| | VI° Seminario
Italiano Scrittori e Scrittrici Migranti |
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3°
giorno - Mercoledì 12 luglio ore 10,00 Sala Maria LuisaJulio
Monteiro Martins: È per me un grande piacere e un grande onore essere
qua assieme alla scrittrice Pia Pera in questo nostro ultimo incontro di questo
seminario. Pia Pera è una grande amica da molto tempo. È una persona
che ha viaggiato molto. In questa nostra iniziativa, come già ho spiegato
ieri, volevo ragionare insieme a voi sulla questione della letteratura contemporanea
in Italia. Mi piacerebbe che Pia Pera ci parlasse oltre che del suo percorso professionale
anche di quello personale, esistenziale che secondo me, da certi punti di vista
ha qualcosa in comune con la migrazione: Pia Pera ha infatti vissuto per un periodo
a Lucca, poi a Milano, a Londra e poi ha vissuto l'esperienza dell'espatrio e
in questa sua vita degli ultimi anni ha avuto un legame molto particolare e molto
bello con la natura. Ha scritto, infatti, dei libri in cui tratta proprio il suo
rapporto con la natura e questo dal punto di vista letterario è senz'altro
una delle caratteristiche di Pia. Ora passo la parola a Pia Pera. Grazie.
Pia
Pera: Grazie Julio. Io sono venuta qua senza preparare un discorso perché
sapevo che sarebbe stato un gruppo di "amici" con cui scambiare idee.
Quindi, mi ripromettevo di pensare insieme a voi su questo tema perché,
come ha detto Julio, è vero che c'è stata un'esperienza migrante
nella mia vita. Io ho vissuto la mia prima età adulta, quella della formazione
universitaria in Inghilterra e in quel periodo non pensavo che sarei mai tornata
a vivere in Italia. Ho vissuto poi due anni a Mosca dove ho anche studiato la
lingua russa. Non ho mai pensato di saperla molto ma comunque all'orizzonte vedevo
un futuro in Russia. E' stato molto importante per me viaggiare in quanto conoscere
nuove culture e lingue è un gradino che contribuisce alla formazione della
propria identità. E' però anche un percorso, intellettuale e spirituale,
che può portare alla non-identificazione. Vi raccontavo questo perché
ad un certo punto mi sono accorta che stavo perdendo la mia lingua italiana. Me
ne sono accorta quando stavo traducendo un testo russo del 1600 per la casa editrice
Adelphi e allora ho visto che sbagliavo l'uso delle preposizioni e che non me
le ricordavo bene. Dopo dieci anni di rifiuto psico-emotivo del mio paese di origine,
avevo veramente perso quella naturalità della lingua con cui uno parla
e scrive, magari facendo comunque errori ma presumendo di saperla; quindi stavo
perdendo la lingua e mi sono accorta che rischiavo di diventare una di quelle
persone nate da mescolanze che parlano male sia l'inglese che l'italiano e mi
sembrava una prospettiva spaventosa! Io non ero ancora una scrittrice professionista
a quel tempo: studiavo e traducevo; ho iniziato a scrivere arrivando in Italia
e questo probabilmente qualcosa significa. Mi ricordo che mi colpì molto
un'intervista a un regista che amo molto, Oscar Vissiliani, che si è anche
molto occupato di questi temi, non tanto della migrazione ma dell'impatto delle
varie culture l'una sull'altra e lui ha vissuto un po' di tempo a Parigi ed ha
detto che in realtà non si può essere mai veramente se stessi se
non nel proprio paese. Ora, a distanza di anni, questa affermazione è molto
discutibile, perché l'idea di paese, di mondo è molto cambiata.
Poi se ognuno pensa a quanto siamo simili, il mio volermi sentire in qualche modo
diversa è un po' prepotente, come è prepotente il voler diventare
qualcos'altro. La cosa mi ha colpito molto in quanto evidenzia l'importanza di
accogliere comunque l'italiano. Mi ricordo che anche i miei amici russi si sentivano
molto condizionati da questo fatto di essere "scrittori migranti" che
utilizzavano la lingua russa, che non era la propria lingua madre, per comunicare,
per scrivere e questo ci dava un dolore intenso perché aumentava la sensazione
che l'utilizzo non della propria lingua madre per scrivere fosse non una scelta
personale, quanto piuttosto un'imposizione dall'esterno. E'una cosa fastidiosa
perché non riesci mai ad essere anonimo come gli altri italiani che sono
veramente italiani. Ho quindi cominciato ad avere un forte desiderio di questa
condizione di anonimato che ti permette soltanto il paese di origine, dove sei
notato per altre cose che sono veramente tue e non per questa origine "etnica",
"tribale". Quindi mi vedevo molto nella condizione di non-libertà
in questo paese dove ero stata molto libera per altri versi e diversa per la lingua.
Per cui sono tornata in Italia e mi sono accorta che non era semplice, perché
non ero più italiana in qualche modo, non conoscevo nessuno in Italia perché
avevo davvero rotto i ponti ed è una sensazione simile a quella che prova
lo straniero che va in un paese nuovo, perché in realtà si è
diventati stranieri nel proprio paese. Questa è stata una nuova condizione
che mi sono trovata a sperimentare e non è stato facile. Ricordo che per
cercare lavoro mi sono presentata alla RAI con un curriculum e tutti mi ridevano
dietro perché alla Rai non si entra senza autorizzazioni o raccomandazioni.
Mi hanno comunque fatto un po' lavorare non assumendomi ma mi facevano fare delle
interviste qua e là. La titolare di un programma molto noto di Radio3,
e lei era divertita da questa cosa che avessi presentato un curriculum e ha cercato
di farmi fare un programma. Però c'era questa cosa e non c'è stato
verso perché c'è stato un salto di protezionismo etico però
per un italiano che studia all'estero e poi torna non è facile. Qualunque
italiano che studia all'estero e poi torna, non è gradito, perché
studiare all'estero non trasmette la cultura italiana. Infatti, ai concorsi arrivavo
sempre seconda e alla fine ho lasciato perdere. Margherita che ha fatto la stessa
cosa in Francia nella stessa situazione però ha ottenuto un lavoro in Francia.
Quindi in Italia è evidente che c'è un certo tipo di "Protezionismo". Arrivata
in Italia, comunque, ho lasciato un po' perdere il ruolo di studiosa e ho cominciato
a scrivere. Allora mi sono posta il problema se ero o meno veramente italiana
e mi sono resa conto di quanto siano veramente delle etichette queste definizioni
a cui a volte ci aggrappiamo. E nonostante questo però mi sono a lungo
chiesta in questa specie di limbo fra essere inglese ed essere italiana in che
lingua scrivere. Mi sono resa conto che volevo scrivere in italiano e questo è
ciò di cui vorrei parlare anche con gli scrittori migranti: perché
scrivere in una lingua diversa dalla propria lingua d'origine? Voi scrivete in
italiano e già questa scelta a mio parere è molto originale ma voi
mi dite che scrivete in italiano perché la considerate una lingua che ha
una sua particolare libertà nel mercato principale; io, invece, scrivo
in inglese e l'inglese è una lingua che, per esempio, ha molto mercato,
ha il mercato principale e io ho scelto di scrivere in quella lingua perché
in quel momento era la lingua che amavo. Un po' bastian contraria come sempre
volevo evitare l'italiano che credevo di non sapere bene e poi c'era anche un
senso di ribellione alla lingua straniera: perché devo per forza scrivere
in inglese, non volevo, sembrava troppo facile e volevo imparare a dire le cose
che amavo in inglese, però non volevo sottomettermi all'inglese. Volevo
riuscire a esprimere tutto questo "qualcosa" che è espresso anche
da Da Ponte e mi fa molto piacere perché Da ponte, per esempio, ha creato
un tipo di italiano che ha qualcosa a che fare con l'inglese, mi ricordo di alcuni
suoi testi che come ritmo, come velocità, come retorica ricordano l'inglese.
Ecco, anche io, un po' "dapontianamente" volevo riuscire a dire in italiano
tutto quello che avrei potuto pensare in inglese: volevo riuscire in italiano
a creare qualcosa che potesse funzionare a quel modo e, comunque, mi sembrava
un po' una resa arrendermi al ritmo dell'inglese. È proprio questo ciò
di cui vorrei chiacchierare oggi, cioè di questa esperienza dello scappare,
scappare dalla propria lingua d'origine. Julio
Monteiro Martins: Kossi ha detto ieri che lo fa molto bene ma malvolentieri. Pia
Pera: E perché lo fa malvolentieri? Julio
Monteiro Martins: Perché, secondo Kossi, le case editrici vogliono
imporre che lui presenti gli originali in francese per poi tradurli e ha difficoltà
a pubblicare anche i libri che sta scrivendo in italiano. Lui dice che non va
bene così e insiste per riuscire a presentare gli originali in italiano.
