LE VOCI ESCLUSE
Francesco Paciscopi
I
-
Ho voglia di graffiarti la faccia, - dice Albarosa sulle scale
della Biblioteca Nazionale. - Non riesco mai a capire quello che
pensi. Dai la colpa alla tesi e mi vuoi solo scaricare; vero,
carogna? Non so chi me lo fa fare, di perdere ancora tempo con
te. - Ma è tenera, mi si stringe addosso.
In effetti, gioco sleale. Altrimenti le dovrei dire che sì,
le voglio bene, ma non è la cosa più importante
in questo momento: è ansiosa, possessiva; a volte mi stanca;
e la paura del rifiuto se la porta dietro. Ci resterebbe male?
Magari le piacerebbe sentirlo: per colpevolizzare la mia sicurezza
ironica.
- Stammi bene, dolcezza, - le bisbiglio con la bocca sul collo.
- Ci vediamo domani. E bada a non mettermi troppe corna! -
Mi arriva un calcio che mi fa decidere a salutarla con un bacio
lungo e scappare nell'androne scuro.
Prima, eravamo insieme al Forte, nonostante il freddo: pungente,
per una primavera bella come questa.
Non mancano i guardoni, lassù. Proprio stamani ne ho visti
un paio, a spiarci tra le siepi.
È
l'ora di chiusura. Rientro nella camera messami a disposizione
in Via Ghibellina. Dentro, il silenzio.
Gli zii non sono ancora tornati dalla pasticceria. Bene, niente
spiegazioni, stasera.
Verso la fine, anche il lavoro della tesi mi appare più
banale, meccanico. Mesi fa varcavo ancora entusiasta la soglia
della Nazionale per restarci tutto il giorno, con un panino verso
le due al bar. Ausonio Decio Magno e l'intera latinità
della decadenza hanno perduto smalto. Meglio Firenze. Meglio fare
l'amore su al Forte.
Butto
sulla tavola la sacca di tela col materiale da elaborare, stiro
soddisfatto le braccia.
Nell'ombra, Fritz mi si strofina alle gambe. Impossibile chiedere
al gatto un affetto disinteressato. Gli metto un po' di latte
nella ciotola. Resto a guardarlo. Lecca avido - rosa tenue fra
le vibrisse - voltando ogni tanto lo sgomento degli occhi. Ed
eccomelo al collo, si accuccia e ronfa beato.
La sala vorrebbe avere un'aria rinascimentale, con la tappezzeria
stampata a gigli rossi, i bordi d'oro antico ed i mobili scuri.
Le finestre sono grandi. Una dà sui viali. Lunghe file
di piante aprono, nel cortile interno, una inaspettata zona di
verde.
Il pulviscolo della stanza brilla nel sole, un raggio-squama spezza
la penombra.
Da un vaso del piano superiore cala, fin su questi vetri, un ramo
di vitalba.
1.
Le ancelle vestono Silvana per il matrimonio.
Dal capo, a rappresentare il velo, scende un viluppo di rami di
vitalba, che le cade fino alle caviglie. Il volto rimane spalancato
e puro, nel verde intrigante.
- Chi vuoi come sposo? - domanda qualcuno. C'è un silenzio
sacrale.
- Lui, - indicandomi.
Avanzo come un tacchino, mentre le ancelle mi appiccicano sulla
maglia foglie di parietaria.
Una goffa cornice alla bellezza della sposa.
Le erbacce dei campi dietro casa splendono di gloria estiva, mentre
ci muoviamo solennemente verso l'ara - un tronco di pioppo - e
il prete pagano che, benedicendoci, eternerà il nostro
vincolo.
Dall'emozione, inciampo proprio davanti all'altare. E, d'istinto,
mi aggrappo a lei.
I testimoni guardano scandalizzati, mentre il velo di vitalbe
mi si affloscia fra le dita.
