| | VI° Seminario
Italiano Scrittori e Scrittrici Migranti |
| 1°
giorno - Lunedì 10 luglio ore 15,30 Sala Accademia 1
Julio
Monteiro Martins: Benvenuti al VI° Seminario italiano degli scrittori
e delle scrittrici migranti. Quest'anno, 2006, vorrei innanzitutto ringraziare
la vostra presenza, la presenza degli scrittori che hanno accettato il nostro
invito e del pubblico presente. Come tutti gli anni, farò una piccola introduzione
ed il punto della situazione di questa nostra letteratura come la vedo io in questo
momento. In questo ultimo anno, soprattutto negli ultimi mesi, noi abbiamo
avuto alcuni grandi motivi di soddisfazione che rappresentano un vero progresso
soprattutto per quello che riguarda la percezione generale di questa produzione.
Voglio menzionare qui due di queste grandi soddisfazioni: la prima è il
fatto che all'esame di stato di quest'anno sono stati scelti due testi, due brani
di interviste di due scrittori migranti, un brano mio e uno della scrittrice migrante
Christiana de Caldas Brito di origine brasiliana anche lei; tutti e due i brani
trattano della migrazione, del fenomeno della migrazione soprattutto da un punto
di vista psicologico ed esistenziale e sono curiosamente brani complementari,
cioè presentano due aspetti diversi dello stesso fenomeno. L'altra soddisfazione
è stata l'ottima accoglienza al libro "Ai confini del verso"
organizzato da Mia Lecomte, la prima antologia della poesia italiana della migrazione,
un libro che prima della fine di quest'anno uscirà anche in versione bilingue
negli Stati Uniti. Questo libro ha avuto delle recensioni entusiastiche, recensioni
non di grandi spazi come quelle che i best seller riescono ad avere nella
stampa italiana perché è stato pubblicato da una piccola casa editrice,
ma all'interno di quegli spazi ci concedono commenti esaltanti. Io da una di queste
recensioni, apparsa su Il Tirreno, scritta da Davide Fiesoli vorrei menzionare
questa frase che credo emblematica per questa accoglienza: "Le loro poesie
sono talmente belle da averci quasi perso l'abitudine in Italia" come se
fosse quasi arrivata un'aria totalmente nuova, qualcosa di inaspettato e di cosi
sorprendentemente bello, anche con il coraggio poetico, perché è
molto importante il fatto di questa sua diversità interna dove tutti gli
autori hanno radicalizzato le loro poetiche e quindi c'è un atto di coraggio
poetico molto grande e questo ha causato nei critici e in quelli che conoscono
la poesia una sensazione di essere davanti a qualcosa di stupefacente, di sorprendente,
venuto da dove meno ci si aspetterebbe, non dai poeti italiani più conosciuti
ma da poeti sconosciuti che hanno adottato la lingua italiana come lingua letteraria.
Questo è una sorta di piccolo miracolo all'interno della letteratura italiana
contemporanea. Questi recenti successi della letteratura italiana della migrazione
e la loro probabile continuità ci pongono anche certe domande e ci espongono
a certi rischi. Io vorrei approfittare di questo mio intervento di benvenuto per
parlare un po' di questi rischi; e per fare certe avvertenze che considero necessarie
in questo specifico momento dello sviluppo di questa letteratura. Il primo
rischio è che è vero che questo movimento non sarà ancora
per molto - per usare le famose parole di Jean Paul Sartre - "imbavagliato
dal silenzio altrui", sembra che siamo vicini a rompere questo confine. Però
il rischio di isolamento di questo confine rimane; spesso il rispetto da parte
della critica non corrisponde necessariamente a una apertura a livello editoriale,
quindi oggigiorno vedo uno squilibrio da questo punto di vista, cioè una
letteratura già a questo punto conosciuta dai critici, rispettata, ma che
continua ad avere tutto il sistema editoriale bloccato, continua ad essere inaccessibile
a questi autori, tutti questi autori continuano a pubblicare da piccole case editrici,
piccolissime a volte, che non riescono ad inserire questi libri nella rete di
librerie, perciò il rischio di isolamento rimane ancora un rischio serio. C'è
anche il pericolo opposto però, quello dell'istituzionalizzazione, dell'iperesposizione
e dello svuotamento del contenuto trasgressivo di questa letteratura. Secondo
me è fondamentale riuscire a non cadere nella trappola di un sistema mediatico
che vuole promuovere certi autori scelti, non per il loro talento o per il valore
della loro narrativa o poesia, ma per il fatto che questi corrispondono a certi
stereotipi persistenti e così li vendono al pubblico in un modo molto semplicistico
e caricaturale, e a volte loro stessi nel loro modo di impostare la pubblicità,
i comunicati stampa, ecc., modellano questi stereotipi, perché credono
che in questo modo questi autori diventino più digeribili al pubblico europeo.
Questo è un rischio molto serio e può presentare una parvenza di
successo che in verità nel suo contenuto profondo è un vero fallimento. Gli
scrittori devono invece resistere alla tentazione del conformismo, alla sottomissione
e alla visione di un mondo tradizionale, consensuale e mediocre, alla conferma
di certe patologie ideologiche che impregnano anche la creazione letteraria come
l'oscurantismo spesso mascherato dal misticismo new age che è una
delle patologie letterarie più gravi del nostro tempo, l'esotismo, le formule
facili di un certo tipo di giallo o noir che non approfondisce mai i personaggi
e li fa agire da automi - e questo è un pericolo particolarmente fastidioso
in questo momento in cui tante case editrici sono aperte e disponibili a guardare
con simpatia solo libri che sono presentati con questi caratteri, e questo fa
si che autori abbandonino la loro narrativa tradizionale per avventurarsi in un'area
che propone un tipo di struttura narrativa molto più meccanicista, in cui
una certa architettura dell'intreccio diventa più importante dell'essenza
dell'opera stessa. Questo è un pericolo, perché è un vero
rischio di impoverimento. Anche il rischio di quello che chiamo il "buonismo
del politicamente corretto", questa cosa di scrivere dei libri con idee molto
generose e simpatiche ma spesso molto false sul carattere umano, con quella intenzione
un po' leziosa, un po' stucchevole, di presentare un'immagine "carina"
e "positiva" del genere umano, abbandonando quello che secondo me è
la proposta più profonda e importante della letteratura, che è quella
della conoscenza dell'uomo nella sua integrità, nell'arricchirlo della
sua ambiguità e delle sue contraddizioni nel meglio e nel peggio di tutto,
e questo si vede oggigiorno molto spesso perché sono libri che quando presentano
questi "messaggi positivi" sono accettati con più simpatia dalle
case editrici. Un altro rischio è quello dell'ermetismo presuntuoso
e deleterio, ma anche quello dell'ovvietà spacciata per saggezza, e per
questa patologia noi nella letteratura brasiliana e portoghese abbiamo un termine
specifico, si dice acacianismo, che deriva da un personaggio di un romanzo
dell'800 che si chiamava "O Conselheiro Acácio", un romanzo di
Eça de Queiros, grande romanziere della fine dell'800 portoghese. Questo
consigliere era un uomo considerato il massimo della saggezza e tutti si aspettavano
da lui un'opinione, gli presentavano le questioni più critiche e drammatiche
e lui rispondeva a tutte con una frase totalmente ovvia e scontata, ma con una
tale aria di saggezza che tutti rimanevano giorni a riflettere, e allora i Portoghesi
hanno coniato questo termine per definire questa finta saggezza che secondo me
è un segno molto presente in una certa letteratura contemporanea di successo.
Non possiamo cadere in queste trappole anche perché abbiamo tutti una
missione non detta ma sottintesa, che è quella di contribuire a cambiare
la cultura occidentale, di arricchire e di umanizzare la tradizione nella quale
ci siamo inseriti nel momento della nostra emigrazione. Dobbiamo anche stare attenti
a non confondere la cultura col potere culturale, che sono cose ben diverse e
spesso dove si trova il secondo non riesce a sopravvivere la prima. Questa è
una delle conclusioni più presenti, in cui i personaggi che riescono a
imporsi politicamente nell'ambito culturale dell'Italia ma anche degli Stati Uniti,
del Brasile e della Francia attraverso i media soprattutto, alla stampa, si propongono
come i produttori di cultura, ma in realtà i produttori di cultura spesso
non sono loro ma sono altri che non hanno quello spazio, e siccome questi altri
con la loro verità e la qualità della loro produzione creano il
rischio di mettere all'ombra quella menzogna, allora questi altri di solito sono
evitati, e quindi questa è un'altra delle patologie serie della contemporaneità.