Dice che se lui li avesse voluti scrivere in francese lo avrebbe fatto forse meglio
di quanto non lo faccia in italiano. Pia
Pera: Quindi è anche un po' una ribellione alla lingua dominante
che è il francese. Sì, infatti sono d'accordo. Bisogna un po' ribellarsi
a questa visione delle lingue come entità separate e non integrabili e
che riflettono il ruolo del popolo che le parla. Nell'Italia stessa, l'italiano
è una lingua considerata "inferiore", di poco conto. E ci sono
degli italiani che si ribellano all'italiano e scrivono come io faccio in inglese,
utilizzando una lingua che conta, anche dal punto di vista commerciale. Perché
è così difficile tradurre l'italiano? Perché è una
lingua che da tante emozioni e per questo non si riesce a tradurre l'italiano
anche perché ci sono delle emozioni in inglese che non si riescono a tradurre
in italiano. Ed è anche bello tradurre l'italiano perché l'Italia
è un paese di piccoli migranti. Quindi questa eredità italiana
non vuol dire nulla, se ci pensiamo bene, perché è una lingua finta.
E comunque per i cittadini italiani stessi la lingua è il dialetto. Devo
ammettere che questa scelta linguistica è per scappare dalla lingua con
cui sono nata. Gregorio
Carbonero: Io sono nato con una lingua doppia: mia madre era di origine
italiana, i suoi genitori sono di origine pugliese e io sono nato in Venezuela.
Cosa è la lingua madre? La lingua madre è la lingua della sensibilità,
la lingua della materialità, la lingua di certi stati, di certi impulsi
dell'animo. Voglio dire che anche se la mia produzione è in lingua spagnola,
la lingua non è puramente un'architettura razionale. Quando una persona
vive in un paese, credo che venga un po' "colonizzato", che venga "invaso"
dalla lingua. Per quanto io possa ancora pensare in spagnolo, mi rendo conto che
alcune cose non riesco a pensarle in spagnolo e anzi in alcuni momenti ho bisogno
di parlare spagnolo mentre in altri momenti se parlassi in spagnolo non riuscirei
a costruire la mia soggettività. Tutto sommato, dopo aver trascorso un
po' di tempo in Italia, questa mia soggettività si è formata attorno
all'italiano. Dicevo ieri che da piccolo nella mia famiglia noi fratelli ci rifiutavamo
di parlare l'italiano perché era come sentirci separati, sentire l'imposizione
di una serie di cose che ci distoglievano dal rapporto con la realtà. Io
non credo che ci sia o una scelta o uno scarto ma credo che sia inevitabile perché
si riceve la lingua come si riceve il resto della materialità, della realtà,
l'aria, il colore, la luce o il temperamento della città dove uno vive.
Ci sono città che sono più nervose, più agitate, con più
traffico, con più conflitti e questo si riceve nella lingua, quindi è
impossibile pensare di parlare o scrivere una lingua. Facendo riferimento ai grandi
scrittori latino-americani emigrati in Francia, come Cortázar o Vallejo,
però loro si mantenevano attaccati alla loro lingua chissà con quanta
sofferenza o perché ne erano permeati, pervasi o magari rimanevano attaccati
alla lingua per una particolare costrizione, però io credo che difficilmente
si rimanga attaccati ad una lingua se tutto il flusso vitale, il ritmo della vita
accade in un'altra lingua. Apparte il fatto mio che io non saprei dire qual'è
la mia lingua materna: mia madre parlava italiano, con un dialetto e mio padre
parlava italiano con un altro dialetto. Mia madre, quando veniva in Italia, aveva
una strana reazione: parlava con gli italiani una specie di venezuelano distorto;
quando invece si trovava in Venezuela con degli italiani, succedeva tutto il contrario
e diventava anche difficile capirla perché aveva questa reazione di estraniamento,
una reazione di ricerca della propria identità. Non credo nello scarto
volontario della lingua, credo che sia invece una reazione di lotta, di confronto
con la lingua e lo scrivere è sicuramente un modo di confrontarsi con la
lingua, con le pulsioni vitali della lingua, con la materialità della lingua,
con il ritmo della lingua. Quindi come farlo se però uno non lo fa con
una lingua che percepisce tutti i giorni. Arnold
de Vos: Vorrei anche io dire una cosa, agganciandomi a quello che tu hai
detto. Naturalmente l'esperienza, credo, sia diversa per ognuno e anche il rapporto
con le lingue sarà diverso per ognuno, perché tu, per me, sei uno
di madrelingua, se lo vuoi riconoscere o meno, italiana e credo che tra scrittori
migranti ce ne siano tanti che hanno un rapporto piuttosto delicato con la lingua
italiana. Ci sono anche gli autori che sono andati in America e che sono tornati
(il mio traduttore è uno di questi) e come diceva la signora Pera, afferma
di aver perso il contatto con l'italiano e tutte le sue traduzioni sono da riconsiderare
perché manca un elementare lessico italiano. Per quanto mi riguarda, credo
che l'argomento dell'essere colonizzati dalla lingua che uno giornalmente sente
parlare intorno, non funzioni. Insomma, evidentemente non sono stati colonizzati.
Perché ho ripreso a scrivere in seguito, dopo essere stato per anni, molti
anni, in Libia in campagna e quindi sentivo parlare arabo intorno a me e lo stavo
apprendendo con agilità per parlare e per comunicare. Ma in quel paese,
ognuno, se può ricevere un'educazione scolastica, si esprime in francese,
ed è una lingua che parlavo giornalmente lì anche per combattere
la solitudine, perché mia moglie in inverno tornava in Italia per un corso
universitario e io rimanevo sul posto. Ho parlato molto il francese in una situazione
simile a quella in cui si trovava la signora Pera a Londra, visto che io mi trovavo
a Parigi, intorno agli anni '75 e riuscivo in quel momento a scrivere anche in
francese perché vengo da una civiltà olandese abbastanza colonizzata
dalla cultura francese. Quindi il risultato di questo si può vedere nell'ultima
sequenza di poesie nell'ultimo mio libro, uscito recentemente, "Merore",
perché c'è una sessione in francese che di certo è ispirata
a Borges, ma quello che volevo dire è che mentre stavo in un ambiente arabofono
e parlavo per necessità della vita, il francese in continuazione, senza
che ci fosse un italiano intorno, mi è venuta una voce da lontano che mi
dettava in italiano le cose che ho cominciato a scrivere e quindi assolutamente
è impossibile ipotizzare il fatto di una colonizzazione da una lingua che
senti parlare sempre intorno. Può anche essere perché l'uomo è
una spugna che assorbe la lingua del luogo in cui sta, ma per me scrivere è
piuttosto trascrivere quello che mi sento di dire, e chi parla sarò io
ma non posso saperlo assolutamente, quindi scrivo "sotto dettatura".
Si parla anche di scrittura automatica, non cambio quello che scrivo, non modifico
niente, accetto la forma e tutto questo in italiano e non in olandese perché
utilizzo la lingua che sento parlare attorno a me e quindi, rientrato in Italia,
ho semplicemente continuato a battere la stessa strada e quindi quello che sento
intorno a me credo che sia piuttosto "in me". Però, come dicevo,
ognuno ha un'attitudine diversa, individuale verso la scrittura. Julio
Monteiro Martins: Volevo trattare questo argomento, che non so quanto
sia appropriato al concetto di colonizzazione in questo caso, perché quello
che mi fa capire la mia esperienza personale e anche quella di tanti altri autori
cosiddetti "migranti" è che è tutto un atto d'amore e
questa è una questione così importante, così traumatica che
il titolo di uno dei miei libri è proprio "Madrelingua". È
una questione molto seria il fatto dell'abbandono della madrelingua. Mi ricordo
che una volta mi hanno fatto questa domanda: - Ma perché lei non scrive
nella sua prima lingua?- e la mia risposta immediata è stata: - Ma io scrivo
nella mia prima lingua!- La mia prima lingua è l'italiano, la lingua in
cui io m'innamoro , in cui io dico parolacce se mi faccio male, cioè la
lingua della vita; l'altra è la lingua della memoria. E questo concetto
di prima lingua mi è venuto spontaneo in un modo molto forte, cioè
non ho dato per scontato che la prima lingua è la lingua dell'infanzia.
