RITRATTO DI IGINIO UGO TARCHETTI


Salvatore Farina

 



Un giorno Federico mi annunziò la visita di Iginio Tarchetti. Già prima avevo avuto notizia di lui come d'un imperterrito amatore delle Muse, che sono poi belle ra­gazze anch'esse, e delle donne, che sono ancora le Muse.

Egli se ne tornava appunto da un amore infelice, con­sumato in Varese; tornava per riabbracciarsi alle vecchie amicizie più fedeli dell'amore.

Appena Iginio mi apparve lungo, pallido, melanconico, fatale, chiuso come in una sepoltura dorata nella tunica dell'Intendenza militare, subito mi sembrò d'amarlo; ed egli si schermi un poco, mi parve volesse respingere la mia bru­sca carezza, ma fin dalle prime ore si lasciò vincere. Si com­binò una scarrozzata fino a Vignale, patria del buon vino e di Federico.

La salita su per il colle non ci parve lenta, perché mentre la carrozza si arrampicava come una testuggine e noi si procedeva più spediti a piedi, il mio nuovo amico Tar­chetti mi lasciava piovere dall'alto una benefica pioggia di versi desolati ch'egli recitava con accento funereo. Anche Iginio era come Federico; protestava di non saper nulla a memoria di quanto la Musa gli aveva confidato ieri l'altro, e ieri ancora, ma punzecchiato appena, ricordava sempre qualche cosa.

Ed era, già si sa, una meraviglia nuova, al cui paragone si oscurava la gloria di tutti i classici amati e dei roman­tici adorati. Su quella erta via di Vignale, Iginio Tarchetti, già lungo un metro e ottantaquattro, mi cresceva sott'oc­chio a ogni passo, fino a raggiungere altezze olimpiche.

Tornato a Milano vi trovai ad aspettarmi il mio Tar­chetti, che mi fece stringere una buona amicizia col professore Celoria, allora aggiunto, oggi direttore della Spe­cola di Brera. L'astronomo fu l'anello che compì la breve catena di affetti. Ugo era un poeta abbeverato di amaro: troppo aveva letto Byron e Shakespeare; fantastico anch'io la mia parte, mal mi trattenevano le catene dei cin­que codici: talvolta Ugo pareva a me ebbro di dolore quan­do smaniava a voce alta; io smaniando in silenzio alla ri­cerca di me stesso e della verità, forse sembrai a lui trop­po misurato. Veramente egli scrisse giusto ed equilibrato quando volle rialzare me in una sua lettera, offendendo se stesso. Pur mancava ad entrambi qualche cosa, e ce la portò il Caloria. L'alta scienza del giovane astronomo, la sicurezza del criterio, la bontà pronta in soccorso dei no­stri giudizi disordinati, ne fecero l'elemento migliore della nostra amicizia.

Già Ugo a Torino mi aveva iniziato al magnetismo animale; assistendo ai passi con i quali egli addormentava sua sorella Amalia, udendo le risposte stranissime della veggente, certo avevamo strappato un lembo di quel mistero che non pareva dovesse lungamente nascondere la verità a noi cara. Fu meglio quando Tarchetti mi mandò La Pluralité des mondes abités dove, saltando ogni barriera scientifica, Camillo Flammarion ci assicura che l'uomo non è la prima né l'ultima incarnazione dello spirito pensante. Eravamo dunque preparati alla nuova parola, ma volevamo che questo verbo ci fosse confermato dalla scienza ufficiale.

E però il nostro Caloria, colta la buona occasione di un'assenza del direttore Schiaparelli (ch'era geloso della sua Specola e non pativa l'invasione dei profani) per tre ore ci accompagnò fin dentro la luna, avvicinandocela tanto che invadeva tutto il campo del cannocchiale e ne avan­zava ancora un bel poco; poi ci additò alla debita distanza i satelliti di Giove e di Saturno, e ci lasciò frugare fra le stelle d'una nebulosa. Ma quando volevamo ricondurre le nuove conquiste dell'aria ai nostri intenti di filosofia metafisica, egli ci trattenne sorridendo melanconicamente (perché sapeva di che pena avrebbe percosso il nostro entu­siasmo) e ci disse che allo stato della scienza non è possi­bile affermare nulla, e nemmeno è lecito negare ogni cosa. A noi sembrò il contrario, e a me sembra ancora; ma Igi­nio nel poco tempo che fu al mio fianco affermò tutto e negò ogni cosa...