Questo fatto che gli artisti di più valore spesso sono percepiti dal sistema
di potere culturale come una minaccia, un grande regista brasiliano Glauber Rocha
lo definiva addirittura "assassinio culturale", questo tipo di schiacciamento
dei veri artisti da parte di quelli che controllano il potere culturale. Quindi,
quando c'è questo connubio tra cultura e media, questo rischio è
sempre molto presente. Concludo dicendo che volente o nolente noi siamo un'avanguardia
nel senso più puro e assoluto del termine, nel senso di quelli che arrivano
per primi sul terreno di scontro; dobbiamo quindi comportarci come tali nella
nostra vita ma soprattutto nella nostra scrittura. Così come c'è
stato questo strano fenomeno in cui tutti noi ci siamo ritrovati in un altro paese,
che non è il nostro, nello stesso momento storico producendo letteratura
e scrivendo in quella lingua, questa fioritura così inaspettata e miracolosa;
così è anche vero che dietro tutti i disegni del caso c'è
anche una responsabilità e una missione, probabilmente collettiva, che
tutti noi ignoriamo, e che sarà forse più importante dei progetti
individuali di ognuno di noi come scrittori. Una parte di quello che facciamo,
lo facciamo per un'iniziativa nostra, per le nostre caratteristiche di poeti e
scrittori a livello individuale, ma una parte sono le mosse fatte dall'inconscio
collettivo a nostra insaputa che ci inseriscono attivamente in un momento storico
molto particolare della cultura e dell'arte occidentale, quindi è bene
avere questa consapevolezza perché forse storicamente c'è qualcosa
anche più grande di noi stessi dietro questo destino letterario insolito,
di fare lo scrittore e il poeta in una lingua diversa da quella della nascita. Bene,
questi erano alcuni spunti che saranno argomento di una discussione futura, ed
ora vorrei presentarvi Kossi Komla-Ebri, mio amico, scrittore in lingua italiana
ma nato in Togo, medico, uomo molto amato la cui letteratura gli somiglia in un
certo senso perché questa sua simpatia e questo carisma positivo che lui
presenta nella sua personalità come uomo si riflette nei suoi libri. Scrive
storie molto espressive, penso soprattutto alle storie contenute nel libro "Imbarrazismi",
dove dietro un senso di umorismo e una leggerezza ironica vengono toccate alcune
situazioni dell'Europa che riceve molta gente da fuori ed ha quello che io chiamo
una reazione oscillante di rifiuto, di razzismo e questa ammirazione e sospetto,
quest'ambiguità che si percepisce nelle stesse persone. Questa complessità
della psicologia dell'europeo a confronto con questi uomini e donne che sono venuti
a vivere in Europa è forse l'elemento centrale dell'opera di Kossi Komla-Ebri. Passo
ora la parola a Kossi Komla-Ebri, Benvenuto!
Kossi
Komla-Ebri: Buonasera a tutti! Io ringrazio Julio per l'invito. È
la prima volta che partecipo ad un seminario di Sagarana e ne sono veramente felice;
felice per due ragioni essenziali: il piacere ovviamente di ritrovare Julio ma
felice perché credo, come Julio, che viviamo un momento storico e ritrovarsi
in momenti come questo ci permette di fare un'operazione secondo me importante,
cioè camminare continuando a guardarci, camminare perché è
importante che ci guardiamo camminare per vedere a che punto siamo del nostro
cammino, anche perché quello che c'è di nuovo, noi magari non ce
ne accorgiamo, è che questa letteratura della migrazione ripropone un concetto
che secondo me ormai sta scomparendo nella letteratura occidentale cioè
quello di gruppo letterario. Ormai la letteratura è diventata un fatto
individuale invece la letteratura della migrazione ritorna a creare questo concetto
di movimento letterario, anche se io so che ci sono grandi differenze tra me e
Julio, tra Julio e Christiana de Caldas Brito piuttosto che con Igiaba Scego o
Pap Khouma, però ho la sensazione che stiamo partecipando a qualche cosa
di importante, allora ho voluto fare questo lavoro di riflessione oggi su tre
cose, cioè lingua, linguaggio e identità di questa letteratura;
l'avevo proposto ad una ragazza che mi aveva chiesto un argomento di tesi però
era troppo complesso e non ha voluto trattare l'argomento, non lo tratterò
neanch'io totalmente, farò solo riflessioni riferendomi alla mia esperienza
personale. Lingua italiana che abbiamo imparato a utilizzare, continuiamo a
imparare a utilizzare, e che ha sorpreso più di uno, la prima generazione
di immigrati che scrivono direttamente in lingua italiana senza neanche avere
la fissa di scrivere in italiano perfetto, non sentiamo il bisogno, la legittimità
come l'avevano magari gli scrittori migranti francesi o inglesi. Tutti l'hanno
riconosciuto cioè che per molti di noi l'italiano non è la lingua
coloniale quindi non è una lingua che noi avevamo. Christiana de Caldas
Brito diceva che quando si emigra si lasciano tre madri: la madre terra (madre
patria), la madre naturale e la madre lingua; e chi emigra dice che migra come
se arrivando perdesse le sue ali e ricreasse nuove ali con la sua scrittura e
ritrovasse un nuovo modo per poter prendere il volo. Discutendo con Amara Lakhous,
lui mi ha detto che dubita che noi scriviamo direttamente in Italiano, cioè
secondo lui noi non facciamo altro che trasporre una traduzione mentale delle
nostre lingue, io dubito molto di questo perché mi è difficile pensare
che io per scrivere una cosa la penso nella mia lingua, la traduco in Francese
poi in Italiano, sarebbe un lavoro cervellotico impossibile. Io ho cominciato
a scrivere in Italiano dal momento in cui penso e sogno in Italiano; ho sentito
Julio l'altra volta a Siena dire che ormai la lingua italiana è la lingua
di tutti i giorni, che la sua lingua è diventata la lingua della memoria.
Ma ho notato proprio un rifiuto da parte di alcuni di scrivere in lingua italiana
oltre Amara Lakhous, Moshen Melliti anche lo stesso Mohamed Ghonim ho visto che
scrive in Arabo poi dopo si fa tradurre in Italiano. Avevo visto i rischi che
correvamo nello scrivere in una lingua non nostra legato all'editing, penso che
ne avete già parlato in altre occasioni, ma del linguaggio ho visto che
è utilizzato anche da tanti di noi e così totalmente diverso, ma
prima di tutto l'uso di questa lingua; personalmente perché io ho scelto
di scrivere in Italiano? Avrei potuto scrivere in Francese. Ultimamente ho provato
a scrivere una cosa in Francese per un Call for Paper in Francia, ma
scrivo in Italiano perché io ho bisogno di comunicare innanzitutto, quindi
è nato da un bisogno estremo di comunicare, e se io volevo parlare con
gli italiani dovevo per forza usare la loro lingua, una cosa quasi banale ma se
volevo parlare con loro dovevo cominciare ad usare la loro lingua, bisogno di
comunicare con loro perché avevo notato che le immagini che loro avevano
di noi immigrati erano immagini solamente di manodopera non di persone capaci
di ragionamenti intellettivi. Volevo dire qualcos'altro, guarda che io non sono
solo un cittadino di seconda classe, io non sono solo manodopera, io non sono
qui solo per fare il lavoro che gli Italiani non vogliono fare, anche se convenzionalmente
faccio un lavoro gratificante rispetto a tanti immigrati. Bisogno di comunicare
ed è normale che per molti la via di iniziare sia stata l'autobiografia
e molte volte veniva considerata come qualcosa di banale, io penso invece che
sia qualcosa di essenziale e vitale perché vuol dire situarsi, coniugarsi
fra il passato vissuto, il presente attuale e il futuro, e situarsi cioè
dire "io in questo momento chi sono?" per risolvere un problema di identità
non indifferente, perché penso che la crisi d'identità, che penso
molti di noi hanno vissuto, almeno io personalmente, perché sono arrivato
a un momento in cui mi sono chiesto "io chi sono?" si sono un medico
in questa società, però quale parte di me è africana togolese?
E quale parte di me è l'educazione francese da cui io provengo? E quale
parte di me è stata presa dentro la morsa di questa esistenza in Italia?
Avevo bisogno di capire chi ero. E questa crisi d'identità mi ha aiutato
a capire la scelta del tipo di cosa scrivere. Sul discorso del linguaggio, si,
molti noi soprattutto i primi (Pap Khouma) hanno scritto a quattro mani perché
non avevano questo possesso della lingua tale da potersi esprimere da soli. Poi
è passato ma il loro linguaggio era standard, standardizzato da chi li
aiutava a scrivere. Molti hanno scelto il linguaggio corrente, vedo nei testi
di Igiaba Scego e vedo nei testi di Amara Lakhous, alcuni hanno incrociato la
lingua italiana anche col dialetto italiano, l'esperienza di Tahar Lamri è
fantastica in quel senso in cui lui ha scavato nell'Italiano insieme ai dialetti
romagnolo, veneto con l'Arabo che ha anche una sonorità molto particolare.
