rimasta condizionata: è una generazione molto particolare, e io me ne sono andato proprio perché appartenevo a questa generazione. E volevo sottolineare che questo posto paradisiaco dove sono nato, il biotopo dell'infanzia mi è stato malamente sottratto dagli occupanti tedeschi che hanno distrutto tutto con i loro bunker e missili V-2 in partenza per Londra: sì certo, è successo molto prima che io me ne andassi dall'Olanda.

Julio Monteiro Martins:
Una cosa che le vorrei domandare: nella sua poesia che apprezzo molto, avverto questa atmosfera classica, soprattutto quando presenti il tema dell'amore, il tema del corpo, mi evoca una sensibilità greca-antica ed è una sensazione che ho avuto anche leggendo la poesia di Kavafis e non a caso de Vos, come Kavafis, ha questo legame con le due sponde del Mediterraneo. De Vos è anche un archeologo quindi è un uomo che è sempre immerso nella cultura classica, e la mia domanda è questa: quale è la sua propria visone di questo legame con la sensibilità classica. Poi, una domanda un po' più filosofica: cosa è permanente dell'essenza dell'uomo? Se lei crede che nella natura, nella sensibilità dell'uomo c'è un filo che trascende i cambiamenti epocali, i secoli, la politica, la storia e che può ricondurci a delle sintonie con poeti e autori di 3-4 mila anni fa?

Arnold de Vos:
Io ho scritto una poesia che si chiama "L'artefice", e questo artefice chi è?
Per me è il pene, e più precisamente la pelle ultrasensibile del pene, e poi questo è usato come metafora per l'anima e unifica i luoghi: è questo organo che noi uomini abbiamo a disposizione e che spesso viene utilizzato male e che spesso è causa di male insomma, se uno crede di farlo funzionare a dovere. Per quanto riguarda Kavafis, quando si è a scuola lo studio della realtà geografica si limitava alla Grecia o all'Asia Minore o al Medioriente, però le stesse sensazioni si riscontrano anche in Kavafis e nelle poesie persiane. Io credo quindi che per qualcuno che ha vissuto l'emarginazione come me e mia moglie…, ma conosco anche l'altra faccia della medaglia, quella dell'europeo che migra in un luogo nordafricano e subisce un'altra forma di emarginazione. Vorrei fare una piccola critica al chiasso che c'è stato attorno all'aggressione a Pap Khouma: che certamente vi sono altre persone che hanno subito lo stesso trattamento di Pap Khouma e dei quali non si sa niente, ma di cui sarebbe bene che il mondo sapesse. Forse Pap Khouma ha subito quello che ha subito perché non aveva colpe, e mi domando di chi è la colpa. Comunque, io per lo stesso motivo di quello che è successo a Pap Khouma, ho perso una casa a Roma. Non abbiamo mai dato voce al fatto e insomma non c'è stato il parapiglia che c'è stato per l'evento di Pap Khouma. Tornando a Kavafis, naturalmente quando ho vissuto per sei mesi al Cairo, sono andato ad Alessandria d'Egitto e sono andato alla tomba di Alessandro Magno; e lo stato in cui ho trovato il portone, aperto, dice molto su quel che succede a noi quando dobbiamo dimenticarci di un passato culturale anche assai vicino. Prima di visitare la tomba di Kavafis, ho letto una descrizione lucida di dove si svolgeva una parte della sua vita. Allora in questa casa non era possibile entrarci subito: e ancora sulle pareti c'è la stessa carta da parati di cui lui parla in una sua poesia. Questo quartiere è diventato una specie di zona turistica. La tomba di Kavafis mi ha colpito molto: se si guarda bene, attorno alla tomba di Kavafis c'è un cancello con delle croci greche, insomma l'influenza della chiesa su quella tomba è pesante e ancora più pesante è il gioco delle ombre che si proiettano sulla tomba. Il cancello è stato fatto così per esaudire il desiderio della famiglia ma anche dello stesso Kavafis, che prima di morire si è riavvicinato alla chiesa. Sono stato lì e anche nel quartiere dove ha vissuto.


(Applausi)


Julio Monteiro Martins:
Io vorrei solo fare un'osservazione sul pestaggio subito da Pap Khouma. Purtroppo non c'è stato nessun chiasso e le uniche note che sono uscite sull'evento sono uscite su giornali locali. Tutta la stampa italiana ha totalmente ignorato il fatto e un po' di informazione è stata data, come ha detto ieri Kossi Komla-Ebri, via Internet attraverso le liste di discussione e le e-mail che era l'unico strumento che avevamo per far conoscere quell'evento, che è un evento emblematico, perché è tutto quello che di potenzialmente pericoloso un caso del genere rappresenta. Tutto quello che siamo riusciti a fare è stato attraverso la rete. Sappiamo che i giornalisti sono stati informati perché delle persone come Raffaele Taddeo e Mia Lecomte si sono occupate di informare i giornalisti, e nonostante ciò nessun grande giornale ha pubblicato una sola riga, quindi era solo per chiarire questo punto.