Mi ricordo che, in uno dei nostri seminari, uno scrittore algerino che alla domanda:
- Perché sei venuto in Italia?- ha risposto: - Perché sono da sempre
stato così innamorato della lingua italiana attraverso le poesie di tanti
autori entrati nella mia memoria che per tanti anni ho avuto il sogno di realizzarmi,
essendo fisicamente presente, nei paesi in cui quella lingua era parlata. Quindi
non si può parlare di colonizzazione in questo senso: se, per esempio,
consideriamo un uomo innamorato di una donna, che pensa continuamente a lei, che
vive con lei ed è felice con lei, dovremmo dire che quest'uomo è
stato "colonizzato" da lei? Invece è innamorato di lei e basta;
penso che questo sia il rapporto che trovo molto spesso negli scrittori. Un paragone
divertente e anche un po' curioso, che mi è venuto così, è
che, in certi casi, il primo matrimonio non è quello vero, quello che rimane,
quello riuscito, ma è un matrimonio fatto a volte quando si è troppo
giovani, con una persona che si credeva diversa da quella che si è mostrata.
Poi, spesso, è nel secondo matrimonio che si fa una vera famiglia, cioè
è il secondo matrimonio quello veramente riuscito. Ecco uno può
pensare anche ad avere un matrimonio riuscito con la seconda o terza lingua della
sua esistenza. Pia
Pera: Mentre vi ascoltavo, ho trovato molto bella questa posizione di
ascolto, bella questa sensibilità della vitalità della lingua e
anche questo amore per la lingua. Mi sono chiesta se, durante un ascolto in uno
stato di abbandono a quello che si ascolta, senza darsi regole, come a volte si
fa quando si scrive, non verrebbe poi fuori in me e forse anche in voi una lingua
mescolata, perché se io dovessi veramente esprimere tutta la gamma di emozioni
anche un po' mistiche, io so che scriverei un po' in italiano e un po' in inglese.
Credo che sia qualcosa che nasca dalla molteplicità linguistica che noi,
che siamo un po' tutti mescolati, abbiamo. C'è stato un momento in cui
amavo veramente l'inglese. C'è un test che sempre mi mette in crisi
ed è il leggere a voce alta. Non so come è per voi ma io non ho
nessuna difficoltà a leggere in pubblico a voce alta in inglese anche se
a volte sembro una russa, invece ho delle difficoltà a leggere a voce alta
in italiano, forse perché l'italiano è una lingua più anchilosata.
Ecco, volevo chiedere a voi come è per voi il leggere a voce alta. Julio
Monteiro Martins: Evidentemente noi leggiamo con i nostri accenti nazionali
esteri, con la musicalità brasiliana, olandese o spagnola, e quindi è
anche questo uno spettacolo. Pia
Pera: Ma io non volevo dire l'accento ma intendevo la facilità
con cui si legge in una lingua, leggere nel senso di riuscire a leggere bene. Arnold
de Vos: La mia risposta è molto breve perché avete già
risposto: per me l'oralità è qualcosa di esterno a me e quindi quando
leggo non provo più imbarazzo perché non è la mia voce a
leggere e quindi quello che lei prova, io non lo provo. Gregorio
Carbonero: Per me sia scrivere che leggere a voce alta richiede una particolare
disponibilità. Forse la posizione è motivata anche dal fatto che
in fondo, come diceva Arnold, considero l'italiano un po' come una componente
della mia lingua madre e non posso negarlo. Quindi leggere a voce alta o scrivere
è come ritrovare una parte di un personaggio, una sorta di fantasma che
si propone. Io ricordo che in una presentazione di un'antologia c'era una ragazza
peruviana che mi chiedeva: "Ma quando tu scrivi, non ti senti un'altra persona?
Come fai a sentirti te stesso se scrivi in italiano?" E io ho risposto:
"Infatti mi sono molto inibito di presentare i miei testi perché mi
sembrava che ci fosse qualcosa di fasullo, di impostato, probabilmente di non
sincero e sicuramente per me la sincerità nello scrivere è una premessa
di qualità ( sincerità nel senso di sincerità verbale, sincerità
di stile o di ricerca verbale) ed è qualcosa che ha a che vedere con la
limpidezza morale dello scrivere. Io, quindi, ritorno sulla mia opinione: sempre
mi sento un po' invaso da una presenza esterna, quindi sia che io legga, sia che
scriva, non riesco ad avere una posizione chiara, univoca. Quando parlavo di "colonizzazione",
volevo mettere in rilievo l'aspetto preverbale, inconscio, "pre-cosciente"
della tessitura dell'idioma. Credo che sia inevitabile sentire come l'idioma prenda
in qualche modo possesso di noi: dubito un po' che sia solo per amore o solo per
scelta; credo, facendo riferimento a quello che diceva Arnold, che si debba aggiungere
un ingrediente: il senso di non-ritorno. Quando vi è quel senso di non-ritorno,
quando accade questo momento in cui si crede che non si tornerà più
indietro all'altra patria o all'altra lingua, allora credo che ci si renda più
disponibili a questo arricchimento, a questa invasione musicale, ritmica o materiale
o pre-verbale dell'idioma, che non chiamerei colonizzazione. Julio
Monteiro Martins: Mentre parlavi, pensavo agli studi di Lacan sulla questione
della lingua, e lui affermava che la lingua non è qualcosa di estraneo
a noi ma essa costituisce il corpo, la materia di cui siamo fatti, di cui è
fatto il nostro inconscio. Ma io vi chiedo: quando uno cambia lingua non ci sarà
anche un cambiamento di carattere, sarà che la lingua, in qualche modo,
non è in grado di promuovere un cambiamento caratteriale della persona? Interviene
dal pubblico Barbara Pumhösel: Volevo dire qualcosa riguardo alla
scelta della lingua o la non-scelta. Forse uno scrittore di prosa può veramente
scegliere liberamente, perché con questa scelta, affiora un personaggio,
affiora la trama come una idea e posso decidere razionalmente se scrivere in una
lingua o in un'altra. Mentre per quanto riguarda la poesia, c'è un poeta,
di cui non ricordo il nome, che ha detto che il primo verso che arriva è
un dono e poi il resto è un lavoro duro di ricostruzione intorno. Arnold
de Vos aveva detto che a lui arriva già tutta la poesia come se fosse dettata
da qualcun altro. Io, però, non ho scelta quando mi affiora il primo verso
in italiano, un verso qualsiasi, gli altri li devo costruire in relazione a quello.
Spesso, infatti, ci metto mesi, perché guardo ogni parola da tutti i lati,
tocco, tasto, non sono mai molto sicura, anche perché quel primo verso
è legato a un'immagine. Lo scrivere è un tentativo di arrivare con
le parole il più vicino possibile a quell'immagine, ma comunque quell'immagine
è legata a dei suoni che sono di una lingua o di un'altra. In più,
spesso, credo anche che la lingua di arrivo, o la lingua quotidiana attuale, o
la lingua di tutti i giorni, la lingua del paese nel quale ci siamo trasferiti
è uno strumento per trattare certi temi: secondo me ci vuole sostanza per
poter scrivere, mentre nella prima lingua forse ci si sente ancora troppo coinvolti
e allora non si riesce ad avere quella distanza necessaria per creare qualcosa
di letterario. Una seconda lingua può veramente essere un filtro in più
per essere più precisi, anche se non si padroneggia la seconda lingua come
la prima. Poi, come ultima cosa, volevo dire che per quanto riguarda la mia prima
lingua, forse perché sono una ex-mancina, forse vedo sempre due lati, forse
sono sempre indecisa, vedo la mia prima lingua, che non è poi la mia prima
lingua perché c'è un dialetto prima che mi sembrava arricchito di
altre lingue ( i dialetti austriaci hanno residui di latino, di gotico, di longobardo,
di molto yiddish e di molto slavo, perché c'è tutto un sostrato
della monarchia. Mentre la lingua tedesca è stata "purificata"
durante il Nazismo, nei dialetti è sopravvissuto tutto. Nei libri di testo
dopo la guerra è una lingua quasi a sé, se non si guarda la letteratura,
mentre nei dialetti c'era una ricchezza incredibile, con questa mescolanza di
altre lingue che formano il sostrato. La mia prima lingua, cioè il tedesco,
è ancora come una scatola di latta chiusa, una scatola non aperta da tanto,
ma io ho ancora l'impressione di poterla aprire, anche se magari non saprei dove
andare ma ho ancora questa illusione della possibilità. Così come
ho sempre avuto l'illusione di tornare indietro e poi non l'ho mai fatto. Pia
Pera: Per me le cose che ha detto Barbara Pumhösel sono molto interessanti.