Ho visto, per esempio, Barbara Serdakowski fare la scelta multilingua nelle
sue poesie addirittura ogni rima con una lingua diversa, le ho detto che fa strano
perché uno deve avere la conoscenza di molte lingue per poter leggere la
poesia e lei disse che per lei era importante il discorso della sonorità
della lingua e scrivendo una poesia le varie sonorità diverse su ogni lingua
che si viene a utilizzare. Ho visto il linguaggio di Jadelin Gangbo, usa il
linguaggio dei giovani di oggi, il linguaggio della strada nello scrivere. E
poi c'è questa esperienza che stiamo provando io e Gabriella Ghermanti
di ritrovare l'oralità nella scrittura. Io l'avevo tradotto, usando un
termine degli scrittori caraibici, come "oralitura", proprio per spiegare
meglio cosa intendevo quando cercavo di trasportare le menti della mia cultura
di origine dentro la scrittura corrente. Poi ci sono scrittori che hanno un
linguaggio molto più affermato, intendo scrittori come Julio Monteiro Martins
che secondo me è legato al fatto che loro non sono migranti scrittori,
ma sono scrittori migranti, cioè erano già scrittori prima di approdare
alla migrazione quindi la loro esperienza già come scrittori aveva dato
a loro una capacità di scrittura diversa da quello che inizia a scrivere
in una lingua non sua come prima esperienza di scrittura. Poi la cosa che trovo
fantastica, quando parlavo prima di identità, è che ci siamo trovati
intellettivamente in una situazione di non più / non ancora, in un equilibrio
instabile fra un "allora" che era quello che eravamo, fra un "ora",
e un futuro che non sappiamo come sarà. Ci siamo trovati tutti in transito,
migranti, tutte persone con un'identità multipla, plurima; penso che saremo
sempre di più le persone migranti, in transito. Penso che il momento storico
sia questo. Persone con le identità plurime che scrivono. Persone che non
sono solo brasiliane, che non sono soltanto togolesi, ma io mi sento in parte
emotivamente togolese, razionalmente francese e passionalmente italiano e immancabilmente
la nostra scrittura dipinge questo, quello che siamo. Quando Julio ha definito
a Siena che la nostra è la letteratura mondiale quello che ho pensato è
stato "eh infatti, perché noi abbiamo, con la nostra scrittura, dentro
di noi, superato i nostri confini interni!", perché i nostri confini
interni non sono poi così rigidi come pensiamo, sono porosi, sono permeabili.
E il mondo di domani sarà sempre più con le identità multiple. Quando
io definisco un intellettuale dico che è qualcuno che ha il terzo occhio,
cioè ha il dono di previsione, cioè riuscire a capire che d'ora
in poi saremo sempre più le persone con le identità multiple, le
identità mosaico e che la nostra identità non è qualcosa
di congelato che ci teniamo nel frigorifero in casa ma che la nostra identità
è qualcosa che si forma e si trasforma in continuazione. Nel rapporto con
l'altro, chiunque altro, diverso da noi che permette di identificarci, che cresce
insieme a noi e ci rafforza. Allora io nello scrivere ovviamente mi sono reso
conto che ho scritto molti testi didattici perché amo molto il rapporto
con il mondo della scuola, con cui ho molti contatti, e spiegare ai giovani cosa
vuol dire identità multipla l'ho trasferito in un testo per cercare di
spiegare loro la diversità di linguaggio per l'appartenenza culturale diversa,
ho preferito scrivere un testo per spiegarlo. Ed è un limite! Perché
si finisce per essere molto didattici nei propri testi e di non essere totalmente
libero. È una fase che sto, personalmente, lasciando, per scrivere senza
più pensare che per forza devo aprire una finestra su usi e costumi della
società. La prima fase ho cerato perché mi sono reso conto che la
letteratura poteva creare uno spazio virtuale alla conoscenza, anche se era uno
spazio virtuale di liberazione, almeno personalmente per me la scrittura era una
liberazione, scrivere per me aveva un valore drammaturgico importante, ti aiutava
a sconfiggere la nostalgia, parlare della mia terra mi aiutava a sconfiggere la
nostalgia; ma ha acquisito, anche per via dell'aspetto didattico, un ruolo antropologico
nuovo per me perché ero abituato che erano i civilizzati che venivano a
osservare i selvaggi e a descriverci e si è rovesciato questo ruolo perché
ora siamo noi che siamo nel paese dei civilizzati e a descriverli in tempo reale,
a far rispecchiare a loro stessi aspetti che neanche loro si aspettano. Io
ho avuto molte critiche sugli imbarazzismi perché molti mi hanno
detto "tu con l'ironia banalizzi il discorso del razzismo", io penso
che bisogna vedere a che pubblico uno indirizza un determinato tipo di testo.
Io avevo bisogno di divulgare il più possibile una situazione che si stava
creando in questo paese, e il culmine è l'esperienza che ha vissuto Pap
Khouma, cioè la prova che noi ci siamo trovati in un momento storico, tranne
lo stesso fenomeno di migrazione in Italia, una società che sempre di più
si sta razializzando. In questo fenomeno di razializzazione il concetto di noi/loro
sta diventando un concetto molto forte; anche perché io vivo in una zona
di frontiera, in Brianza, il paese della Lega dove io vivo continuamente questa
divisione del noi/loro. Ora il noi/loro se ci pensiamo oggi è un concetto
molto più complesso, molto più intersecato, perché "noi"
chi? Noi scrittori, rispetto ai lettori? Noi chi? Noi medici rispetto ai malati?
Noi chi? Noi anziani rispetto ai giovani? Il noi e il loro è diverso a
seconda dello strato in cui uno si mette per dividere il noi con il loro. Io
sono qui dal '74, quindi sono tanti anni che vivo in Italia, finché vivo
nell'ambito del mio ruolo sociale come medico, lo dico scherzando che il mio camice
bianco mi sbianca un po' (risate), quindi mi fa accettare più facilmente;
ma quando io esco mi ritrovo a essere un "vucumprà" nonostante
tanti anni vissuti qui, e l'esperienza di Pap Khouma è ancora più
resoconto di questo. Pap Khouma è uno dei primi che hanno pubblicato qui
in Italia, con la Garzanti, il suo libro "Io venditore di elefanti"
scritto con Oreste Pivetta. Pap Khouma vive da dieci anni a Milano, tornando da
un incontro con i ragazzi sull'interculturalità è arrivato in Piazza
della Repubblica a Milano, sceso dal tram, due controllori si sono avvicinati
a chiedergli il biglietto e lui disse "no, non devo presentare un biglietto,
io non sono su un mezzo pubblico, sono su un suolo pubblico non ho bisogno di
presentare un biglietto per camminare", lui aveva la tessera mensile quindi
era in regola però per principio non capiva perché dovesse presentare
un biglietto, però loro dissero che lui era a casa loro e doveva tornarsene
a casa sua, da sua sorella, ed hanno cominciato a picchiarlo, a terra, finché
non hanno chiamato la polizia e lo hanno portato al pronto soccorso. È
assurdo! Tranne che la cosa si è venuta a sapere perché Pap Khouma
è un giornalista conosciuto a Milano e quindi tanti suoi colleghi hanno
scritto sulla cosa. Ma quante persone, ogni giorno, subiscono soprusi di questo
genere e non si viene a sapere! Per Pap Khouma è stato uno shock, perché
dopo anni in cui si va in giro sacrificando sabati e domeniche per far passare
un messaggio di integrazione in questo paese, ci rendiamo conto che questa integrazione
realmente non avviene. Julio
Monteiro Martins: Eppure a me, quando Pap Khouma mi ha raccontato questi
fatti, è venuta in mente una cosa diversa tipo il colpo di coda di un sistema
che sta agonizzando, di una resistenza di un certo gruppo a rassegnarsi e ad accettare
che l'Italia sta diventando un paese diverso. Allora ho fatto una comparazione
con il cosiddetto fuoco di Sant'Elmo, cioè a volte nei cimiteri viene quella
luce azzurra che sono i gas prodotti dai cadaveri in decomposizione, questo pestaggio
di Pap è una fiammata di un razzismo in decomposizione, sono gli ultimi
anni di una certa visione dell'Italia in decomposizione. Non voglio dire che
quello che succede è solo questo, ma è probabilmente anche questo,
questa difficoltà di accettare, per un certo tipo di uomo italiano, la
fine di una visione loro del loro paese.
Kossi
Komla-Ebri: Io lo trovo molto ottimista! (ride) Vorrei realmente che
fosse così. L'esperienza quotidiana che si vive oggi mi fa capire che
non c'è ancora questo grado di maturità in questo paese, non solo
in questo paese, anche in tutti i sistemi dell'Europa! Perché alla fine
è l'Europa che è razializzata. Noi ci troviamo oggi con dei ragazzi
che vengono educati dalla colf filippina perché la mamma è a lavoro,
quindi la colf sta trasmettendo la sua cultura al bambino e nessuno se ne accorge
di questa evoluzione che sta avvenendo grattando pian piano l'humus culturale
del paese. Ma l'esperienza di quello che succede a Parigi, l'esperienza di
quello che succede a Londra, mi angoscia! Perché pensando ovviamente, come
padre, al futuro dei nostri figli che nascono qui che tutti continuano a chiamare
seconda generazione di immigrati, ma loro immigrati non sono! Perché loro
sono nati qui, che grado di integrazione reale loro avranno? Uscendo un attimo
dal discorso letterario, io penso che la scrittura abbia un ruolo sociale e un
ruolo politico che forse un po' abbiamo lasciato perdere perché quando
tu dici di essere trasgressivo è un ruolo che dobbiamo recuperare perché
per riuscire a scrivere e descrivere l'imprevedebile dobbiamo seguire l'essenziale
della letteratura e della scrittura in sé. Quello di cui mi rendo conto
è che si, finché sono in ospedale come medico il camice bianco ha
quel suo ruolo magico. Se io normalmente sono vestito così vedo qualcuno
per strada e gli dico "Spogliati!", non si spoglia; invece se ho il
camice si spoglia se sa che ho una laurea, non si pone neanche il problema di
chiedersi "magari questo non è neanche laureato" ma è
il camice che ha questa funzione molto forte. Invece quando esco fuori l'immagine
classica è che sono un immigrato e sono quelle esperienze reali che ho
descritto con gli imbarazzismi. La scelta dell'ironia e della leggerezza nello
scrivere gli imbarazzismi era legata anche al fatto della ricerca del dialogo
come scrittura. Se io nella discussione con qualcuno dico "Tu hai torto!"
