QUEL PICCOLO RISO


Margherite Duras

 



Mi hanno detto: "Il suo bambino è morto". È stato un'ora dopo il parto, lo avevo appena intravisto. Il giorno dopo ho domandato: "Com'era?". Mi hanno detto: "Biondo, un po' rossiccio, con sopracciglia arcuate come le sue, le assomiglia". "È ancora Iì?" "Si, fino a domani." "È già freddo?" Ha risposto R: "Non l'ho toccato ma dev'essere così, è molto pallido". Ha esitato, poi: "È bello, anche per via della morte". Ho chiesto di vederlo. R mi ha detto no. L'ho chiesto alla Superiora. Mi ha detto: "Non è il caso". Non ho insistito. Mi avevano spiegato dov'era, in un piccolo locale attiguo alla sala parto, sulla sinistra. All'indomani ero sola con R. Faceva molto caldo. Stavo supina nel letto, con il cuore molto affaticato, non dovevo muovermi. Non mi muovevo. "Come ha la bocca?" "Ha la tua bocca," diceva R. E di ora in ora chiedevo: "È ancora lì?". "Non lo so." Non riuscivo a leggere. Guardavo la finestra aperta, le foglie delle acacie che crescevano sul terrapieno della linea ferroviaria di circonvallazione.

La sera, è venuta da me suor Marguerite. "È un angioletto, dovrebbe essere contenta." "Che cosa ne farete?" "Non so," ha detto suor Marguerite. "Voglio sapere." "Quando sono così piccoli li si brucia." "E ancora li?" "Sì, c'è ancora." "Così, li si brucia?" "Sì." "È una cosa veloce?" "Non lo so." "Non vorrei che venisse bruciato." "Non possiamo farci niente." Il giorno dopo è venuta la Superiora: "Vuole dare i suoi fiori alla Santa Vergine?". Ho detto: "No". La suora mi ha guardato: aveva settant'anni, era consumata dal suo lavoro quotidiano di organizzatrice della clinica, era tremenda, immaginavo il suo ventre nero e avvizzito, pieno di radici

inaridite. Il giorno dopo è tornata. "Vuole fare la comunione?" Ho detto: "No". Allora mi ha guardata. Il suo volto era orribile, era il volto della malvagità, il volto del diavolo: "Eccone una che non vuole comunicarsi e si lamenta perché il suo bambino è morto". Se n'è andata sbattendo la porta. La chiamavano: "Madre". (È una delle tre o quattro persone che ho incontrato nella vita e che avrei voluto sventrare. Sventrare. Una parola che dà le vertigini. Sventrare. Una parola che è fatta per lei, per quel suo ventre pieno di inchiostro nero.)

Faceva molto caldo. Era tra il 15 e il 31 maggio. Estate. Ho detto a R.: "Non voglio più visite. Solo te". Sempre distesa di fronte alle acacie. Talmente vuota che la pelle del ventre mi si incollava alla schiena. Il bambino era uscito. Non eravamo più insieme. Era morto di una morte solo sua. Un'ora fa, un giorno, otto giorni, morto separatamente, morto a una vita che avevamo vissuto insieme per nove mesi e che lui aveva abbandonato da solo. Il mio ventre era ricaduto pesantemente, floc, su se stesso come uno straccio logoro, un cencio, un drappo funebre, una pietra, una porta, un vuoto, sì, questo ventre è il vuoto. Aveva gloriosamente portato in una deliziosa prominenza quel prospero seme, quel frutto (un bambino è un frutto verde che ti fa venire la saliva in bocca come un frutto verde), frutto sottomarino che era vissuto solo nel calore vischioso, vellutato e oscuro della mia carne e che la luce aveva ucciso, che era stato colpito a morte dalla sua solitudine nello spazio. Così piccolo e già così se stesso da quando era morto separatamente da me. "Dov'è?" dicevo a R. "L'hanno bruciato?" "Non so." La gente diceva: "Non è così terribile, alla nascita. Meglio che perderli a sei mesi". Non rispondevo. Era terribile? Credo che lo fosse. Proprio per quella coincidenza tra la sua "venuta al mondo" e la sua morte. Non mi restava niente. E quel vuoto era terribile. Non avevo avuto un bambino, neanche per un'ora, ero costretta a immaginare tutto. Immobile, immaginavo.

Questo, che adesso è qui e che dorme, poco fa ha riso, ha riso a una giraffa che qualcuno gli aveva dato. Ha riso, e quel riso ha fatto un rumore. C'era un po' di vento e una piccola parte del rumore di quel piccolo riso è arrivata fino a me. Allora ho rialzato un po' la capote della carrozzina e gli ho ridato la sua giraffa affinché ridesse di nuovo. Ha riso di nuovo e ho infilato la testa sotto la capote della carrozzina per cogliere tutto il suono di quel riso. Del riso del mio bambino. Ho appoggiato l'orecchio a quella conchiglia per sentire il rumore del mare. L'idea che quel riso si disperdesse nel vento mi era insopportabile. L'ho preso. Sono io che l'ho avuto. A volte, quando sbadiglia, respiro la sua bocca, il soffio leggero del suo sbadiglio. Non sono una madre fuori di testa. Non vivo solo di quel riso, di quel respiro. Ho bisogno di molte altre cose, ho bisogno di solitudine, di un uomo. No. Conosco il valore di un bambino. "Se muore," ho pensato, "avrò avuto quel riso." E perché ne ho perso uno, che sono così, perché so che possono morire. Misuro tutto l'orrore della possibilità di un simile amore. Si dice che la maternità renda buone le donne. È una grossa sciocchezza. Da quando l'ho avuto sono diventata cattiva. Alla fine sono sicura di questo orrore, alla fine lo provo anch'io, alla fine i credenti mi sono diventati assolutamente estranei.


(Tratto dai Quaderni della guerra e altri testi. Feltrinelli, Milano, 2006. Traduzione di Laura Fauzin Guarino.)








Margherite Duras
(1914-1996), atrice dei romanzi L’amante e Moderato cantabile, è stata una delle più importanti scrittrici francese del Ventesimo secolo. Dalla sua opera è stata tratta la sceneggiatura del film Hiroshima Mon Amour.


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