A Milano, a me in special modo mancava Ugo. Egli se ne era rimasto a Torino in casa della mamma, e dopo l'ul­tima volta che l'avevamo sorpreso, il giorno delle mie nozze, abbracciato ad un olmo mormorandogli parole amorose di Shakespeare, da quel giorno nulla sapevamo dei fatti suoi...

Ugo venne e subito lavorammo insieme. Ugo a prose­guire la Fosca cominciata anch'essa a Torino, io a finire Due Amori; ma io compii la mia fatica più presto, perché il bisogno mi stimolava più forte. Il mio compagno si chiudeva in sala e produceva poco, non si sentendo tornare le forze di un tempo.

Il modo di composizione di Iginio Ugo Tarchetti è quanto di più straordinario abbia visto il mondo letterario. Egli buttava sulla carta una frase e la ripeteva a voce alta due volte, tre, dieci, senza virgole, senza cadenze, come un muggito prolungato, finché si affacciasse un'altra frase da

consegnare alla carta bianca. Poche cancellature nel mo­mento dell'ispirazione, poche dopo; bastavano due ore di questo brontolio perché Ugo fosse disfatto; e mi veniva poi a leggere le sue paginette, che erano talvolta due o tre, raramente di più.

Appena Iginio ebbe un po' di denaro, gli piacque mutar vita; diceva che era meglio per lui abitare nel centro di Milano, fare i suoi pasti al caffè, trovare gli amici in Gal­leria quando volesse, senza correre mezza Milano per andar loro incontro; capriccio o bisogno d'ammalato. Io mi sentii un po' ferito nel mio sentimento d'amico geloso, ma trovai l'eroismo di perdonare tutto, senza ancora com­prendere bene che quella improvvisata determinazione era nient'altro se non l'agonia incominciata...

La nuova vita durò due mesi non compiti, durante i quali noi ci vedevamo ogni giorno, e spesso Iginio prese il suo posto alla nostra mensa. Qualche volta egli poté sembrarmi freddo, ma era solo fatto indifferente a tutto come vittima segnata alla sua fine. Una volta, invitato da noi a pranzo, all'atto di pigliar posto a tavola si guastò all'improvviso un gran lume antico a olio, che aveva sem­pre fatto il. suo uffizio assai bene. Essendo Iginio super­stizioso, quell'olio versato con abbondanza sulla tovaglia fece impallidire la faccia sua sempre arrossata agli zigomi. Fu un desinare melanconico, e fu l'ultimo.

Pochi giorni dopo, la malattia si dichiarò violenta, e gli amici del "Gazzettino" e del "Secolo" gli mandarono al capez­zale un medico celebrato, il dott. Malachia De Cristoforis, il quale aveva fama di molta dottrina. II male del povero amico nostro era misterioso, e alla diagnosi ingannò tutti i medici. Come il Semenza aveva temuto il mal di cuore, così il De Cristoforis riconobbe la gastroenterite, la quale egli curò col bicarbonato e col bismuto. Si era ai primi giorni di marzo; già il "Pungolo" veniva pubblicando l'ap­pendice della Fosca, senza che il Fortis si fosse avveduto ancora della lacuna.

Dopo sette giorni di malattia, la padrona di casa di Ugo mi prese in disparte a dirmi che, trattandosi d'una infermità probabilmente lunga, essa non poteva più tenere in casa l'ammalato: pensassero gli amici a trasportarlo in una casa di salute. Ne parlai a Cristina e si ribellò anch'es­sa all'idea per noi spaventosa di mandare il nostro grande amico all'ospedale. Subito tornai a dire a Iginio che per curarsi meglio era bene se ne tornasse con noi. Non ci volle molta fatica a persuaderlo, e così mentre Cristina sgombrava il salotto dai mobili arrivati da poco a dare una certa grandiosità alla povera casa del romanziere in erba, per far posto a un letto, io scesi a fermare una carrozza da nolo, risalii a vestire il mio ammalato e me lo portai a casa.

Egli per la via mi sorrideva, tanta era la felicità di uscire dall'inospite letto d'una affittacamere, per tornare a quello che per tanti mesi era stato il suo, e sarebbe poi sempre, se scampasse. Ancora vedo una melanconica im­magine: Ugo salire le scale tortuose ansando, Cristina affacciata al pianerottolo del terzo piano sorridere per fargli coraggio... E per poche ore fu quasi festa in casa no­stra; noi lieti del compito assunto, il condannato sperante da noi la guarigione.