il dialogo finisce lì perché lui si mette in posizione di difesa
ed io non riesco a far passare nessun messaggio. La scelta dell'ironia è
una cosa strana, tutti ne ridono riferendosi ad altre persone ma mai riferendosi
a loro stessi. Al di là della risata una riflessione nel suo piccolo la
sua utilità ci sia stata. Ci sono delle frasi che ho trovato, ritornando
al discorso sull'identità multipla ne parla Sandra Ammendola quando parla
della migrazione circolare; nella poesia di Ndjock Ngana "Prigione"
ritratta bene questo concetto dell'identità plurima quando dice "Amare
una sola persona è prigione, amare una sola lingua è prigione, avere
un solo pensiero è prigione" e il linguaggio della letteratura, e
questo lo riprendo da Julio, perché solo la letteratura ha con il linguaggio
un rapporto così intimo, così stretto e profondo da essere in grado
di sovvertirlo per poterlo ricondurre alla sua intimità originale. Poi
sul discorso dell'oralità riporto qui un'introduzione di un testo di Armando
Gnisci del testo di Mbacke Gadji che dice: "Ci sono due modi nuovi attraverso
i quali gli scrittori della migrazione stanno proponendo negli ultimi tempi una
nuova forma di inserimento spirituale nella scrittura letteraria africana. Il
rinnovamento linguistico che ci appare oggi ci sorprende su due vie: una si apre
nel passaggio all'italiano letterario attraverso i dialetti d'Italia; le mezze-lingue
di mezzo, le lingue prossime, del prossimo, le più vicine a chi parla e
vive in una contrada del mondo; lingue-zie, familiari e amichevoli. L'altra passa
attraverso l'insufflamento dell'oralità nella scrittura. L'oralità
suprema del griot, quella rapsodica del cantastorie che viene da lontano, da una
profondità cava che noi italiani ignoriamo. Su questa strada misteriosa
incontriamo Gadji. E capiamo, leggendo questa ultima narrazione, che si è
fermato ad aspettarci." Questo discorso sull'identità plurima ritorna
in un passaggio di una poesia di Gëzim Hajdarï: "Sono un uomo
di frontiera, i miei occhi sguardi incrociati fra quelli che giungono e altri
che partono; dentro di me sono un po' nessuno e un po' tutti, ubriaco di mondi"
e dice ancora: "per voi che siete soli e fuggite con me scrivo questi
versi in Italiano e mi tormento in Albanese". Poi, scusa ancora se ti
cito Julio, mi è piaciuto molto questo passaggio in cui scrivi: "un
modo per ribellarsi contro questo sconfinamento è fare un discorso: chi
siamo noi e cosa vogliamo? Un altro modo è attraverso l'opera stessa."
Ad esempio, il fatto che un Brasiliano scriva sul problema di un malinteso fatale
tra una donna, una casalinga italiana, e un Arabo residente in Italia, credo sia
già una risposta. Sono queste le risposte, cioè, questi confini
a livello di identificazione culturale sono già superati. Siamo cittadini
del mondo che abbracciano le cause necessarie per un mondo non terribile. Questo
si fa anche con la nostra scrittura, con i nostri personaggi ed è un progetto
della prima vera letteratura mondiale forse non come progetto cervellotico ma
qualcosa che nasce spontaneamente dalla mondializzazione involontaria non voluta
dalle nostre vite. Siamo noi all'inizio del 21° secolo che scriviamo il risultato
di cristallo che viene fuori da questa alchimia e per forza dovrà rispecchiare
questioni mondiali, problemi che trascendono i limiti nazionali culturali e linguistici,
volente o nolente non è quello che vogliamo, è quello che siamo,
è quello che siamo diventati a scapito di noi stessi. Quando Julio dice
che questa è una letteratura mondiale, penso che sia una pretesa di queste
letteratura, di questi scrittori d'identità plurime, è quello di
descrivere qualcosa di universale, ma non universale come si concepisce abitualmente.
Io credo che riuscire a scrivere su un locale e avere questa dimensione mondiale
sia per noi, almeno secondo me, una sfida, riuscire in un racconto semplice a
raccontare dell'uomo per vivere dell'uomo e della sua sofferenza sia questa una
sfida. Julio
Monteiro Martins: Quello che dice Kossi è proprio come la vedo io,
credo che in un mondo che è cambiato tantissimo negli ultimi 30 o 40 anni
più di quanto possiamo valutare, con internet, con la scomparsa di certe
questioni che erano antiche e la nuova presenza di altre, ad esempio le guerre
religiose, i fondamentalismi ecc, insomma un mondo che ha una faccia totalmente
diversa da quella della nostra infanzia, in questo mondo è straordinario
che siano emersi nuovi tipi di scrittori e nuovi tipi di letteratura. La mia sensazione
è che quasi ci sia una saggezza cosmica del mondo stesso, il mondo malato
da nuove malattie cerca nuove medicine, cioè cerca soluzioni, risposte,
creando una nuova forma di letteratura e di uso della parola. Questa cosa che
gli scrittori che hanno la loro vita traumaticamente interrotta cambiando paese
cambiando lingua e questi, non tre ma centinaia, creano una nuova letteratura
chiamandola come vuoi mondiale, interculturale, della migrazione, quello che vuoi,
però il fatto è che nuovi grandi problemi sono in cerca di nuove
grandi soluzioni, è così che vedo questo mondo nuovo, questo nuovo
millennio è arrivato in pieno con grandi preoccupazioni e sorprese e credo
che questa letteratura della migrazione sia una di queste sorprese. Kossi
Komla-Ebri: Vi chiedo un altro po' della vostra pazienza perché
volevo leggere qualche mio testo per mostrare questo concetto del linguaggio e
dell'identità trasversa. Forse l'esempio che ho preso non so se rappresenta
bene questa mia idea. Il titolo è "Identità trasversa".
Non lo leggerò tutto, leggerò solo dei pezzi per non esagerare. È
la storia di un ragazzo con genitori senegalesi, nato in Italia e che con l'avvento
della legge Bossi-Fini è costretto a tornare in Africa dai suoi genitori
e a lui non piace questa cosa. Decide di affrontare questo argomento con i genitori.
Lo affronta inizialmente con un determinato linguaggio, poi alla fine trova il
linguaggio che pensa sia migliore, consonante con la cultura dei genitori. Ho
voluto scriverlo per spiegare a queste nuove generazioni di identità plurima
come questo ragazzo con questo tipo di linguaggio si trovi in queste situazioni. IDENTITÀ
TRASVERSA "A
me papà della tua Africa non me ne frega niente!" -------------------- Premurosa
la madre cercò di alzare le mani per fermarlo, per interporsi come sempre,
per mediare fra di loro. Impietoso, il figlio fece abortire sul nascere il suo
tentativo di conciliazione accomunandoli nella ribellione: "Della vostra
Africa non me ne può importare meno di un fico secco! Tu mamma risparmiami
le tue solite lagne!" Sapeva di ferire l'anima, lasciando cicatrici indelebili,
ma era decisamente più forte di lui. Le parole sfrecciarono e volteggiarono
nella stanza, sospese nell'aria, come nuvoloni gravidi di fulmini. Sapientemente
egli usò un linguaggio volgare che non era nel suo modo d'esprimersi ma
che sapeva indigesto a loro. "Per anni mi avete rotto le scatole con i
vostri sogni, i vostri ricordi, i vostri sacrifici. Ma che volete da me? Non ho
mica chiesto io di nascere!" Il volto di papà Kodjo diventò
ancora più scuro. Mascelle contratte, le sue mani strinsero con forza i
braccioli della poltrona. Egli aprì la bocca come per dire qualche cosa
poi la richiuse senza aver emesso neanche un suono. Inesorabilmente Kuami continuò,
quasi senza mai riprendere fiato con quella lucida determinazione del suicida
e del condannato a morte: non aveva più niente da perdere. "Sì
papà, la conosco la tua storia da cima a fondo: non è mica colpa
mia se sei dovuto scappare dal tuo paese per venire qua. Ormai la so a memoria
la tua odissea!" Odissea: Kuami riassumeva così una vita in un
vocabolo. Le vendite in spiaggia: ore ed ore avanti indietro sotto i raggi accecanti
del sole, le gambe appesantite da migliaia di passi affondati nella sabbia, spalle
e braccia sovraccariche. Per sopravvivere, ogni giorno aveva affrontato le voci
ringhiose, gli occhi girati degli sguardi insofferenti, infastiditi. Aveva sopportato
pazientemente le sedute interrogatorie, di chi coglieva in lui un'occasione per
chiacchierare ed uccidere il tempo, blandire solitudine e noia, rigirando all'infinito
la merce fra le dita senza comperare niente. In una parola, suo figlio condensava
la scia di una esistenza stipata di dormite in macchina, di vita da clandestino
e di lavoro nero in fabbrica. Una sussistenza lenita dalla sanatoria dopo ore
di fila in questura, incanalati come bestie in recinti, sotto sole, pioggia e
freddo pungente. Poi vennero i doppi turni, la ricongiunzione familiare, e ciliegina
sulla torta le impronte digitali
"Sì, so tutto. Ma che colpa
ne ho io? Non mi puoi ricattare tutta la vita per questo! Hai fatto dei sacrifici
per farmi studiare e beh? Era il tuo dovere di padre. In questa società
quando uno mette figli al mondo, ne assume la responsabilità. In questa
società per dirsi padre non basta impollinare una femmina. Qui essere padre
inizia dalla sala parto, passando per i pannoloni e il biberon, i giochi e il
primo giorno d'asilo fino ai compiti! Tu papà dimmi quando ci sei stato?