Una è questa idea della lingua, che non è la propria prima lingua,
che diventa uno strumento di maggiore consapevolezza e di libertà al tempo
stesso. Come tu hai detto, è un momento in cui si ascolta e in cui si è
liberi dalla morsa della propria lingua natale. Questa è una cosa interessantissima,
cioè questa ricerca di libertà e allora, si usa un'altra lingua
e ci si sposta in un luogo dove si parla un'altra lingua e questo luogo diventa
un posto in cui riuscire a "svuotare le orecchie" per ascoltare qualcos'altro
e questo mi sembra un concetto molto bello che ci aiuta anche a capire il motivo
di certe scelte che possono sembrare irrazionali o casuali. L'altro fatto che
ho trovato interessantissimo è quello che succede quando uno ha paura della
propria lingua natale, di questa scatola chiusa in cui non si sa cosa c'è
dentro. Questa è una paura che ho provato anche io e se non ho voluto scrivere
in italiano è stato perché io avevo una parola folle dell'italiano
perché era la lingua di tante cose che io non amavo, di tante cose della
cultura italiana che ora più che mai detesto e sono tornata con la speranza
che l'Italia fosse diventato un paese un po' diverso, ma ora mi rendo conto che
è uguale a come era quando lo ho abbandonato, se non addirittura peggio.
Siamo ad un livello adesso da mettersi le mani nei capelli! E allora questa paura
della lingua natale io la capisco benissimo, però io proprio per questo,
ho voluto entrarci dentro perché avevo bisogno di immergermi nella mia
lingua natale. Tornando a ciò che dicevo prima riguardo al leggere, mi
ricordo che quando sono tornata in Italia molto tempo fa dopo aver passato fuori
il periodo fra i 20 e i 30 anni d'età, che è un periodo formativo,
e questa cosa del leggere in italiano era una cosa impossibile per me (ovviamente
ora ho superato questo problema). Questa paura della lingua d'origine è
interessante e forse bisognerebbe ogni tanto sollevare il coperchio di questa
scatola che mette tanta paura! Trovo molto bello vedere questi scrittori di origine
"nazionale" diversa fra loro che ascoltano e capiscono tutti l'italiano:
questo dimostra davvero la grande possibilità della lingua italiana di
venire appresa e udita, perché queste sono persone che hanno "scelto"
questa lingua, una lingua che per me è stata una scatola chiusa che ho
aperto a fatica, e che consideravo una linguaccia. Ecco, da voi che avete scelto
l'italiano per scrivere, secondo me, può venire veramente un grande desiderio
di rinnovamento della lingua italiana attuale che spesso sembra essere spaventosamente
incolta, se pensiamo ai media, per esempio. Arnold
de Vos: Julio ha detto che con il cambiamento di lingua principale, la
lingua che si usa giornalmente anche per la scrittura, forse si potrebbe ipotizzare
un cambiamento di carattere. Vi rispondo per le rime: con mia moglie, noi abbiamo
continuato negli anni che siamo in Italia, che ormai sono quasi trenta o quaranta
forse, a parlare la lingua olandese e ci siamo accorti che siamo diventati un'isola
linguistica perché la lingua olandese in Olanda è, come l'inglese
in Inghilterra, in rapida evoluzione, e la nostra è rimasta la lingua di
un tempo. Infatti, gli olandesi che ci sentono parlare si stupiscono un po' non
per certe espressioni ma soprattutto per il linguaggio grammaticalmente molto
corretto che noi utilizziamo fra di noi e ci sarebbe anche la possibilità
di trascendere. Però, visto che ormai da quaranta anni non scrivo più
niente in olandese, non mi sento una persona diversa quando parlo con mia moglie
o quando scrivo in italiano. Per me, quindi, non c'è e non c'è stato
un cambiamento caratteriale ma forse vuol dire che ho una personalità molto
forte ma comunque il dato di fatto è che non c'è stato in me un
cambiamento di carattere. Gregorio
Carbonero: Volevo riprendere da ciò che Julio diceva. Se ricordiamo
quello che dice Derrida: "Non ho che solo una lingua e non è la mia";
io invece credo che nella lingua ci sia una tessitura emotiva che avvolge il soggetto,
quindi non credo che si possa cambiare il proprio carattere, il proprio temperamento
o le proprie inclinazioni personali, però credo che si apra uno spazio
emotivo diverso. Anche io sono stato inquinato dalle letture di psicoanalisi di
Lacan e volevo ricordare una piccola cosa: Lacan dice che l'Inconscio non è
una materia caotica come per il freudianismo classico che riteneva necessario
portare a galla questa materia in stato caotico, amorfo, per purificarla. Lui
dice che questa materia che è nel fondo dell'inconscio, deve rimanere lì
e deve essere semplicemente articolata grammaticalmente. Io credo che esista un
trasfondo del soggetto e un trasfondo dell'idioma che entrano in conflitto o in
collisione o in armonia. In pratica credo che sia un rapporto della soggettività
con questa "materia madre". Questa materialità materna o pre-verbale
o pulsante o funzionale che esiste nell'idioma, secondo me, tende a modificare
la sensibilità di chi ne è invaso. Pia
Pera: Ad un certo punto a me piacerebbe, perché scrivere in una
lingua diversa da quella nativa, lo fanno sia i traduttori che le persone immigrate
in un paese. Era una piccola riflessione che voleva essere ironica. Avevo una
domanda riguardo al lavoro che lei fa con gli immigrati che non sono scrittori:
vorrei sapere qualcosa di come loro vivono la lingua. Interviene
dal pubblico Patrizia Pugliese: Io lavoro in un centro di formazione professionale
per persone immigrate, in particolar modo donne. Per me sono state molto interessanti
le considerazioni che ho sentito, proprio perché, lavorando con queste
persone, mi sono resa conto di come nella lingua si viva una grossa conflittualità.
Attraverso la lingua si stimola la conflittualità nei confronti del paese
ospite, tant'è vero che ci sono persone che parlano l'italiano a malapena
pur vivendo in Italia da molti anni, così come c'è anche l'atteggiamento
opposto di persone che hanno reciso i legami con il proprio paese d'origine e
hanno abbracciato in pieno la lingua e non solo del paese in cui sono arrivati.
Io devo dire che ho riscontrato la cosa che diceva prima Julio e cioè che
attraverso l'acquisizione o meno di una lingua ci possa essere anche la paura
di cambiare o meno i propri costumi, i propri usi, il proprio stile di vita e
quindi la paura di perdere la propria identità. Ora, le considerazioni
che mi venivano in mente, ascoltandovi oggi e anche negli altri giorni, riguardano
il fatto che le persone non di madrelingua italiana che però scrivono in
italiano, non lo facciano per dimostrare una padronanza della lingua, cosa che
mi ero chiesta, perché soprattutto lo scrittore del Togo che c'era l'altro
giorno, diceva come la padronanza perfetta della sintassi non fosse poi l'elemento
fondamentale, così come anche non solo per comunicare, perché per
quello basta la padronanza della lingua che ti permette di scrivere su un giornale,
ma non necessariamente di fare letteratura. Allora, la cosa che più mi
interessava era la considerazione che avete fatto oggi, cioè dello scrivere
in un'altra lingua come "atto d'amore". E però non mi sembrava
neanche in contraddizione con quello che diceva prima il signore quando parlava
di "colonizzazione", anche se per noi la parola "colonizzazione"
ha assunto un significato negativo e violento; mi sembrava proprio un atto d'amore
nel senso di lasciarsi invadere, lasciarsi prendere, lasciarsi andare; però,
allo stesso tempo è un atto di amore, come forse sempre sono gli atti d'amore,
in cui c'è un'evoluzione e quindi non come qualcosa che recide con il proprio
passato, che forse era un pò la sensazione che mi dava prima Pia Pera,
quando parlava del suo rapporto con l'inglese, quanto come un atto d'amore in
cui c'è una compresenza di più identità e quindi tornava
anche il discorso della poetessa prima quando parlava della possibilità
di utilizzare la lingua come filtro. Vorrei porre una domanda a tutti voi che
fate questo mestiere: voi considerate l'uso di una lingua come qualcosa da cui
continuamente apprendere, quindi come atto conoscitivo o come atto d'amore nel
senso di lasciarsi andare alla lingua, di farsi dominare da essa? Julio
Monteiro Martins: Credo che lei abbia colto proprio nel segno. In una
lingua nuova ci sono non solo gli stessi concetti con altre parole, ma ci sono
anche concetti totalmente nuovi. Questo è un immenso arricchimento della
soggettività. Per esempio, mi sono accorto che la parola "americanata"
esiste solo nella lingua italiana e non ho mai sentito una parola che abbia quel
tipo di significato in nessun'altra lingua; è una parola che esiste solo
in italiano e non saprei proprio trovare un suo equivalente né in inglese
né in portoghese. Quando ho sentito per la prima volta questa parola e
l'ho capita, mi sono arricchito di una nuova possibilità espressiva che
non avevo prima. Ma ci sono anche altre piccole cose. Pia
Pera: C'è da riconoscere che la lingua italiana è geniale
per queste cose.