Arnold de Vos:
Io volevo dire solo una cosa, perché francamente i giornali li leggo poco e le informazioni mi arrivano per e-mail e ciò non toglie che trovo che alle volte si porta un po' agli estremi la pazienza del lettore, che non vuole ricevere tutte le risposte a tutti i messaggi che alle volte sono anche di poco conto. Ho saputo recentemente che dentro all'organizzazione culturale del sindaco Walter Veltroni a Roma c'è una corrispondente di cui ho letto spesso il nome nella lista di Sagarana. Sono rimasto sorpreso, perché quello che ho letto di lei lo trovo di una volgarità eccessiva e certamente Sagarana farebbe anche bene a non pubblicare tutti i messaggi che arrivano alla lista.

Julio Monteiro Martins:
Chiarisco solo che è una lista di discussione internet aperta a tutti gli iscritti e quindi non potremmo, neanche se volessimo, fare nessuna forma di censura. Ci mancherebbe.


Laura Barile:
Volevo dire che il tema di un trauma che poi genera e mantiene nel tempo e nella vita di un artista la sua carica generatrice è un elemento indubbiamente presente in molti poeti, come il greco Seferis, che dalla distruzione di Smirne del 1822, ha tratto l'ispirazione, il che non significa che questo tema è sempre presente ma che è quella l'origine profonda da cui continua a originarsi. Quindi questo tema è molto interessante e poi, nelle sabbie e nelle dune, è particolarmente suggestivo anche per lo sbarco in Normandia e anche per certe immagini che ricordano proprio quel momento "nero" del XX secolo. Quando io ho visto la casa di Kavafis, nel 1997, era ancora da visitare con una piccola guida, la porta chiusa, quindi io credo che l'arabizzazione in Kavafis non c'è stata perché per la cultura araba egli era europeo sostanzialmente sia pure greco alessandrino e quindi è questo che porta all'oblio. Io volevo dire una cosa, e cioè mi sembra che la sua poesia è come i quadri di un'esposizione, cioè una serie di pastelli o acquarelli che con pennellate piccole creano un tutto. Io penso che la poesia araba, che non conosco, abbia una tipologia di questo genere: mi è venuto in mente l'haiku soprattutto quando lei ha letto "Un uccello su un ramo" perché quello potrebbe essere un haiku, ma anche la pittura. La domanda è: quali sono i nomi di coloro che lei ha amato e che poi ha "rifatto" in arte e sono curiosa di sapere se c'è anche qualche italiano, dal momento che lei scrive poesie in italiano.

Arnold de Vos:
Naturalmente io intendevo leggere certe cose che poi non ho lette, perché in verità non ho letto niente di ciò che si riferisce al periodo della guerra: e qui, in "Merore", vi sono anche quelle poesie, anche molto concise. Non è che io scriva solo poesie brevi ma ho selezionato poesie brevi per l'esposizione di stamattina, perché se lei legge questa raccolta ci sono per lo meno 5 o 7 poesie più lunghe che riguardano certamente la mia vita ma che non ho letto perché non amo esporre la mia vita. Sono pezzi lunghi e nella nuova raccolta ci sono poesie lunghe quasi come racconti, che si riferiscono alla Parigi degli anni '75. E anche se descrivo come attuale questa situazione di innamoramento, che ormai dura da più di un anno e mezzo, credo effettivamente nel valore taumaturgico della parola. Prima di lasciare la Olanda nel 1967 ho scritto una raccolta di poesie in olandese pubblicata in Olanda, che s'intitola "Da una oscurità completa", ed è un verso di un poeta olandese, Gerrit Achterberg, che ho preso "in esergo". Ho sempre ancora oggi l'impressione di scrivere da un'oscurità completa, volutamente, e quindi le poesie possono essere lunghissime o cortissime perché io accetto la poesia nella forma e nella quantità nelle quali mi viene. Questo forse può essere legato alla mitologia del destino: ho avuto abbastanza contatti con la poesia orientale e mediorientale, araba, per credere nel destino fino ad un certo punto. E preferisco scrivere poesie e non racconti, perché il racconto richiede che ci si torni spesso su perché la forma di quel che si scrive di primo acchito non può essere subito perfetta, mentre invece in poesia mi succede di sentire quasi una specie di voce che mi detta il testo esattamente come lo scrivo. Voglio dire che ho la netta sensazione che la narrazione non faciliti il compito di parlare seguendo il mio cuore, e che è come se le poesie le scrivesse un'altra persona mentre ho accennato a traumi che hanno portato a una scissione nella mia personalità, e io cerco di sfruttare la mia scissione per realizzare la mia poesia: e sembra che sia una cosa fatta fuori di me. La poesia, per me personalmente, non deve necessariamente essere stampata sulla pagina: il fatto che a me interessa di più è il rapporto con la persona desiderata, e questo mi dà la possibilità di scrivere e di essere apprezzato dal pubblico. Credo che sia auspicabile per il poeta di fronte al pubblico, di creare certe azioni che possono succedere solo in quel posto e in quel determinato momento. Sono andato un po' fuori tema, ma spero di aver risposto a tutte le sue domande. Ma ho spiegato soprattutto come mi sento di fronte a questo crearsi della poesia sotto i miei occhi senza che io sia personalmente troppo coinvolto, il che mi dà la possibilità di esprimermi con facilità e senza censure.