In sala parto? No! Era una roba da donne! E credo che tu non mi abbia mai pulito
il sederino. E i compiti? Parliamone dei compiti. Che aiuto mi avete dato mai?
Lo so che non conoscevi, e non conosci bene tuttora la lingua italiana dopo più
di vent'anni di soggiorno. Non sei mai andato agli incontri con gli insegnanti!
È vero che parlano in un modo incomprensibile per gli italiani stessi e
che danno gli appuntamenti in orari impossibili. Tu però, con la scusa
che sono loro i maestri, che loro sanno quello che è giusto, hai sempre
preferito delegare piuttosto che assumerti le tue responsabilità. -------------------- A
mano a mano che parlava, i singhiozzi mal repressi di mamma Afi si fecero laceranti
mentre lei si premeva le mani al petto come oppressa dalle sue parole. -------------------- Non
mi stressate più con l'Africa: io non ci voglio più andare! Perché
non ci andate voi? Ne parlate così tanto, ne avete tanta nostalgia allora
perché non ve ne tornate a casa vostra? Ogni volta si parla di quando si
tornerà o di quanto si stava bene a casa. Siete sempre qua a cullarvi nel
sogno dell'eterno ritorno sempre rinviato. Va a finire che ho più probabilità
io di andare laggiù prima di voi. -------------------- "Lo volete
capire che è questo il mio paese? La mia vita è qui, i miei amici
sono qui, il mio futuro è qui: come farei a diventare laggiù un
inventore di videogiochi? Laggiù uno ci può stare solo il tempo
delle vacanze e basta, allora uno può anche trovare tutto folcloristico
io non so vivere senza la luce, la televisione con tanti canali, l'acqua corrente
potabile. Non saprei adattarmi laggiù. Lo volete capire? È un po'
come se mi chiedeste di lasciare un albergo di cinque stelle con tutte le sue
comodità per andare a vivere sotto la tenda in un camping. Papà
il campeggio per un po' può essere divertente, ma alla lunga è scomodo
" A
questo punto Kuami si rigirò nel letto sudatissimo. (Perché
tutta questa fase di conversazione con i suoi lui se la stava immaginando). "No,
non posso parlare a loro in quel modo. Sarebbe un disastro. Forse dovrei provare
con un linguaggio più conveniente alla loro cultura, alla loro tradizione. Inizierei
così: -Papà, dada ho bisogno di parlarvi" "È
meglio se ci sediamo in salotto" direbbe senz'altro mio padre mentre la mamma
avrebbe portato la mano alla bocca per soffocare il suo solito "Oh Dio cos'è
successo?" Mio padre esordirebbe: "Figlio si è fatto giorno!" "
Si è fatto giorno papà" "Ti sei ben svegliato?"
chiederebbe la mamma " Sì dada, tutto bene!" " Figliolo,
noi siamo in pace" direbbe il vecchio nel concedermi la parola. Io dopo
un breve silenzio direi: "Papà anch'io sono in pace. Prego dada
di sentire queste mie parole affinché giungano alle vostre orecchie e scendano
fin dentro ai vostri cuori. È vero che un vecchio seduto vede più
in là di un giovanotto in piedi e un bimbo non solleva suo padre sulle
sue spalle per aiutarlo a vedere il cielo. Tuttavia, succede che il fabbro di
un villaggio diventi apprendista in un altro. Qui dove viviamo è un altro
mondo, un mondo diverso da quello dove siete cresciuti e quando ci si siede in
mezzo ai rospi accovacciati non si può chiedere una sedia, bisogna per
forza adattarsi." I miei senza dubbio si guarderebbero a lungo assentendo,
orgogliosi di me. Continuando, reciterei con voce convincente: "So dei
vostri sacrifici, ma la vita è fatta così: non si può chiedere
al sale di essere dolce. Era scritto così nel vostro sé, nel vostro
destino e sapete meglio di me che se non si è invitati ad un pasto, non
ci si può lamentare del piccante del sugo. Questa scelta è stata
vostra ed io sono nato qui. Ora mi chiedete di tornare in Africa perché
voi ne avete grande nostalgia. La lontananza acuisce la malinconia quando la memoria
conserva solo i ricordi più belli. È giusto che sia così,
anche perché la preda che si manca, è sempre una grossa preda. Ma
voi stessi mi avete insegnato che non si può battere il tamburo sul petto
altrui. Ognuno deve fare le sue scelte. Di certo l'Africa è parte di me.
Il pollo non si vergogna certo della sua gabbia ma il mio sé è qui.
Qui sono nato e qui io ho deciso di rimanere per infondere radici. E su questo
cade la mia voce". (Applausi) Julio
Monteiro Martins: Bene, io adesso vorrei aprire a tutti il dibattito. Domande,
commenti, riflessioni, quello che volete!
Arnold
de Vos: Mi domando se non stiamo esagerando, perché questo tipo
di scrittore nuovo mi sa di artificiale cioè vuol dire che con l'orizzonte
allargato chi pensa che sia nato un nuovo tipo di scrittore altrettanto, storicamente
parlando, ha secondo me un orizzonte ristretto, perché i grandi scrittori,
non tutti ma molti, specialmente nel Medioriente anche nell'antichità hanno
sempre viaggiato molto e l'interesse della loro scrittura spesso nasce dal confronto
tra culture che spesso fanno e quindi non vorrei che il grosso del pubblico italiano
pensi che noi siamo una combriccola di scrittori piccoli che si stanno gonfiando. Julio
Monteiro Martins: Io credo che la preoccupazione di Arnold sia assolutamente
giusta, ma quando ho pensato a questa idea del nuovo scrittore non ho pensato
ad una situazione eccezionale. Quello che mi è venuto in mente è
stato che per lo scrittore, in qualsiasi epoca, la sua opera è frutto di
una certa soggettività che è stata formata in lui negli anni precedenti
alla scrittura, in un mondo che è fortemente cambiato e che lo ha quindi
sottomesso ai flussi totalmente diversi, cioè un uomo che vive in una piccola
città prima dell'era di internet sarà necessariamente diverso nella
sua formazione e nella formazione della sua soggettività da quello che
cresce utilizzando e-mail, siti ecc. che avrà una prospettiva di integrazione
e di comunicazione molto diversa. I tempi sono totalmente diversi, come i valori,
una persona che è cresciuta nell'apice, per esempio, dell'affermazione
dell'ideologia comunista, parlo degli anni 30 e 40 del secolo scorso, sarà
molto diverso da uno che è cresciuto negli anni 90 del secolo scorso quando
c'era un movimento contrario, la dissoluzione dell'ideologia, quindi quello che
vorrei dire è che nasce ora un nuovo scrittore che secondo me è
qualcosa che deve necessariamente accadere, come un risultato inevitabile di un
mondo che lo ha costruito con una soggettività diversa da quelli delle
generazioni che lo hanno preceduto. Era questo il punto, quindi non credo, dal
mio punto di vista, che ci sia nessun tipo di esagerazione perché io lo
vedo come un fenomeno storicamente inevitabile, sarebbe molto strano che non fosse
così. Kossi
Komla-Ebri: Io personalmente, e tengo a dirlo, non per una falsa umiltà
ma vedo il fenomeno come qualcosa in divenire. "Pian piano maturando è
banale" come dicevo a Siena la volta scorsa, perché credo che sta
venendo qualche cosa, io credo che in tutta questa massa di gente che scrive oggi
molto andrà setacciato e avverrà automaticamente nel tempo, però
secondo me si è scatenato un processo che andando avanti nel suo divenire
porterà qualcosa secondo me di rilevante, forse la qualità totale
oggi non c'è, cioè c'è ma si può contare, ed io non
metto di certo dentro quelli che hanno prodotto questa qualità però
sono convinto che sta avvenendo qualche cosa di nuovo nella letteratura italiana,
non come spazio di incontro ma come spazio linguistico nuovo, ibrido, non dico
gli estremi di questo, però qualche cosa nella lingua di Dante secondo
me sta cambiando. Julio
Monteiro Martins: Facendo un passo in avanti, credo che alcuni autori di
questa letteratura della migrazione e in alcune delle loro opere c'è una
ottima qualità, la qualità menzionata dal Tirreno quando
diceva che gli Italiani hanno perso l'abitudine a un contatto con la bellezza
poetica che un libro presentava. Credo che la qualità ci sia, però
io la attribuisco ad un fenomeno extraletterario, la attribuisco ad un certo tipo
di spessore psicologico e esistenziale, così come chiamano i Francesi l'orgasmo
"la piccola morte", io direi che anche emigrare è una piccola
morte, questa piccola morte che ho vissuto sulla mia pelle, so cosa è,
so cosa sono i primi anni dopo l'arrivo, gli anni del lutto di se stesso che è
stato lasciato dietro. Quindi i testi prodotti da persone che hanno vissuto questa
esperienza, che sono resuscitate anche letterariamente dopo questa piccola morte,
questi testi trasmettono uno spessore che oggi giorno, per esempio nella letteratura
italiana ma anche europea in generale degli autori cosiddetti stanziali, non si
trova così spesso. Io leggo, vedo tanta letteratura scritta in italiano
di autori di successo che sono cose francamente superficiali, a volte scritte
molto bene con uno stile molto entusiasmante, incalzante, però che si sente
che sono tutti bambini viziati che hanno scritto e che non hanno mai vissuto certi
traumi, e invece questi altri presentano questo spessore, quindi io credo che
anche è vero che tanta qualità, come ha detto Kossi, è ancora
in divenire e la vedremo nei prossimi anni, ma è anche vero che tante opere
presentano già una qualità superiore alla media della letteratura
prodotta in Europa negli ultimi tempi. Interviene
dal pubblico Giovanna Zunica: Mi viene da pensare che le parole siano proprio
delle armi taglienti, a doppio taglio, per cui quando tu dici "io sono uno
scrittore migrante" stai rivendicando un bagaglio che incide nella tua scrittura.