Il Fortis finalmente vide la lacuna della Fosca. Era stato il giovane "Secolo" ad aprire gli occhi a tutti dando la notizia che il romanzo, in corso di pubblicazione nell'ap­pendice del vecchio "Pungolo", non era compiuto, e l'auto­re suo se ne moriva. Subito fui chiamato. Leone Fortis mi proponeva di finire io il romanzo, altrimenti l'avrebbe finito lui; in ogni modo i lettori non si dovevano avve­dere di nulla; quando poi il nostro Tarchetti guarisse, fa­rebbe egli a modo suo la parte da noi sostituita.

Fra me e il Fortis, scelsi d'essere io per tante ragioni: perché gran parte dell'inganno era opera mia; perché ave­vo pratica dello stile d'Iginio e mi pareva di potere fin­gerlo meglio di chicchessia; e infine perché si trattava di mettere mano nell'opera, cioè nel sangue nelle carni dell'amico che era parte di me stesso. Tornato a casa tentai invano di farmi confidare dal morente che cosa si propo­nesse di dire nel capitolo mancante; egli delirando bal­bettò poche parole, poi si voltò sul fianco e cadde in sonno profondo. Per fortuna avevo corretto ogni giorno le bozze della Fosca, prima che si pubblicasse l'appendice; mi accinsi con coraggio all'opera che doveva essere pronta per il domani e nella medesima notte buttai giù quelle dieci pagine che me non contentavano affatto, ma furon pubblicate senza interrompere il romanzo e senza malu­mori del pubblico.

Quel capitolo famoso è il XLVIII. [...]

All'agonia di Iginio io non credeva; durava in me il convincimento che, superata la crisi della terza settimana, l'amico mio avrebbe vinto il tifo, sarebbe rinato e rifio­rito. Talvolta, dopo di aver lungamente vegliato, mi but­tavo sul letto e mi destava una splendida voce di tenore che cantava forte: « Fra i rami fulgida la luna appare », la bella melodia del Petrella. Era il canto dei nostro ammalato delirante.

Da due giorni era venuta da Torino la mamma di Ugo a portargli la carezza dello sguardo amoroso.

La mattina del 25 marzo tutto il castello dei nostri sogni pazzi crollò. Iginio nel delirio persistente metteva le gambe fuor del letto per alzarsi...

« Che vuoi fare? »

« Eh! bisogna pure che vada! »

Una volta mi disse che un mio Cristo antico, dipinto sulla tela, nella notte gli aveva voltato le spalle; poi prese a tremare per il brivido della morte. Aveva gli occhi sbar­rati, batteva i denti. Alla mamma che si Curvò a baciarlo sulla bocca, nel tremito egli morse un labbro, e ne spicciò sangue che gli cadde sotto l'occhio sinistro.

Volle baciarci tutti e perché il dolore mi aveva impie­trito ai capezzale, il moribondo levò il braccio tremante, mi afferrò la barba e mi trasse a sé a darmi il suo ultimo bacio. Mi disse con voce ferma, che ascolto ancora come una grande promessa: « Ciao, neh! stammene bene, verrò a vederti ». Poi se ne mori.

Allungato sul suo letto, sembrò a tutti un Cristo vero; l'occhio mancino socchiuso parve piangere ancora una la­grima di sangue.



(Tratto da Racconti neri della scapigliatura, a cura di Gilberto Finzi, Oscar Classici Mondadori, Milano, 1980.)








Salvatore Farina
nasce a Sorso (Sassari) nel 1846. Vive in gioventù, a Milano, il tempo della scapigliatura; a fianco di scrittori, artisti, musicisti, ne segue le vicende e ne condivide la bohème. Ma il suo carattere e la sua scrittura sono lontani dalla sperimentazione sia te¬matica sia linguistica degli scapigliati. I suoi numerosi romanzi (quasi quaranta!) sono oggi dimenticati; la sua è una narrativa moraleg¬giante, abbastanza ingenua, a lieto fine – in una parola, "rosa" – che ebbe tuttavia grande successo e innumerevoli lettori al tempo suo. Merita piuttosto di essere ricordato per quelle memorie auto-biografiche pubblicate in tre volumi col titolo La mia giornata (1910 15) da cui appunto è tratto il brano sul Tarchetti: un quadro autentico dell'ambiente scapigliato. Farina ritrae Tarchetti alla stregua di un personaggio di racconto – proprio un "racconto nero".


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