AL MOMENTO GIUSTO
Stefano Gugliotta
Questo racconto
è per te, Ema,
per tutte le volte che hai avuto la pazienza di leggere i miei
deliri
e per quelle in cui ti ho semplicemente costretto a trovarla.
E
poi disse che non era il momento giusto. Che a pensarci bene poi
non si capiva cosa fosse questo diavolo di momento, né
da cosa dipendesse soprattutto.
Mi baciava appena sulle labbra, sempre come fosse per caso, un
piccolo errore di mira o soltanto un suo capriccio che presto
o tardi sarebbe finito.
Tenevo gli occhi socchiusi, perché a dirla tutta non me
ne dava neppure il tempo, per chiuderli del tutto intendo; solo
un breve istante e le labbra che si sfioravano. Ed io avrei voluto
non finisse mai e invece finiva. Mi guardava come a dire che si
era fatto tardi e poi subito di corsa a casa, lontano da me.
Rimanevo lì come uno scemo, sempre con il dubbio di essermi
immaginato tutto. Poi ci riflettevo su, e diamine la cosa non
poteva non darmi da pensare. Perché poi non potevo far
finta di nulla, e se anche non era il momento, quello "giusto"
intendo, il bacio però mica me lo sognavo, e non era sulla
guancia o sulla fronte ma proprio lì, sulla bocca.
Delle volte chiedevo a qualche amico, che mi spiegasse cosa mai
poteva voler dire quel suo comportamento. E il parroco, nell'omelia
della domenica, che parlava di fede e attimi importanti, e mio
padre che arringava sui tempi fondamentali nella vita di un uomo:
la famiglia, il lavoro. E mia madre che cercava l'istante giusto
per chiedergli degli orecchini nuovi, ed io, che pensavo solo
a quel bacio sulle labbra.
Poi la mattina tornavo a non pensarci più, come non avesse
importanza, saltavo sul motorino e filavo a scuola, sapendo che
a fine giornata l'avrei riaccompagnata, fermandomi un isolato
prima di casa sua. Lei sarebbe scesa, fingendo di sistemarsi la
gonna lunga che portava sempre, ed io le avrei detto che bisognava
parlare, che tutto sommato avevo qualcosa d'importante da dire.
E avrei sentito quella frase, mi avrebbe baciato per poi scappare
via. Sarei rimasto lì, come tutti i pomeriggi e solo in
quegli istanti avrei ricominciato a riflettere su cosa mai avessero
voluto dire quelle parole. Toccandomi ancora le labbra mi sarei
anche un po' irritato per quel suo modo di fare, ma poi me ne
sarei tornato a casa pensando che l'indomani, certo, le avrei
finalmente parlato.
La prima volta, a scuola, l'avevo capito subito che non potevo
dirle qualcosa così, magari di stupido. Lei camminava a
passi nervosi lungo il cortile, le sue amiche la chiamavano da
un lato e da un altro ma lei senza darvi importanza tirava diritto.
E quelle unghie mangiucchiate, chissà perché avrebbero
infastidito chiunque ma non me, e che ci sarebbe stato pure da
recriminare sulla sua gonna lunga così fuori moda lo si
sapeva, eppure io continuavo a trovarla carina.
Ecco, carina era la parola che più le si addiceva. Carino
era il suo modo di sorridere, il modo di sfuggire agli sguardi.
Insomma era carino tutto di lei, forse non tanto che me ne stessi
a fissarla imbambolato, ma poi non se ne sarebbe mai venuta a
lamentare. Il giorno che mi si parò davanti con le mani
lungo i fianchi e gli occhi fissi su di me, ebbi qualche dubbio
su quella convinzione.
Mi fece uno di quei suoi sorrisi e disse: "Mi daresti uno
strappo a casa?"
Ora, fosse stato per me avrei gridato al miracolo, e in ginocchio
avrei improvvisamente ricordato a memoria l'Ave Maria e il Padre
Nostro, così, solo per dare il giusto rispetto ad un evento
irripetibile della mia esistenza. Invece lei mi chiese solo un
passaggio.
Lo aveva chiesto proprio a me, ed era tutto perfetto. Felice,
sorpreso, non saprei dire, ero tutto questo e anche altro e mi
convinsi che di sicuro sarebbe sopraggiunto qualcosa ad infrangere
il mio sogno: un'inaspettata calamità naturale, un improvviso
attacco d'appendicite, il motorino che non ne voleva sapere di
partire. Il motorino non ne volle sapere di partire.
Lei era rilassata ed io invece sentivo il sudore scendere dalla
fronte, allungava la sua mano sulla mia spalla dicendo qualcosa
che non riuscivo nemmeno a sentire. Mi sorrideva, ed io balbettavo.