Julio Monteiro Martins:
Se non ci sono altre domande vorrei ringraziare Arnold de Vos e dirvi che il nostro prossimo appuntamento è qui, in questa sale, alle ore 15 di oggi pomeriggio.
Grazie a tutti.


(Applausi)


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Appendice:


Arnold de Vos tradotto da Isabel Ruiz Boggio


F a n t a s i a   e   d e s t i n o

a Alfred Kubin,
autore di Dämonen und Nachtgesichte

La fantasia è il destino
di chi non può vivere di sogni.
M'inoltro sulle strade del passato
per inventare vie nuove.
Demoni e visioni notturne
accendono luci nell'ombra
oscura del quotidiano, contrapponendo
alla grisaille della predella
abbagli da pale d'altare.


F a n t a s i a   y   d e s t i n o

La fantasia es el destino
de quien no puede vivir de suenos.
Me interno en las calles del pasado
para inventar nuevas vías.
Demonios y visiones nocturnas
encienden luces en la sombra
oscura de lo cotidiano, contraponiendo
a las grisallas de la predela
deslumbramientos de retablos de altar.






C a t a c l i s m a  a m n i o t i c o

Portava una cuffia bianca dai volant in merletto
sopra il vestito da vedova.
Mia nonna era segnata civicamente
dal dubbio di un ghirigoro a fiore
rialzato nella stoffa: poteva risposarsi
ma non lo fece, e il nero diventava sempre più liso
sotto gli occhiali d'oro e i due corni in oro massiccio.
Gente che porta la ricchezza addosso,
solo che non era una beduina ma un'albergatrice di naviganti
ondivaghi. La casa investita spesso dai flutti
gestiva con mano ferma, fermando l'acqua alla porta.
Nonna, le tue briglie mi sarebbero servite
per irreggimentare la mia vita.


C a t a s t r o f e   a m n i ó t i c a

Usava una cufia blanca con volantes de encaje
sobre el vestido de viuda.
Mi abuela estaba marcada civicamente
por la duda de un arabesco en flor
sobrepuesto en la tela: hubiera podido
casarse de nuevo, pero no lo hizo, y el negro
se volvìa siempre más raído
bajo los anteojos de oro y los dos cuernos de oro macizo.
Gente que anda siempre con la riqueza encima,
solo que no era una beduina sino una alberguera de navegantes
undívagos. La casa embestida a menudo por oleajes
governaba con mano firme, frenando el agua en la puerta.
Abuela, tus riendas me hubieran servido
para regimentar mi vida.







P e r  u n a  t r a s c e n d e n z a  d e l  c o r p o

Toute forme est forme de son contenu

(Didier Franck, Chair et corps)

Tu sei della mia anima
il pensiero: ti penso come corpo.
Lei ch'è il residuo del mio corpo
quando questo si mette a dormire, ti vede comparire
come le sei apparso la prima volta
che ti ha visto messo a nudo, spoglia del trionfo dell'amore.
Non credere che abbia dimenticato quel simulacro:
la vita lascia pro memoria viatici dell'anima
che le danno di che vivere in eterno.


P a r a  u n a  t r a s c e n d e n c i a  d e l  c u e r p o

Tu eres de mi alma
el pensamiento: te piensa como cuerpo.
Ella que es el residuo de mi cuerpo
cuando este se duerme, te ve aparecer
como le apareciste la primera vez
que te ha visto desnudado, despojo del triunfo del amor.
No creas que haya olvidado aquel simulacro:
la vida deja apuntes, viáticos del alma
que le dan eternamente de que vivir.

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da: Arnold de Vos, Merore o Un amore senza impiego a cura di Mia Lecomte. Postfazione di Franca Sinopoli (Kumacreola. Scritture migranti, collana diretta da Armando Gnisci: Kumacreola Letteratura /8, Cosmo Iannone Editore, Isernia, novembre 2005), pp. 50, 55 e 59: poesie tradotte da Isabel Ruiz Boggio






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