- Sta' attento, cretino! - sibila, con tutta la rabbia di cui
è capace.
Ha le lacrime in pelle.
II
Un
suono di campane arriva da Santa Maria Novella, attutito dalla
distanza.
La città si scioglie all'ultimo sole. Le rondini trasvolano
nel pulviscolo. La placca di luce sul
pavimento è ormai una fessura tra cui vagano microbi luminescenti.
E la pendola batte il suo moto infinito.
Prendo gli appunti per sistemarli, prima che arrivi la zia. Se
no, comincerà col solito: "Lavora bene, fa' in fretta
a finire"
Tutte le sere! "La laurea procura sempre
un posto al sole". Il sudato pezzo di carta mi fornirà
una ghiotta fetta di responsabilità sociale. Sarò
nel novero degli arrivati.
Trasferito in città, avrei contatti con le famiglie che
contano. Con la cultura. Avrei la carriera spianata.
Le diciassette e trenta. Lo scampanio di Santa Maria Novella si
perde nella distanza.
2.
La
corda vibra e oscilla, sotto la mia pressione. Poi, il primo rintocco
scaturisce dal bronzo. Questa volta ce l'ho, una delle quattro
funi.
- Va' a tempo! - mi grida Pierangelo dall'altra parte. Se si perde
il ritmo, ci ride dietro tutto
il paese.
La chiesa, così a ridosso della guerra come siamo, non
è stata ancora ricostruita del tutto, dopo il bombardamento.
Le campane sono sempre legate ai pali; e ogni sabato sera è
un privilegio, poterle suonare. Ce le contendiamo.
- Fanno la sassaiola, - mi urla ancora l'amico sacrestano. - Guarda,
c'è Sirio, rimpiattato
dietro il cipresso.
- Lo vedo! - gli urlo di rimando, contento di partecipare all'orgia
dei rintocchi e d'avere
l'attenzione di uno più grande, che mi trascura o mi dà
ordini recisi.
Sono in lotta i ragazzi del Botteghino e delle Palazzine. Fra
le spinte della corda li scorgo tutti, acquattati dietro le colonnine,
davanti la chiesa.
- Andiamo anche noi, dopo? - mi grida, al di là del frastuono.
Urlerei di gioia, mi trattiene una qualche dignità. Ha
voglia di dividere l'esperienza con me,
Pierangelo. E io, di seguirlo in capo al mondo. Solo perché
mi sento all'altezza, ora.
Per frenare le campane, ci appendiamo con il corpo alle corde,
come invasati.
Il movimento ci solleva per due, tre beatissimi metri.
E vediamo, ai piedi della collina, tutto il paese.
III
La
stanza si vela di penombra. Non ci si vede quasi più. Accendere
la luce?
I pensieri mi distraggono dagli appunti che vado riordinando.
Ci tornerò sopra domani. Sarà una giornata come
i primi tempi: biblioteca e panino.
Parlerò con Albarosa. Non mi deve distrarre dalla tesi,
che si fa interminabile. Lei è al secondo anno, è
ancora così ragazzina! Mi farò valere: sono un uomo,
ormai.
Sul tavolo, dal vaso di cristallo un fascio di spighe proietta
la sua ombra millepunte.
Parecchie reste spezzate.
Ma alcune rimangono, a sfida.
3.
La
trebbiatrice romba, la pula salta nell'aria.
Rigagnoli di grano si arrovesciano dalle lastre metalliche dei
bocchettoni di base ai sacchi contenitori.
- Portateli laggiù sull'aia! - ordina il capoccia. - Li
carichiamo dopo, sul trattore. -
Si agitano colori rozzi; c'è un che di sana letizia; bestemmie
e pacche sulle spalle, da tutte le parti.
- Monta su, dammi il cambio ai covoni! - tuona dall'alto un tanghero
di novanta chili.
Salgo; e comincio a inforcare i mannelli spingendoli verso la
bocca della trebbiatrice.