Julio
Monteiro Martins: C'è anche la parolina "mica", per esempio:
"non ho mica detto questo". In italiano c'è la possibilità
all'interno di una frase di rinforzare il negativo. In portoghese non c'è
questa possibilità. Quindi ci sono queste piccole cose che senz'altro amplificano
l'universo psicologico e non solo linguistico di chi apprende una lingua straniera. Pia
Pera: Per questo le lingue hanno parole che sono intraducibili! Arnold
de Vos: Questi giochi linguistici li avete anche voi, secondo me, anche
se magari su un altro livello, in un altro sistema. Il concetto dell' "Americanata"
a me pare strano che non sia venuto in nessuna mente brasiliana, perché,
insomma, avete sofferto più voi che noi. Isabel
Ruiz: In determinate situazioni, emotive o vivenziali, esiste una parola
particolarmente adatta a quella situazione che è proprio quella italiana,
oppure quella spagnola, oppure quella inglese e a volte a casa siamo sempre attenti
a preservare la nostra lingua madre, non usando termini stranieri, ma a volte
noi scherzando mettiamo quella parola in italiano perché non né
esiste un'altra per quella situazione lì, emotivamente parlando. Interviene
dal pubblico Giovanna Zunica: Io ho una lingua sola, ne conosco altre
ma non ho mai avuto il problema di dover scegliere la lingua nella quale esprimermi.
Mi ha colpito prima quello cha Pia Pera ha detto sul fatto che l'italiano è
una lingua finta, perché per me è la lingua vera. Premetto che non
ho e non ho mai avuto un dialetto. Io sono nata in un periodo in cui non era accettabile
che nelle scuole e nelle famiglie si parlasse il dialetto; è stato recuperato
molto tempo dopo. Io sono nata nel 1959, "in giro per l'Italia", però
solo successivamente si è riaffacciata l'idea che i dialetti fossero qualcosa
da recuperare. Quando io ero bambina c'era una specie di censura, il dialetto
era qualcosa da povera gente e per me, quindi, l'italiano è la lingua vera
e mi ha colpito perché io non saprei dare dei numeri, delle percentuali,
non so come altri italiani della mia età e di altre età vivono questa
cosa; comunque per me l'italiano è la lingua vera. Ciò nonostante,
e mi riallaccio a quello che diceva (Isabel Ruiz), ho sempre sperimentato come
ogni lingua esprimesse meglio certe cose invece di altre, per cui, a me che non
ho il problema del bilinguismo, certe cose viene da pensarle in altre lingue,
sia concetti che parole. Farò un esempio molto sciocco: secondo me una
parola che descrive meglio di tutte quelle che conosco in altre lingue l'oggetto
che adesso vi dico è "mariposa": non c'è nessun altra
parola ("farfalla"-"papillon"-"butterfly") che esprime
la stessa idea data dalla parola spagnola, pur essendo tutti nomi evocativi; secondo
me quando si dice "mariposa", la farfalla sta già volando. Mi
ha sempre dato questa sensazione anche se non conosco lo spagnolo. Mi capita di
avere questo rapporto con altre lingue, di più con l'inglese che conosco
meglio dello spagnolo, o con il francese. Poi, confrontando le cose che avete
detto da prospettive diverse, quello che io trovo in comune nella scelta di adottare
l'italiano come lingua letteraria, è il fatto che vivete tutti in Italia,
cioè è la lingua nella quale parlate tutti i giorni, la lingua che
utilizzate nella comunicazione di tutti i giorni. Ricordo di un amico inglese
che, avendo girato per il mondo, mi diceva che ad un certo punto incontri una
lingua con la quale hai una specie di idillio e scegli quella perché senti
che è quella nella quale ti esprimi meglio che in altre. Io non lo so perché
non l'ho sperimentato direttamente. Julio
Monteiro Martins: Una cosa che noto tra i miei allievi dell'università:
sempre all'inizio del primo anno, spiego i mesi dell'anno, le stagioni e i periodi
del giorno in portoghese. In portoghese c'è un nome specifico per definire
l'arco di tempo tra mezzanotte e i primi albori del mattino: questo nome è
"madrugada", anche in spagnolo e visto che qua si dice "notte inoltrata",
"ore piccole", perché non c'è una parola specifica, quando
si scopre che invece in portoghese quella parola esiste, vedo gli occhi dei miei
studenti che brillano. Poi ho scoperto che qua a Lucca dei giovani che hanno studiato
a Pisa hanno creato una banda di Rock e l'hanno nominata "Madrugada".
Quindi si vede che questa parola è stata per loro un arricchimento di un
concetto venuto da un'altra lingua. Barbara
Pumhösel: Sentendo questi concetti che tu, Julio, hai espresso, come
il concetto di "americanata", per esempio, mi è venuta in mente
una parola che non saprei come tradurre in nessun altra lingua: il "mulachak",
che è una parola ungherese che si dice nel dialetto viennese ed è
una festa esagerata, un eccesso, una festa dove si fa troppo di tutto e noi usiamo
questa parola per quelle feste che arrivano fino alla mattina dopo. È solo
un aneddoto ma è una parola che mi viene da utilizzare anche in italiano,
quando bisogna fare qualcosa di esagerato per festeggiare, che è una parola
che fa ormai parte del dialetto austriaco dei paesi dell'est più vicini
alla Svizzera. Per quanto riguarda il dialetto, Giovanna ha detto che il dialetto
è stato recuperato più tardi e vuol dire che chi parlava dialetto
prima e arrivava a scuola solo conoscendo quel dialetto, quasi viveva quella situazione
di bambino immigrato, perché arrivare in prima elementare parlando un dialetto,
mentre tutti parlano una lingua ufficiale, porta automaticamente quel bambino
ad essere emarginato (so che questo succede anche in Italia). Penso che il dialetto
sia una barriera per l'accesso allo studio. Interviene
dal pubblico Silvia Mencarelli: Io volevo fare un intervento. Quando ero
piccola, a due anni, quindi nel periodo in cui si comincia a parlare la lingua
ero negli Stati Uniti, precisamente in California, e lì ho iniziato a parlare
inglese. La mia prima lingua è stata quella. C'è un episodio, che
ovviamente mi è stato raccontato, accaduto quando sono tornata in Italia.
Io sono stata "zittissima" per un lungo periodo, perché dovevo
captare tutte queste diverse sonorità e comunicavo con le altre persone
parlando inglese e, per esempio, la mia nonna non mi capiva e allora mi ricordo
questo episodio: io chiedevo alla mia nonna di portarmi un orsetto in inglese,
dicendole: "I want my bear! I want my bear!" e la mia nonna mi portava
il bicchiere dell'acqua e quindi è proprio dall'inizio della conferenza
che penso a come la tua lingua, in realtà, è quella del paese dove
vivi e non è quella d'origine ma è quella del contesto culturale
in cui uno cresce, quella che si sente parlare. Ciò che mi ha più
colpito in questa conferenza è che ciò che accomuna quasi tutti
voi è il fatto di aver acquisito una lingua, che per voi era inizialmente
una lingua straniera, perché, in realtà, non è la lingua
del paese della nascita, che è poi diventata la vostra prima lingua. E
voi la considerate come la vostra prima lingua, perché è quella
che maggiormente usate. Questa è una cosa che mi ha colpito anche perché
oltretutto sto preparando un esame che ha a che fare con l'apprendimento della
lingua. Patrizia
Pugliese: Mi sembrava molto importante quello che tu dicevi. Tu affermavi
che la lingua è quella del paese in cui si vive però tornando alla
mia esperienza con le persone immigrate, è proprio su questo punto che
si verifica tutta la conflittualità, perché chi ha come progetto
di vita la possibilità di un ritorno, spesso e volentieri non accetta la
lingua del paese in cui transitoriamente si trova a vivere, oppure anche se la
possibilità del ritorno è stata accantonata, ci può essere
il desiderio molto forte di rimanere al proprio paese. Io credo che questa è
anche l'esperienza delle persone italiane emigrate negli USA o in altri paesi
e che non hanno appreso la lingua del paese dove poi si sono trovate a passare
tutto il resto della propria vita. Proprio per questo, secondo me, l'esperienza
di voi che fate questo mestiere è molto importante perché probabilmente
è la testimonianza di come si possa acquisire una lingua senza che ciò
ti accompagni alla perdita della propria identità ma andando, invece, verso
un arricchimento. Secondo me, proprio in questo c'è il nucleo fondamentale:
l'esperienza attraverso cui voi siete passati e passate è la testimonianza
di come essa possa creare un cambiamento nelle persone. Arnold
de Vos: Vorrei dire una cosa che forse fin'ora non è stata detta
in questo modo, perché io certamente non l' ho detta. Si è parlato
di "scelta", io stesso ho parlato di scelta. Sembra un fatto molto positivo,
invece può essere tutto il contrario. Proprio quando io andavo via, usciva
nel mio paese una mia traduzione in olandese di Vittoriani del Sempione che strizza
l'occhio al Fregius, in cui uscivano le mie "Corrispondenze", una raccolta
di poesie e anche un libro in prosa. Era il 1967, l'anno prima del fatidico '68.