Quando l'ospite, italiano o europeo, ti definisce scrittore migrante può
darsi che stia cercando di marginalizzarti, allora a loro non resta che scrivere,
mi viene da dire perché tanto le parole sono quelle e il valore che assumono
lo assumono secondo le circostanze, quindi non c'è soluzione al problema,
se uno è uno scrittore è uno scrittore, poi quello che si dice di
questo scrittore dipende dal contesto in cui si dice. Credo. Julio
Monteiro Martins: Se tu leggi gli atti dei seminari precedenti, c'è
stata una discussione proprio su questo che è il punto nevralgico e soprattutto
su questo fatto delle etichette che non piace a nessuno, però il problema
è che bisogna nominare le cose per poter citarle e siccome sono scrittori
che hanno questa caratteristica, cioè di scrivere in una lingua che non
è la loro lingua del loro paese di origine bensì la lingua italiana
che è una lingua che è stata scelta, bisogna creare un termine,
un vocabolo che possa far riferimento, ma questo vocabolo non può diventare
una gabbia, un ghetto. Nell'introduzione che avevo fatto oggi uno dei rischi
è questo cioè quello dell'isolamento. C'è una cosa curiosa
in Brasile che quando un politico diventava molto scomodo nel sistema perché
sapeva troppe cose non si poteva semplicemente eliminarlo, collocarlo fuori dal
partito, ma non si poteva nemmeno mantenere nell'incarico di potere perché
disturbava, allora cosa si faceva: si trovava un'ambasciata fuori a Parigi, a
Londra ecc. e si promoveva quel politico ad ambasciatore, è quello che
noi chiamavamo il "degradare verso l'alto". Dire che sono importanti
questi "scrittori migranti" è un modo, come dire, "furbetto",
di degradarli verso l'alto, cioè promuoviamolo purché all'interno
di questo contenitore, invece non a caso volevo parlare mercoledì con Pia
Piera, scrittrice italiana importante nata in Italia, proprio su questo, cioè
esiste una letteratura italiana contemporanea che può includerci tutti?
È possibile immaginarla? La critica letteraria italiana segue due linee
parallele che si inseguono all'infinito. I critici che parlano degli autori, uso
questa etichetta brutta, "DOC", fanno finta di ignorare che c'è
tutta questa letteratura migrante. I critici, invece, che studiano la letteratura
migrante non menzionano mai l'altra; allora sembra che stiamo parlando di due
paesi totalmente diversi, di due epoche storiche totalmente diverse, invece sono
tutti autori che scrivono nella stessa lingua, nello stesso paese, nello stesso
periodo storico e sulla stessa realtà, allora non è possibile che
la critica non possa occuparsi di questo universo.
Interviene
Laura Barile: Volevo dire che un po' è vero, ma a un invito che
abbiamo fatto a Siena a Febbraio, io mi ricordo Stefano Dal Bianco che è
un bravo poeta che ha preso la parola alla fine dicendo "Ma perché
non ci incontriamo mai?". Io, a dir la verità, mi sono sempre occupata
di Montale, Sereni insomma sono entrata ora nell'ambito e sono ben lieta, però
continuo ed ho scritto una cosa su Joyce recentemente e Svevo, e trovo che sono
due aree molto contigue e trovo che la pluralità linguistica per esempio
caratterizza Joyce e anche Svevo rispetto all'Italiano con il Triestino, aveva
studiato nelle scuole ebraiche da bambino e poi nelle secondarie tedesche e quindi
lui dice "Io l'Italiano non lo so" e più di lui lo dicono i puristi
del periodo fine '800 e soprattutto quando esce nel '23 La coscienza di Zeno
che trovano che è scritto in un cattivo italiano. Il discorso è
interessantissimo sotto questo punto di vista, poi ne parlerò domani e
quindi non voglio anticipare, però credo che sia assolutamente intercambiabile,
è un discorso che riguarda anche un lato antropologico-etnologico e che
la musica ha già fatto, la musica sta già facendo questa cosa. C'era
un bel saggio, di cui ne parlerò domani, che parla di come il tango, nato
nelle strade, segue un po' le teorie di Deleuze che si è occupato di questo
tema sul piano filosofico, e poi a Parigi si è deterritorializzato quindi
in un altro territorio è stato accettato dagli argentini di Parigi e dai
parigini come un gusto dell'esotico del ritrovarsi per le strade ma non era più
per le strade quando poi è ritornato in Argentina non è più
quel tango lunfardo ma è già un linguaggio diverso che si riterritorializza.
Allora questo discorso vale anche per la scrittura, in prosa naturalmente, e c'è
un andirivieni che smuove il linguaggio e che lo rende vivo quindi l'Italiano
che viene usato in questo modo ha un interesse, una valenza e si può fare
un discorso a tutti i livelli che vale sia per scrittori stranieri ma anche per
i grandi scrittori che poi quasi tutti i grandi scrittori se vogliamo Beckett,
Nabokov, Kafka che scrive in tedesco appunto lingua dell'oppressore, è
un tema numero uno per non dire dei post-coloniali e di tutti gli indiani che
scrivono in Inglese o i turchi di Berlino. Il problema è che forse qui
ci siamo mossi un pochino in ritardo perché non c'era. Gli italofoni siete
voi, e prima erano gli italiani. Julio
Monteiro Martins: Quello che dico e penso anch'io. Sono d'accordo. Prendi,
per esempio, un caso come quello di Egidio Molinas Leiva, scrittore di origine
paraguaiana che scriveva in Italiano, morto un mese fa, ha partecipato al seminario;
faccio una piccola parentesi: lui era anche un amico, lavorava a Roma facendo
il manovale con più di 60 anni, aveva cercato di tornare in Paraguay, i
genitori erano ancora vivi, entrato in Argentina non è riuscito ad entrare
nel proprio paese non riuscendo a rivedere i propri genitori e la tristezza di
non essere entrato in patria è stata così forte che è tornato
in Italia ed è morto di crepacuore in pochi giorni. È stato seppellito
a Roma, come Mozart, in una fossa comune. Adesso un'amica comune, Mia Lecomte,
ha chiesto a Walter Veltroni di dargli una sepoltura un po' più degna,
almeno il nome. Questo per dire che Molinas Leiva negli ultimi 15 anni ha scritto
in Italiano, letteratura italiana contemporanea su questioni di potere della politica
e della resistenza armata. Lo ha fatto anche Erri de Luca, per esempio, nello
stesso periodo, nella stessa lingua, sullo stesso tema, allora perché non
possono essere visti insieme questi due autori italiani? Perché uno è
nato in Paraguay e uno è nato qua? Oppure, per esempio, Kossi parla
di certe patologie della società italiana contemporanea in un modo divertente,
in un modo ironico, lo fa anche Stefano Benni, allora perché non possono
essere visti come parti dello stesso universo letterario? Questo è un
punto interessante, secondo me dovrebbero.