Mi sento un leone. Non è solo la peluria sul labbro e sul
pube, ad esaltarmi. Fermo contro il cielo, assaporo una beatitudine
nuova.
Olga, passando, mi grida dal basso: - Guarda se ci caschi dentro,
fringuello! - E io me la rido, contento. Ha trentatré anni,
il figlio maggiore quasi della mia età; e so che le piacciono
i ragazzi giovani. Qualcuno racconta con voce sgranata certi particolari
Mi lasciano là tutta la sera, non chiedo di meglio. Il
Sole è una frittata di luce sopra di me. Fa caldo da morire.
- Siamo alla fine! - grido.
Gli ultimi mannelli cadono in bocca al drago.
Stasera
ci sarà cena all'aperto. E ballo sull'aia. So che hanno
ingaggiato anche due fisarmoniche.
Ce lo pagheranno, il lavoro. Avrò qualche soldo per le
vacanze, senza chiederne ai miei.
Faccio un salto dalla trebbiatrice e mi trovo steso a terra, con
l'odore selvatico della pula nel naso.
Il sole sta calando dietro le colline.
Mentre
tutti ballano, girello fra gli alberi.
Mi piace anche da lontano, la festa. I corpi che si muovono, sodi
e flessuosi. Mi arriva il languore delle fisarmoniche.
Sdraiato sulla paglia, vedo un'ombra che avanza. Mi si ferma vicina.
- Che fai qui al buio? Non balli? - chiede sorniona.
Olga. Mi ha seguito. E ha come una minima brace, in fondo agli
occhi scuri.
Si inginocchia, mi bacia tutta in bocca. Mi morde da morirne la
lingua, mi passa la mano sui calzoncini. E, senza impaccio, mi
slaccia la cinghia.
L'ombra mi nasconde il viso scarlatto.
Mugola, mentre le do la mia verginità.
IV
È
calata interamente la sera. Una vespa è entrata nella stanza:
il ronzio astratto, uggioso, da qualche parte.
Fuori, oltre il cortile dei vivai, finestre illuminate. In controluce,
una donna si affaccia al terrazzo. Scuote qualcosa nel buio.
La punta della sigaretta, incandescente. Avido, ne aspiro l'aroma
azzurrognolo.
Dalla strada, grida giovani. Saluti prima di cena. Forse un appuntamento,
per qualche bravata notturna.
Di nuovo il silenzio, tra i lampioni accesi.
4.
-
Bazzica! - Ivano butta la carta sul biliardo.
- Basta! Io smetto, non c'è gusto, con te. -
- Sei il solito frocio. È la terza di fila, che fai.
È Bruno, che ha parlato per ultimo. Finge un contegno spavaldo,
è il più giovane.
Posiamo tutti la stecche e ci piazziamo con le sedie fuori dal
bar, a pettegolare sulle poche ragazze che passano.
- Si va a rubare un cocomero a Beppe, domani? - chiede a un tratto
Giulio. - Devono essere belli maturi, ormai. -
- Fanciulli, ricordatevi che c'è da lavorare al campo,
- avverte Piero. - Domenica si gioca contro il Ponsacco e don
Luciano vuole trovare tutto pronto. L'idea è stata nostra,
in fondo. -
È il campetto dell'oratorio. Abbiamo deciso di trasformare
in mini-bar un vecchio capanno annesso. Gli introiti andranno
a beneficio delle nuove divise bianco-azzurre.
- A proposito, c'è da mettere insieme i soldi per Carlo,
- dice Alberto. - Domenica è il suo compleanno. La sera
fa la festa. -
- A quello penso io. - È di nuovo Piero. - Domani faccio
il giro dei portafogli. E tu, - mi dice, - pensa a comprare il
regalo. Magari ci andiamo insieme. Delle bimbe chi viene? - Lo
vedo arrossire.