Sono arrivato in Italia e certamente avevo una sensazione del non-ritorno, c'era
la volontà del non-ritorno, il che è tutt'altro che una scelta di
vita. Allora per uno scrittore, io ero già un autore in quel momento, ci
vuole, a seconda naturalmente della personalità, molto autocontrollo. Posso
dirvi che, sapientemente e coscientemente, mi sono costretto a non scrivere niente
più nella mia lingua d'origine per sette anni interi. Voglio dire con questo
che, coscientemente e volutamente, ho fatto morire la mia lingua di espressione
e poi, probabilmente, ero pronto per cominciare a scrivere in italiano, perché
in quel momento vivevo in Italia, ma non so se anche per altri autori esista questo
fenomeno del lasciar morire, perché naturalmente è un fenomeno che
ha attinenze con il suicidio e io ho praticato anche il suicidio. Pia
Pera: Per me sicuramente, l'atto di voler far morire l'italiano è
un atto di suicidio e poi, però, ho voluto farlo resuscitare. E poi volevo
dire anche un'altra cosa perché si parlava di arricchimento, di ascolto,
di conflittualità nella lingua e si parlava anche di atteggiamento. Secondo
me c'è un'altra cosa ancora che volevo raccontarvi: una cosa è il
parlare nella propria lingua che diventa la lingua del paese in cui si vive (lo
diventa di fatto, lo diventa perché è la lingua in cui si ascolta).
Però in un mondo ideale, pubblicano quegli scrittori che hanno qualcosa
da dare: quando uno scrive, scrive perché ha qualcosa da dare, nell'ambito
della lingua in cui scrive. Ha scelto di entrare nella storia, nella vita di questa
lingua; però a questo proposito mi viene in mente un mio amico russo-ebreo
che sta a Lucca, che è un bravo scrittore che, però, non ce l'ha
mai veramente fatta ad "arrivare", perché, secondo me, è
rimasto bloccato tutta la vita in questo corpo stilizzato. Lui è rimasto
molto legato al russo, pur vivendo a Londra e parlando bene l'inglese, ma il russo
ancora più correttamente e ha sempre raccontato in modo umoristico, intelligente
e anche curioso, il fatto di essere un russo con la cultura russa in Inghilterra.
Solo adesso, a distanza di più anni, ha deciso di provare a scrivere in
inglese ma, secondo me, forse anche con un motivo sbagliato, che è il motivo
strumentale di allargare il proprio pubblico. Uno scrittore non dovrebbe mai scegliere
una lingua per motivi economici, come io ho rifiutato di scegliere l'inglese perché
non volevo che il motivo fosse di avere un pubblico più grande. Uno scrittore
non dovrebbe mai scegliere una lingua perché spinto da un motivo utilitaristico,
ma la dovrebbe scegliere perché sente di essere arrivato a un punto che
oltre a ricevere, può anche dare qualcosa alla lingua che ama. Uno ama
la sua lingua al punto di poterle dare qualcosa, quindi questo punto va considerato,
cioè il fatto che la lingua serve per esprimere se stessi come esseri umani.
Gregorio
Carbonero: Io ricordo che ieri Julio parlava di lutto, poi oggi sento
Arnold che dice di aver lasciato morire la sua lingua, poi sento il rifiuto che
Pia ha avuto della lingua italiana, poi mi risulta molto interessante l'esperienza
che raccontava lei ma io ritorno sul punto: cosa è la lingua madre? Quanto
si può essere fedeli alla lingua madre e quanto la lingua madre stessa
non sia, come già Derridat ha detto, un percorso, un senso di alterità,
di rifiuto, di collisione, etc. Riallacciandomi a quanto diceva Pia e toccando
anche il discorso di "dare qualcosa" e probabilmente anche di dare qualcosa
che implicitamente significa anche un criterio di qualità letteraria, io
direi che è lì che si tocca uno dei problemi chiave: il rapporto
con la tradizione. Quanto conta il rapporto con la tradizione? Quanto è
importante capire la tradizione, assimilare la tradizione? Credo che assimilare
la tradizione sia in un certo senso re-inventarla, perché la tradizione
non è sempre la stessa: per gli scrittori degli anni 70, la tradizione
era qualcosa, per gli scrittori di un altro periodo era magari qualcos'altro.
Allora, come si fa ad assimilare, a capire, ad integrare una tradizione alla luce
di un effetto profondo che è quello di poter assimilare o far crescere
la propria lingua nell'ambito di un'altra lingua. La lingua-madre non penso sia
una cosa che è rimasta fatalmente quella e quindi poi non ci sia più
niente da fare. La lingua-madre, anche nei madrelingua puri, cresce, si evolve,
diventa uno spazio di conflittualità, di alterità, di estraniamento.
Questo credo che sia stato studiato. Per uno scrittore migrante, inserire la propria
esperienza di alterità nel proprio esprimersi in un'altra lingua, vuol
dire anche inserirla in un'altra tradizione. A me risulta difficile da capire
e da interpretare come si può fare a stabilire un criterio di essenzialità
nella scrittura: cosa è essenziale nella scrittura? Perché magari
uno ha molto talento verbale, scrive una cosa e finisce per scoprire l'acqua calda
o vuole ripetere tutta la tradizione poetica del Novecento da solo, perché
si ritrova a non poter assimilare tutto quello che si è fatto prima e semplicemente
lo vuole rifare. Questa, mi pare, possa essere una situazione stagnante, un pericolo. Interviene
dal pubblico Vera Horn: È solo una piccola cosa che mi sono ricordata.
Io, essendo immigrata in Italia ormai da quasi sei anni, mi sentivo un po' spaesata.
Leggendo "Lost in Translation" di Eva Hoffman, che è polacca,
emigrata da bambina negli Stati Uniti, in Canada e poi successivamente in Inghilterra,
mi sono accorta che mi sentivo proprio così, perduta, e allora ho deciso
di leggere il libro di Eva Hoffman, prima di cominciare a fare il dottorato, un
po' per passione e un po' per simpatia. Premetto che non c'entra niente con il
film che ho voluto vedere ma sono stata ingannata dal titolo. Pensavo che fosse
il film del libro ma non c'entra assolutamente niente e non c'entra niente neanche
il film con il titolo del film. Allora, lei dice che lei non riesce a tradurre
nella sua nuova lingua, l'inglese, l'universo culturale che si porta dietro dalla
sua patria fin da bambina. L'universo culturale che un migrante si porta dietro,
non è facilmente spiegabile e traducibile nella nuova lingua. Mi è,
quindi, venuta in mente l'esperienza di questa autrice che racconta nel suo libro
la sua vita a partire dal trasferimento dalla Polonia in Canada e poi negli USA,
quando era bambina e che sottolinea proprio la difficoltà nell'esprimersi.
E poi ha scritto questo libro da adulta proprio per raccontare questa sua esperienza.
Per esempio, lei parla di "amore", ma cosa significa "amore"
in inglese? Per lei in polacco significa una cosa, ma in inglese la traduzione
della stessa parola ha un significato diverso. Julio
Monteiro Martins: Mi ricordo che una volta non sono riuscito a trovare
il modo di tradurre in italiano proprio l'elemento centrale del mio racconto,
e ciò mi ha dato una sensazione di enorme frustrazione, perché nel
racconto si parla di uno dei giochi più popolari del Brasile, della mia
infanzia che è "Bater figurinhas". Si tratta di mettere tutte
le figurine in colonna l'una sopra l'altra e uno con la mano a forma di cucchiaio
fa un vuoto di aria sopra la colonna per farle girare. Le figurine che si girano
diventano di chi le ha fatte girare mentre il mucchio di figurine sono le figurine
di tutti. Il libro racconta una storia vera che ruota attorno a un bambino, un
mio compagno di scuola elementare, che era il più bravo in "bater
figurinhas" e che è stato investito da una macchina a otto anni e
io nel racconto cerco di evidenziare il vuoto che si è creato a scuola
mia con quell'assenza. È stato il primo amico che ho perso in vita mia.