E poi la chiamarono, offrendogli un passaggio. Un altro sorriso,
l'ultimo, ne ero certo, poi raggiunse il bastardo che quel giorno
aveva la cosa che più desideravo al mondo: uno stramaledetto
motorino.
Nei giorni seguenti, arrivavo a scuola e aspettavo davanti l'entrata.
Speravo che lei mi vedesse. Me ne stavo in sella al traditore,
per lui avevo immaginato le peggiori sofferenze, non ultima la
rottamazione immediata senza possibilità d'appello. Era
diventata un'ossessione, anche nel tema in classe mi avventurai
in un'improbabile dissertazione sull'inaffidabilità dei
ciclomotori, quelli italiani. A dire il vero non lo scrissi neanche
tanto male quel tema, peccato però che il titolo fosse
sulla poetica leopardiana.
Per settimane non successe assolutamente nulla, né un cenno,
né un saluto, né tanto meno la richiesta dell'agognato
passaggio. Fin quando giunsi alla conclusione che il mio momento
"fondamentale nel cammino della vita", come avrebbe
avuto a dire mio padre, me lo ero giocato per colpa di uno sgangherato
Garelli.
Una mattina, improvvisamente, mi si avvicinò che me ne
stavo con i miei amici, mi si piazzò davanti con quei suoi
occhi verdi e mi chiese un passaggio. Non ci dicemmo nulla per
tutto il tragitto, fin quando non mi fece accostare al lato della
strada, esattamente ad un isolato da casa sua, e lo sapevo bene
dove abitava. Mica me ne ero stato senza far nulla in tutte quelle
settimane. E dai a fare avanti indietro quel percorso, studiando
ogni buca o imperfezione che potesse causare degli imprevisti
alla mia guida. Mi fermai, e lei scese con fare lento, girandomi
intorno, strusciando la sua gonna lunga contro i miei jeans, fino
a che non mi fu davanti gli occhi. Stava per baciarmi, lo stava
per fare, davvero, ed io con gli occhi sgranati da pesce lesso
ad aspettare la cialda della comunione mentre la sua bocca si
avvicinava alla mia. E poi gettai un urlo.
Niente alito puzzolente, labbra a pinguino o altro, solo mi bruciai
il polpaccio sulla marmitta ancora calda. Quasi lacrimavo forse
più per quello che stava accadendo e non sarebbe più
accaduto che per il dolore alla gamba. Cosa potevo fare adesso,
rottamare la mia gamba impacciata insieme al Garelli, traditore
recidivo?
Stavo per andare, con il piede già sull'accensione, che
lei mi prese il viso tra le mani e mi baciò. A rigor di
memoria, credo sia stata l'unica volta che lo abbia fatto in maniera
così plateale e convinta, per il resto è storia.
Da quel giorno, il mio unico pensiero era rivolto alla fine della
giornata, quando finalmente l'avrei accompagnata a casa e poi
forse mi avrebbe baciato ma sempre con fare distratto.
Rincasavo sempre più tardi e mio padre giù ad incazzarsi
perché "il pranzo è un momento importante nella
vita di una famiglia
" e mia madre ad immaginare le
cose peggiori che ogni madre pensa quando suo figlio non sta più
a guardare le partite di pallone e a tirare i capelli a sua sorella.
Che glielo avrei anche gridato: "Mamma sai, esistono anche
gli ormoni
niente droga, rapine o brutte compagnie, solo
ormoni, mamma".
E' passato tanto tempo ormai, il Garelli alla fine se lo è
preso il figlio dell'elettrauto sotto casa. In famiglia, quando
ci torno, duranti i pranzi domenicali, sono io a dare consigli
a mio padre, soprattutto quando esagera con il sale e la pressione
gli sale che è un attimo, ma non mi ascolta più
di tanto. Lei mi torna spesso in mente, a volte con l'auto passo
davanti casa sua e un po' sorrido pensando a quella sua gonna
lunga fuori moda e a quel dannato momento giusto che forse non
c'è mai stato.
Stefano Gugliotta: sono
nato a Siracusa il 26/05/1974. Dopo la maturità classica
ho frequentato qualche anno di Legge, da poco lavoro in una società
di servizi editoriali. Prima ancora che scrivere mi è sempre
piaciuto leggere e per questo devo ringraziare mio padre che fin
da piccolo mi ha spinto verso i libri. Perché scrivo? Credo
a causa della mia fantasia galoppante e per la mia innata convinzione
che prima o poi troverò qualcuno che trovi interessanti i
miei voli pindarici.
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