Annuisco, distrattamente. Ama senza speranza.
"Un giorno o l'altro li manderò tutti a farsi fottere",
rimugino, compiaciuto.
- Perché non andiamo a puttane? - fa Bruno di punto in
bianco. - Ne ho sempre voglia, ma stasera non ce la faccio più.
Sorrido del suo ardimento. Chissà se proponessi di andare
davvero, come reagirebbe?! Accamperebbe scuse?
- Io vado a letto, - dico deciso. Si domanderanno perché
così presto. E, domani, saranno anche ironici. Mi alzo
e li saluto, sorridendo. - Ci vediamo. -
Mentre mi allontano, mi giunge ancora la voce di Bruno, stridula:
- Si creperà di noia, in questo schifo di paese! -
V
Passi
per le scale. E un suono di voci. Gli zii che rientrano?
La chiave nella serratura: mi precipito ad accendere la luce.
Antichi sensi di colpa, forse.
La stanza cambia all'istante aspetto e significato.
- Francesco, sei lì? - chioccia la voce di zia.
5.
Le
ombre si allungano fra le colline. La luna si posa a sfiorare
i cipressi, neri neri davanti la chiesa.
Le vie sono quasi deserte. Si prepara la cena. Dagli interni,
rumori familiari.
Sull'argine, i fieni sono alti e verdi. E le rane cantano nel
rio, sotto la chiarità del cielo.
VI
Tra
qualche mese sarò di nuovo laggiù.
Mi aggrappo anche a questo.
La notte di catrame cala sulla città.
E non voglio trascurare nessuna voce, dimenticare niente.
Non voglio morire, mai.
Francesco Paciscopi
è nato e vive a La Rotta, in provincia di Pisa. Trilaureato, insegnante.
Autore di articoli di critica (letteratura-teatro-cinema) apparsi
su La Nazione (anni '70), è stato vicepresidente e poi membro
del direttivo dell'A.I.C.C. (Associazione Italiana di Cultura Classica)
di Pontedera fino al 1992. È stato redattore della rivista Schermo
Bianco negli anni '70 e della rivista letteraria Ghibli
fino al 1994; fino al 1998 redattore-capo della rivista di Lettere
ed Arti Ponte di mezzo; collaboratore alle riviste Poesia,
Semicerchio, Il Grandevetro, Erba d'Arno, La
Nuova Tribuna Letteraria, Alla Bottega, Ghibli,
Ponte di mezzo, La ballata, Pianeta uomo, Images-Art
& Life, L'apostrofo, Fiori di Luna, OggiFuturo.
È presidente del Premio Letterario "Il litorale" di Marina di Massa.
Presente in molte antologie. Sue liriche sono state tradotte in
inglese. Ha pubblicato: Le raccolte poetiche I gigli neri
(Carello, Catanzaro, 1981), Magnificat (con Prefazione di
L. Marconcini, ivi, 1982), Olympus (ivi, 1983), Kimera
(ivi, 1986), La stagione degli Dei (con Prefazione di D.
Carlesi, Giardini, Pisa, 1989, finalista ai premi "Montale" e "Carducci"),
Malaterra (con Prefazione di Carlo Rao), All'antico mercato
saraceno, Treviso, 1999, I premio "Laurentum", "Rivalto", "Padus
Amoenus", "Tra Secchia e Tanaro"; II premio "L'amaro Miele"; III
premio "San Domenichino", "Bargagna", "Città di Lerici", "Alessandro
Contini Bonacossi"; V premio "Antica Badia di San Savino"; finalista
ai premi "Pisa" e "Bolognapoesia"). Le opere di narrativa Danza
di morte (racc., con Prefazione di A. Esposito, Lo Faro, Roma
1985) e I glicini dell'Erebo (racc., con Prefazione di F.
Romboli, L'Autore, Firenze 1991). Il saggio Isidoro Falchi tra Montopoli
e Vetulonia.
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