Gregorio
Carbonero: Per ogni scrittore, chiamato migrante, e che poi il termine
è abbastanza in un certo senso soffocante, c'è la necessità
di giustificare perché può scrivere in una lingua madre, perché
può avere la possibilità di palpare e sentire un ritmo e una musicalità
della lingua che non gli corrisponde. Come dire, questa realtà profonda,
questa pulsione verbale non è tua e quindi non ne puoi fare uso. Ma bisognerebbe
sapere fino a che punto esiste concettualmente questo divieto, perché l'esperienza
verbale della scrittura è anche un'esperienza di alterità anche
nella propria stessa lingua, un'esperienza di smarrimento, un'esperienza di ritrovare
un certo caos pre-razionale e quindi è vero che tutti in un certo modo
faremo la stessa esposizione, come diceva Kossi, e pensavo che quando toccherà
a me dirò esattamente le stesse cose perché mi trovo a coincidere
pienamente sia in confronto all'esperienza del passato sia in confronto all'assimilazione
o alla capacità di digerire un presente veramente a pieno diritto, pieno
di motivazioni, pieno di tutta la realtà, e quindi credo che giriamo sempre
attorno a questa cosa. Mi sembra, in un certo senso, che chi vive un'altra
lingua sente la sua assenza alla sua non completa presenza nella realtà
quotidiana e quindi ha bisogno di dover ricostruire la sua soggettività
ma nella lingua che sente, nella realtà che percepisce, nella realtà
che vede, perché migrare è anche un'esperienza di linguaggio ed
espressione verbale. Ed il discorso ruota sempre attorno a questo bisogno di giustificare
questa frattura. Julio
Monteiro Martins: Sul fatto che "sarà che questa letteratura
non sarà una cosa che è gonfiata?" volevo dire anche che sono
molto precarie, sono pochi gli stimoli che questi scrittori trovano per poter
sviluppare questo lavoro e quindi magari per loro è molto importante prima
questo senso di appartenenza che Kossi ha menzionato, e secondo all'interno di
questo gruppo di appartenenza una sorta di mistica di esso, anche se magari in
un determinato momento può darsi che sia una cosa abbellita però
serve come fattore di propulsione psicologica importante. Per esempio, se vedi
nelle avanguardie europee degli anni '20, quanto queste mistiche di gruppo e di
movimento sono state importanti, poi quegli autori non erano importanti come si
credevano e questo si è visto anni dopo, però qualcuno è
diventato davvero importante! Alcuni dei più importanti autori del 20°
secolo sono venuti da questi movimenti di avanguardia e quindi può anche
darsi che Arnold in parte abbia ragione, però dobbiamo vedere anche in
che modo funziona questa mistica anche se magari può avere un qualche elemento
artificiale. Arnold
de Vos: A me sembra che per uno scrittore cosiddetto migrante uno degli
stimoli è proprio l'inappartenenza, che è un grosso stimolo, è
liberatorio e forse nella prima fase della nascita di questa scrittura si tratta
più di inappartenenza che non di volontà di appartenere, poi naturalmente
se uno dietro di sé ha una certa produzione comincia a battersi contro
il pregiudizio che c'è da parte del critico italiano che questa cosa non
è possibile. Ci sono miti paralleli, mi ricordo bene visto che prima
di lasciare il mio paese pubblicavo e studiavo all'università, mi si diceva,
ed era un antico mito universitario pare olandese, che bisognasse scegliere perché
chi faceva gli studi universitari sarebbe poi diventato non più buono per
la scrittura e questo è anche possibile perché se guardavo intorno
a me vedevo molta gente frustrata che riusciva a scrivere articoli sulla letteratura
ma non faceva letteratura però naturalmente non si può generalizzare
ed era chiaramente un pregiudizio. Per quanto riguarda il pericolo di isolamento
voglio riferire, non è una mia opinione o ricerca personale, che alla prefazione
a "I confini del verso" a Firenze in occasione collaterale all'evento
del ventennio della rivista "Semicerchio" è stato osservato che
nessun autore migrante fin ora è mai entrato in una antologia della letteratura
italiana, ci sono casi di natura dubbia e viene fuori il nome della Rosselli,
però siccome la conoscevo un po' a Roma ho visto con i miei occhi il completo
isolamento non solo linguistico ma anche da parte dei colleghi scrittori di Amelia
Rosselli a Roma, dico a Roma! Forse naturalmente questo apparteneva al personaggio,
lei si isolava spesso e volentieri. Però il riserbo su questa multiculturalità
ma anche plurilinguismo era negli ambienti romani completo però bisogna
anche sottolineare, e parlo quindi degli anni '70, che nonostante il fiorire della
letteratura a Roma in quegli anni, il bello di Roma è che fosse anche un
grande villaggio con anche il provincialismo, perché c'erano anche certi
dettami ferrei; adesso si può per me posare una croce sull'esperienza di
Siciliano, però era diciamo un grosso dittatore, uno di quei dittatori
che dettavano legge su chi sì e chi no, su quel che si poteva e quello
che non si poteva. Non voglio anticipare quello che dirò domani, però
con una mia prima raccolta scritta in Italiano intitolata "Poesie del deficit"
ho vinto del 1980 il premio Taormina poi nessuno ne ha più parlato, il
libro però era apparso, e non per fatiche mie, presso la libreria Croce
che era una libreria centrale vicino a Campo dei Fiori e Dacia Maraini voleva
promuovere questa scrittura, che non era perfetta, però era già
in fase avanzata altrimenti non avrei avuto questo premio, perché non è
il solo premio che ho avuto per quel libro, perché l'anno prima hanno fatto
l'edizione per poemetto però uno come Siciliano vietava a Dacia Maraini
di portare avanti questa cosa. Insomma le relazioni tra i vari personaggi,
grandi e piccoli, dell'ambiente letterario di Roma era così, chiaramente
si parlava di clientelarismo e torno alle antologie, ognuno sa, e spesso molti
si lamentano, ma si sa che oggigiorno le antologie sono spesso frutto di clientelarismo,
perché si promuove chi è amico ma si fanno certe scelte che non
sono spesso basate sulla qualità, perché la qualità è
spesso soggettiva e si può discutere però certamente, come qualcuno
stasera ha detto, l'ambiente spesso non è molto invogliante per un autore
che voglia mettersi a scrivere perché hai contro di te tantissimi fattori,
uno i soldi, e quindi chi ti paga, e poi questi pregiudizi, e poi queste amicizie
o nemicizie tra persone che potrebbero dare una mano per promuovere. A me è
capitato che per le poesie di "Poesia del deficit" ho incontrato Elsa
Morante e lei era portata verso questo tipo di poesia però mi diceva "Tu
non puoi fare carriera se non ti fai promuovere (qui dico quello che lei non ha
detto ma lo traduco in altri termini) da Dario Bellezza." E qui entriamo
in un argomento tipicamente italiano: sono archeologo ed ho scritto con mia moglie
una guida Mondatori per la pittura pompeiana, e quando ci siamo messi al lavoro
era semplicemente perché il loro sovrintendente di Pompei, De Francisis,
per cinque anni avevo incontrato per la Mondatori ma non era stato fatto niente
e la Mondatori disse che era ora che si facesse. Allora si è fatto avanti
questo signore molto amato a Napoli, professore De Francisis, dicendo letteralmente
"Questa guida non s'ha da fare!" e a me Dario Bellezza più o
meno mi diceva negli stessi termini "Questo tuo lavoro non s'ha da fare"
perché entriamo qui nella categoria italiana del protezionismo del territorio;
chi viene da fuori spesso rischia di invadere il territorio di chi pensa che questo
territorio sia suo e così nell'ambiente napoletano non potevamo lavorare.
E credo che questo fenomeno ci sia ancora oggigiorno, perché questi sono
esempi per lo scrittore migrante principiante. Gregorio
Carbonero: Mi chiedo allora, e i musicisti e compositori? Nel caso
della scrittura perché c'è una più esplicita suggestione
etica o opposizione politica. Perché proprio nella scrittura e non negli
altri ambiti tipo pittura, musica ecc.? e mi chiedo se questo non è un
punto di vista eurocentrista, io non ho mai visto che negli Stati Uniti, nell'America
latina o al di fuori dell'Europa in generale ci sia tanto discutere su questa
letteratura migrante. Ci sono grandissimi scrittori in tutto il mondo che sono
di provenienza europea o extraeuropea. Negli altri paesi c'è un'ibridazione
culturale talmente forte che non desta tanta perplessità. Julio
Monteiro Martins: Negli Stati Uniti oggigiorno c'è questa cosa della
letteratura migrante. Sempre ricevo delle corrispondenze di studiosi che studiando
per esempio gli autori di lingua spagnola, per esempio messicani o di Portorico,
poi c'è questa questione dei Native Americans, che qualcuno scrive in Inglese
come lingua straniera, altri hanno cercato di recuperare le loro lingue native
delle tribù Cheyenne o Sioux, ma c'è anche un fenomeno che a me
è sembrato particolarmente interessante negli USA, i Native Americans degli
stati del sud hanno rifiutato di scrivere in Inglese e per un periodo hanno scritto
nella loro lingua ma non ci sono riusciti, allora cosa hanno fatto? Hanno adottato
come lingua letteraria lo Spagnolo, che non è né lingua originale
né lingua del colonizzatore ma una terza, e ora ci sono libri pubblicati
in Spagnolo e poi tradotti in Inglese scritti da Indiani americani e quindi questo
fenomeno non è esclusivamente europeo. Gregorio
Carbonero: Negli Stati Uniti non è visto con questa reticenza, con
questo sospetto di invadenza bastarda nella lingua, invadenza negli aspetti formali,
nel ritmo, nella struttura poetica, nella purezza grammaticale. Ho l'impressione
che si guardi ad altro ed ho l'impressione che questo cercare, ad esempio nei
dialetti o nelle culture estere, lingue minoritarie, sia cercare questo senso
di alterità, questo senso di discrepanza e estraneità nella lingua
che probabilmente in una lingua che è divenuta standardizzata, logorata
o probabilmente esaurita dal punto di vista creativo spinga le persone. Io
credo che ci sia più vicino uno scrittore migrante che tenta di scrivere
nella lingua di adozione che uno scrittore che tenta di scrivere in dialetto lombardo,
e invece non trovo che quello che scrive in dialetto cerchi questo senso di appartenenza,
ma cerchi questo senso di libertà creativa in una lingua dove ancora può
trovarsi, in un certo senso, spaesato, fuori causa, fuori canale. Julio
Monteiro Martins: Una cosa volevo dire sulla questione dell'isolamento. Sappiamo
tutti che noi scrittori siamo per nostra natura persone isolate, siamo delle isole,
e questo è parte del nostro carattere profondo. però quando emerge
una possibilità di ritrovare i miei pari è una sensazione strana
e felice. Per esempio questo libro "Ai confini del verso", lo leggevo
e ho avuto una sensazione strana proprio dal punto di vista emozionale, sono rimasto
proprio più felice a leggere questo che a leggere un libro scritto da me;
sto cercando di esprimere un'emozione che ho avuto e questo senso di appartenenza
non è un progetto teorico, è proprio un'emozione che è emersa,
che ci sono altre sensibilità che hanno avuto un percorso parallelo al
mio e che ci siamo ritrovati a scrivere narrativa nello stesso periodo storico.