Si chiamava José Marcondes e il racconto parla di questa scomparsa, di
quello che era il miglior "batedor de figurinhas da turma". Ecco,
come faccio a tradurre in italiano questo "bater figurinhas"? Non c'è
un modo per tradurlo. Io vorrei anche lanciare un altro argomento per conoscere
il vostro punto di vista: spesso si parla del bellissimo stile di Conrad in inglese
e qualcuno dice che lui ha questo stile perché è polaco, non è
inglese e, a partire da questa riflessione, vi pongo questa domanda: È
vero che uno può scrivere meglio, avere uno stile più bello, più
efficace nella lingua che non è la madrelingua, oppure, come altri sostengono,
nessuno potrà scrivere mai tanto bene come può eventualmente scrivere
nella sua madrelingua? Le ragioni che i secondi intendono sono chiare perché
è ovvio che uno nella madrelingua riesce a rendere tutte le sfumature emotive,
ha sempre la parola adatta e sa per ogni parola non solo il significato ma anche
il contesto di uso specifico della parola. Ecco, però, vi darò un
argomento contrario a favore del fatto che uno possa diventare uno scrittore migliore
nella seconda lingua: il fatto che nella lingua nuova uno non ha un vocabolario
così vasto oppure conosce le parole ma non conosce il loro peso, non sa
in quale situazione vengono usate. Per esempio, in italiano io uso spesso la parola
"ricordare", so che c'è il verbo "rammentare" e so
che sono più o meno sinonimi, però uso di rado il verbo "rammentare",
perché anche se conosco il suo significato, non so quando è che
si utilizza, quindi quando scrivo, evito di usarlo. Non è che non conosca
la parola ma non né conosco il peso e quindi mi sento inibito come scrittore
in italiano perché ci sono anche altre diecimila parole di cui non conosco
l'uso, oltre al verbo "rammentare". Quindi, è ovvio che nella
scrittura il mio vocabolario sarà un po' più ridotto, ma lo stile
che viene fuori dal lavoro su questo universo linguistico nuovo, più ridotto,
non sarà uno stile, in alcuno casi, forse, più trasparente, più
leggibile, più preciso, emotivo e meno vulnerabile alla tentazione di usare
parole preziose? Può darsi che nel caso di Conrad sia successa una cosa
del genere e cioè: se nei testi che scriveva nella sua lingua aveva uno
stile un po' indigesto, un po' barocco, questo stile poi non si è presentato
nei testi scritti nella lingua straniera, e quindi può darsi che l'utilizzo
della lingua straniera abbia migliorato il suo stile. Pia
Pera: Ascoltando Julio, pensavo che qui si tratta del conflitto fra "locale"
e "globale". Cosa vogliamo fare? Se pensiamo allo scrittore italiano,
Carlo Emilio Gadda, vediamo che in lui è proprio il magma linguistico ciò
che diventa interessante: lui ha le sue espressioni che vanno perse in un'altra
lingua. Si tratta forse di scegliere la chiarezza, di scegliere l'economia di
espressione, la globalizzazione o scegliamo il "local", come si dice
in inglese? Io amo molto Gadda e penso che il traduttore francese di Gadda
abbia fatto un lavoro infernale perché è veramente difficile tradurre
Gadda. E', però, uno scrittore a cui io come italiana non vorrei mai rinunciare
perché racconta cose che esistono solo grazie a quel gioco linguistico,
quindi secondo me bisogna veramente accettare che il tradurre un testo in un'altra
lingua porta automaticamente ad un impoverimento ma anche ad un arricchimento
per altri versi. C'è veramente questo problema che è il problema
del nostro tempo, cioè il fatto di voler tenere il piede in due staffe.
Io sono un po' contadina e scrivo di giardini e di terra e rifletto molto su queste
cose e sul cibo: per esempio, penso che il cibo debba essere locale, perché
inquina meno, perché non c'è l'energia fossile dovuta al trasporto,
perché ci sono meno conservanti e pesticidi. A volte questo riguarda anche
la lingua! Penso che uno scrittore migrante, una volta trasferitosi, diventi anche
lui "locale", però non so se la chiarezza con questa rinuncia
è veramente qualcosa da perseguire, forse è meglio continuare a
lottare per capire cosa vuol dire "locale" e quindi non bisogna arrendersi
ma bisogna cercare di continuare a capire che senso ha la parola "locale"
perché secondo me è veramente importante riuscire a diventare locali,
anche per chi è nato in Brasile o in Olanda. Bisogna riuscire a diventare
locali per avere qualcosa da dire, per essere nutrienti. La parola nutriente per
me è una parola locale. Arnold
de Vos: Per essere credibili? Perché prima ho parlato del fatto
di aver lasciato morire la lingua e posso dimostrarlo anche in un altro modo:
quando sono entrato in Italia, non era ancora corrente come oggigiorno che venissero
fatte traduzioni da tutte le lingue e quindi le varie nazioni e i loro popoli
erano piuttosto ancora molto diversificate. Arrivando in Italia, nell'anno 62-64,
ho immediatamente, prendendo libri da leggere in prestito, avuto la sensazione
molto forte che, per esempio, che raccontare il modo di amoreggiare fra persone
giovani, come si faceva nell'Olanda calvinista dei miei tempi, per un pubblico
italiano non sarebbe stato soltanto ridicolo, ma anche poco credibile, se io avessi
raccontato esattamente come si svolgeva questo, perché vedevo intorno a
me, vivendo in Italia, una realtà completamente "altra". Quindi
uno, ad un dato momento, perché è solo un esempio, ha la sensazione
che può esercitarsi per rendere la realtà dalla quale proviene,
ma che allo stesso tempo, facendo questo nella lingua del paese in cui uno vorrebbe
vivere in quel momento, sarebbe stato una cosa completamente inutile perché
non corrispondente alla società con la quale è nato una specie di
nuovo rapporto. Julio parla in questo caso di matrimonio, io non direi questo
perché non mi sento italiano neanche dopo quaranta anni in Italia, però
i miei strumenti di espressione sono diventati quelli della lingua italiana. Quindi,
non ho soltanto lasciato morire la lingua ma anche le situazioni del mio vissuto;
forse adesso c'è un ritorno cioè un "re-ispezione" attraverso
cui riprendo le vecchie situazioni e cerco di stupire il pubblico italiano con
quello che si viveva allora ma insomma è forse anche che sono in grado
di farlo solo adesso, mentre allora non ero in grado di farlo. Questo è
forse perché uno con gli anni acquisisce una maestria nell'artigianato
che sta facendo, perché fare lo scrittore non è solo un'attività
intellettuale, ma è anche un'attività di artigianato e se dico questo
non è certamente per sottovalutare l'artigianato. Gregorio
Carbonero: Ripensando alla parola "rammentare", credo che l'uso
di una parola o di un suo sinonimo dipenda dalla letture che uno ha fatto, dalla
letteratura che predilige da quale delle due parole io sento più utilizzare
nella vita quotidiana, se "raccontare" o "rammentare". Nel
mio italiano arcaico-infantile "rammentare" non esisteva, però
esiste nella lingua. Credo che quanto l'uso dell'una o dell'altra parola dipenda
da quanto uno riesca a riallacciarsi ad una certa tradizione. Volevo parlare dell'arricchimento
e dell'impoverimento: l'impoverimento è quello della propria esperienza
e della propria memoria però l'arricchimento è quello della memoria
"altra", quella che nasce dopo, che si costruisce dopo, perché
non credo che siano dei criteri di valenza univoca. Penso che una persona con
una madrelingua diversa dall'italiano che impara l'italiano come seconda lingua,
possa avere una grande capacità linguistica ed imparare un italiano molto
complesso, molto ricco dal punto di vista lessicale, però questo non significa
che lui riesca a sentire il pulsare intimo della lingua, che riesca a sentire
il "battito" della lingua. Mi sembra che siano due cose diverse: l'assimilazione
informale della lingua è diversa dal sentire il peso specifico, le valenze,
l'estraneità della lingua, quell'involucro di memoria e di emotività
che una parola ha; questo va ovviamente riferito ad una tradizione; ognuno se
la inventa come può o come vuole, in base alle proprie letture, in base
alle proprie affinità di temperamento o di simpatia morale, etica. Gli
scrittori hanno una posizione etica propria: per esempio, mi ricordo di aver letto
su Hemingway la sua eticità ma non credo che Hemingway esprima idee politiche,
però la sua eticità è implicita nel modo in cui lui affronta
con molta schiettezza, con molta economia di mezzi, la sofferenza o molte situazioni
di apparente non-drammaticità ma di intima sofferenza e questo come si
può fare, se non conoscendo l'involucro emotivo-pulsante delle parole?
E come si fa a conoscere questo involucro? Si fa semplicemente allacciando le
affinità personale che uno ha con la lingua. Julio
Monteiro Martins: Quando ho parlato dello stile di Conrad, mi è
poi venuto in mente come per certi autori io legga più volentieri le traduzioni
dei loro testi piuttosto che gli originali: José Saramago, per esempio,
ha uno stile in portoghese che a me personalmente è ostico, mentre quando
è stato tradotto, certe strutture logiche-sintattiche e certe parole troppo
preziose, vengono messe dal traduttore in un modo che fluisce meglio e quindi
per me diventa una lettura più piacevole. Sembra strano dire questo però
è la verità: certi autori hanno uno stile in portoghese che mi risulta
ostico, per cui, se la traduzione è fatta davvero bene, preferisco leggere
la traduzione.
Barbara
Pumhösel: Volevo fare alcune associazioni libere su quanto è
stato detto: prima la parola "rammentare" e "ricordare" mi
ha ricordato una cosa che probabilmente sarà conosciuta da tutti; forse
l'ho letto in una critica di un russo che parlava della poesia "Alla Luna"
di Leopardi, dove usa tre parole per la memoria: "ricordare", "rammentare"
e "rimembrare" cioè "con il corpo", "con la mente"
e "con il cuore", è proprio una memoria olistica che coinvolge
corpo, mente e sentimento. È una cosa che mi ha colpito molto. Quando poi
si è parlato di Eva Hoffman, di origine polacca, che dice: "Io conosco
o riconosco le parole ma non mi vedo rappresentata da esse, non mi vedo come corpo"
e ciò mi ha fatto pensare a come è bello trovare una parola nuova,
sconosciuta in un testo, soprattutto quando accade in un'altra lingua perché,
nella lingua-madre, uno parte dall'idea approssimativa che ha e va a cercarsi
la parola adatta per esprimere quell'idea; però, nella madrelingua, non
c'è la stessa meraviglia che si manifesta quando si utilizza un'altra lingua.
Nella lingua straniera c'è una parola che ha un suono preciso, bello, che
suggerisce qualcosa che magari è tutto il contrario del suo significato
reale ma finché non lo cerco nel dizionario, ho tutta una serie di immagini
di quello che, per me, potrebbe essere. Io sento una parola e dal suo suono la
collego ad un'immagine e prima di imparare cosa davvero vuol dire, posso anche
toccare quella parola come un oggetto da guardare che mi suggerisce delle cose
che poi non sono. Come ultima cosa, quando Julio ha parlato di Conrad, a me è
venuta in mente Agota Kristof, una scrittrice di origine ungherese, che vive in
Svizzera e scrive in francese: lei ha uno stile così scarnificato, così
scheletrico che è come un pugno nello stomaco e ritengo che sia difficile
ritrovare questo stile in uno scrittore che scrive nella lingua madre, perché
è quasi uno scheletro di scrittura che colpisce perché non comunica
soltanto qualcosa ma lascia anche al lettore dei vuoti da riempire; chi, invece,
scrive nella propria lingua a volte dice anche troppo e non c'è lo spazio
che il lettore può riempire con la propria immaginazione libera. Interviene
dal pubblico Sigrid Rahimi: Quello che sto per dire coincide un po' con
ciò di cui ha parlato Julio e cioè con il fatto che in poesia non
bisognerebbe mettere troppi aggettivi. È proprio lo stesso concetto che
non lascia più spazio alla fantasia. Julio
Monteiro Martins: C'era un grande poeta brasiliano, Carlos Drummond de
Andrade, che diceva che quando si trovava in una situazione di dover scegliere
fra due aggettivi, sceglieva un sostantivo. Giovanna
Zunica: Può darsi che uno scrittore che usa una lingua che non
è la lingua madre fa sì che la lingua madre rimanga un po' più
indefinita. È difficile generalizzare però mi viene in mente una
cosa che ho notato anche ieri e cioè che la letteratura deve essere delle
ex-colonie, francese, inglese e portoghese soprattutto, che una letteratura grande,
presenta testi davvero magnifici. Chiaramente è una lingua usata in un
modo completamente diverso: chiaramente l'inglese di un nigeriano non è
l'inglese di un britannico o di un americano. Invece, c'è una cosa
che vorrei dire come traduttore: facendo riferimento al racconto di Julio in cui
si citava quel gioco dal nome intraducibile, perché non esiste una parola
omologa italiana a quella brasiliana, visto che il gioco è brasiliano e
quindi secondo me non lo devi tradurre, quello che mi ha colpito è che
il brasiliano che conosce quel gioco associa immediatamente quel nome al vuoto
che la mano fa e quindi associa questo al vuoto che il bambino lascia in classe
e invece il lettore straniero non può farlo. D'altronde io penso che questa
sia una cosa che si perde ma che si riguadagnerà altrove, che si riguadagna
con il tempo. Io penso che un errore, un delitto che alcuni traduttori compiono
è quello di omologare, di appiattire un testo sulla cultura di arrivo.
Per me è un delitto imperdonabile e quindi penso che sia meglio perdere
qualcosa e lasciare la possibilità che si recuperi poi in un secondo momento. Julio
Monteiro Martins: C'è anche un argomento che emerge spesso nelle
discussioni sulle traduzioni all'università: la questione dell'uso delle
note, che in un testo saggistico sono senz'altro utilizzabili e fondamentali,
ma in un testo narrativo o nella poesia, come facciamo? Se si fa una nota, si
deve interrompere la lettura per leggere la nota? E se non si fa, che alterazioni
nella comprensione può comportare? Io direi che a volte tradurre è
soprattutto prendere decisioni drammatiche. Per esempio, il lavoro che facciamo
nell'ultimo anno all'università è quello di tradurre poesie, ed
è un'avventura del sentire e del pensare, appunto perché ogni volta
ci imbattiamo in scelte difficilissime in cui dobbiamo rinunciare a certi sensi
della parola, a certe possibilità. Interviene
dal pubblico Cristiana Sassetti: Volevo fare una piccola riflessione che
mi avete suggerito tutti voi scrittori, migranti e stanziali. Pia parlava di lingua
come cibo, Carbonero come un involucro emotivo e pulsante di parole e allora io
penso che la lingua madre è quella lingua che il bambino sente nella pancia
e quindi è questo rumore, questo brusio tra lo stato di calma e lo spavento
che uno scrittore cerca di recuperare e di riprodurre in quella lingua che sceglierà
e che gli permetterà di riconciliarsi con il mondo e di cercare di tradurre
questo limbo. Quindi la lingua madre è un brusio che poi si sviluppa, a
seconda del contesto, in un'altra lingua che può essere l'italiano, l'inglese,
lo spagnolo. Pia
Pera: Questo brusio mi fa venire in mente l'Angelus Novus di Benjamin.
Isabel
Ruiz: Io mi aggancio a ciò che diceva Julio riguardo a quei numerini
accanto alle parole per indicare le note e mi viene in mente la mia relatrice
della laurea, Maria Fernanda Palacios, la quale ha scritto un libro che si intitola
"Sapore e sapore della lingua". Lei dice che il sapore è quella
lingua, anche madre, che arriva da noi spontaneamente e che noi la tramandiamo
con i sentimenti. Io leggevo i libri di Jorge Amado, "Dona Flor e i suoi
due mariti", etc., e ci sono questi numerini e io non guardavo né
indietro né sotto ma cercavo che mi arrivasse quella spontaneità
e dopo magari leggevo le note e poi facevo una seconda lettura, perché
altrimenti perdevo la spontaneità. Anche Dona Flor parla della sua
cucina e, agganciandomi alla reazione degli altri personaggi, cercavo di capire
quello che lui voleva dire. Arnold
de Vos: Volevo dire che la traduzione riserva sempre sorprese perché
vi ho parlato con sincerità del fatto di aver lasciato morire la mia lingua.
Però, nell'ottobre del 2004, mi sono recato a New York perché c'era
la settimana della poesia italiana e ho letto le traduzioni che erano state fatte
per un'antologia che sta per uscire negli Stati Uniti che è un'antologia
parallela a quella "Ai confini del verso" curata da Mia Lecomte, però
i testi miei sono altri in questo caso perché nell'edizione italiana abbiamo
scelto altri testi. E poi mi dicevano: "queste sembrano veramente scritte
in inglese" e io ho detto che i testi erano assolutamente da me scritti in
italiano senza pensare lontanamente neanche all'olandese, però evidentemente,
forse, neanche volontariamente, è rimasto una specie di sostrato. Per cui
i miei testi scritti in italiano, mentre pensavo di aver dimenticato la lingua
madre, invece danno al traduttore la possibilità di avvicinarsi di più
all'inglese, perché il sostrato è rimasto. Julio
Monteiro Martins: Sono molto contento per questo seminario visto che le
nostre discussioni di tutti i giorni hanno raggiunto una profondità, una
creatività, una fantasia, una gioia del pensare e del parlare straordinaria,
e dobbiamo questo a tutti voi. Grazie a tutti voi. (Applausi)
Gli
atti del Seminario sono a cura di Alessandro Giometti e Silvia Mencarelli.
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