Il fatto di sapere e di conoscere chi sono queste persone e addirittura leggere
quello che hanno scritto per me è fonte di grande allegria e gioia! Gregorio
Carbonero: Capisco che il rapporto con la tradizione, il rapporto anche
politico e magari non dichiaratamente etico con la scrittura ci accomuna tutti
senza dubbio, e la sensibilità e il ritrovarsi a fior di pelle questo bisogno
di chiedersi se questo rapporto ai confronti della tradizione ha una valenza etica.
Però volevo semplicemente dire che mi sembra che questo fatto di scrivere
in un'altra lingua, di essere colonizzati da un'altra lingua, sia anche reagire
invadendo non solo una lingua ma anche una tradizione letteraria dove si avranno
dei contrasti con la critica ufficiale o con chi non sarà d'accordo. Julio
Monteiro Martins: Questo sarà un tema che con la professoressa Laura
Barile sarà approfondito nei prossimi giorni, proprio questo tema della
recettività, questa possibile comunicazione fallita. Volevo dire un
ultima cosa, la descrizione dell'ambiente romano che Arnold ha fatto si ricollega
a quel discorso dell'introduzione che ho fatto quando diceva "Attenti al
potere culturale, che spesso si oppone alla cultura, alla creatività". Interviene
dal pubblico Monica Dini: Premetto che sono una lettrice e quindi di tutti
quei vostri ragionamenti dal punto di vista pratico non ci capisco assolutamente
niente, però mi piacerebbe come lettrice farvi presente che è molto
più bello che ci siano delle diversità tra uno scrittore portoghese
che scrive in Italiano e uno scrittore Italiano. Questa sensazione si ha quando
si ascolta o si legge qualcosa che è stato scritto da una persona che non
è italiana nella lingua italiana. Quando Julio parli del bem-te-vi,
che è quell'uccellino che ha nome onomatopeico e che è un uccellino
brasiliano, in realtà quello che traspare da quello che dici è molto
differente da quello che traspare quando parli del Chianti. E lei (Kossi Komla-Ebri)
quando ha scritto questo dialogo veramente stupendo, con i miei complimenti, in
realtà uno scrittore italiano non sarebbe capace di dare questa intonazione?
Per quanto riguarda il dialogo in Italiano sicuramente sì, ma quello che
lei trasmette attraverso il dialogo improntato su quella che è la vostra
cultura è troppo differente. Secondo me, che sono lettore, sono abbastanza
inevitabilmente paralleli i cammini che state facendo, è chiaro che poi
interverranno sicuramente dei problemi politici di privilegi ecc. però
è più giusto che ci siano veramente tante differenze e che rimanga
così, nel senso che nessuno cerchi di assomigliare o di omologare o di
amalgamarsi troppo, in realtà il vostro punto di vista arricchisce chi
ascolta se pone tutte e due le situazioni, cioè se pone il come vedete
l'Italia e se ci date lo specchio per vedere qual è la realtà che
vi ha formato. Kossi
Komla-Ebri: Riallacciandomi al discorso che ha fatto Monica, le osservazioni
fatte dallo scrittore sono diverse da quelle fatte da chi legge. Ma più
che altro un discorso pratico: io credo che nel confinamento che riguarda la scrittura
migrante bisogna vedere anche i lati positivi, se non altro ha dato una certa
visibilità a questa scrittura senza per questo sminuirlo col fatto di essere
oggetto di studio, ma io penso che è sempre meglio essere oggetto di studio
che oggetto di niente quindi è già qualcosa anche se è un
piccolo passo. Io penso che in futuro quello che dovremo chiederci è
qual è la letterarietà dei nostri testi, cioè in base a quale
criterio possiamo dire questo è letteratura e questo non è letteratura,
perché non è che perché uno dice che è scrittura migrante
allora qualsiasi persona che si alza la mattina e scrive qualcosa diventa scrittura
migrante, in base a quale criterio noi la definiamo. Non vorrei però dall'altra
parte che la letterarietà dei nostri testi venga giudicata dai critici
letterari italiani nello stesso modo in cui loro giudicano i testi italiani, perché
penso che un fattore diverso sia il contenuto di quello che scriviamo che dovrebbe
essere preso in considerazione nel giudizio di letterarietà e non soltanto
sulla sintassi perché è ovvio che se si giudica solo sulla lingua
allora rimaniamo sempre svantaggiati. Gregorio
Carbonero: Il rapporto letterario dipende anche dalla tradizione, il radicamento
della tradizione letteraria della lingua in cui si scrive è inevitabile.
Fino a che punto uno scrittore migrante, qualunque scrittore, si reinventa la
proprio tradizione. Scrittori migranti con esperienze comuni tentano di reinventare
la loro tradizione in una lingua che in un certo senso non gli appartiene che
però potremmo pensare che gli appartenga perché no? Julio
Monteiro Martins: La fanno o non la fanno volenti o nolenti, cioè
non esiste come non farlo! (ride) Kossi
Komla-Ebri: È un paradosso. Come le case editrici che mi chiedono
di scrivere un testo in Francese per poi tradurlo in Italiano!
Laura
Barile: Abbiamo messo in tavola tante cose. C'è il pericolo della
ghettizzazione, diciamo così come c'era per il primo femminismo e la scrittura
femminile che poi però ha smosso un problema in effetti. È verissimo,
come diceva Monica Dini, questo fatto della pluralità, è interessante
che restino tutte e due le cose cioè che non sia una voce monolinguistica
ma plurilinguistica e che dentro ci siano le varie esperienze e poi però
quello che vorrei dire è che la tradizione nel '900 non è più
italiana cioè Montale non viene da Pascoli o d'Annunzio, ma viene da Shelley
e il simbolismo francese, sempre in Europa d'accordo, però certi scrittori
degli anni '70 vengono da Borges e tutta un'area argentina e quindi è tuttavia
interessante la domanda: ma a voi, che scrittore italiano vi piace? E qual è
che avete letto? Però spesso per lo scrittore italiano, lo scrittore del
cuore non è italiano. Si inizia già alla fine dell'800 a cambiare
le carte in tavola. Gregorio
Carbonero: Però questa sorta di censura sulla scrittura migrante
pesa su valori formali, su valori di ritmo. Laura
Barile: Però è una novità. Gregorio
Carbonero: Beh è una novità, ma è una novità
che vorrei ribadire nel resto del mondo non è poi così tanto novità,
non è poi così tanto intollerata. Quindi credo che non vorrei centrare
il discorso sulla critica per il fatto che in Italia si accetti o non si accetti,
credo che quello che c'è di interessante è capire i motivi per i
quali esiste questo filtraggio, che cosa è questo filtraggio, quali sono
gli elementi che si antepongono alla letteratura per filtrare e cosa filtrano.
Secondo me si mette in evidenza l'organicità etica della scrittura o magari
riemergono a galla il rapporto della scrittura con la vita concreta, con l'esperienza
diretta, allora certi parametri della critica o della teoria letteraria che sono
stati vigenti fino adesso cominciano un po' a vacillare quindi non è un
problema non monolitico, capisco bene che il Montale non venga solo dalla letteratura
italiana però c'è un rapporto comunque conflittuale e dinamico perché
quando ci si chiede perché un testo vale dipende da quanto questo testo
sia stato in grado di generare un rapporto organico con gli altri testi dentro
la lingua in cui viene creato. Laura
Barile: Enzo Siciliano, che poi è morto, ha promosso una quinta
sezione del premio Viareggio, che se volete rischia appunto la ghettizzazione,
però di scrittori stranieri europei ed extraeuropei che scrivono in Italiano.
Il primo premio Viareggio della quinta sezione lo ha ottenuto Ornella Vorpsi
e l' ha voluto Siciliano. Ora forse ci sono voluti venti anni perché Siciliano
capisse che era importante. Arnold
de Vos: Un poeta che è stato citato qui stasera Gëzim Hajdarï
ha definito letteralmente Ornella Vorpsi una pseudoscrittrice, voglio dire in
tutte le letterature rimangono sempre questo tipo di scontri. Letteralmente
perché è in una lettera che mi ha scritto e la Vorpsi era stata
invitata a Trento per parlare della cosiddetta tratta e non si è presentata
e in quei giorni era in corrispondenza con Gëzim Hajdarï e lui si indignò
un po' per il fatto di aver invitato una pseudoscrittrice, insomma sarà
anche un ragionamento antidonna. Julio
Monteiro Martins: Queste cose piccole, questi pettegolezzi, dimostrano
forse che questa sta diventando una vera letteratura, perché tutte le letterature
le hanno avute, non è vero? Sono certe debolezze che l'umanizzano. Sospendiamo
per oggi qua, tra poco ci sarà la cena, ci vediamo domattina con Arnold
de Vos. Vi ringrazio tutti per oggi, è stato molto bello, e sarà
molto bello rileggere tutte queste discussioni sul sito tra due mesi. Grazie
a tutti voi, a domani. (Applausi).
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