IL SUO MODO DI MANGIARE

– Brano tratto dal romanzo La preghiera dell’assente


Tahar Ben Jelloun

 



(…) Era stato educato bene, ma non sapeva mangiare. Aveva un modo di ingoiare il cibo che disturbava i commensali. Faceva rumore nel masticare molto rapidamente gli alimenti. La mo­glie lo detestava anche per quel suo modo di mangiare. Ma lui esagerava per esasperare il suo astio. In società si sforzava di salvare le apparenze. Ma appena rientrava a casa, si rifaceva ingoiando frutti succosi e imbrattandosi il viso. Gli piaceva, per esempio, mangiare i manghi. “Mi piacciono perché sgoc­ciolano, diceva, e la barba si profuma”.

A volte si chiudeva in cucina, piazzava un enorme spec­chio sul tavolo, ci si sedeva davanti e mangiava gesticolando. Gli piaceva la volgarità dello spettacolo che offriva a se stesso. Si parlava, o meglio si rivolgeva allo specchio e diceva osceni­tà. Snocciolava a gran velocità una serie di insulti che un gio­vane bene educato non oserebbe ripetere. Tutta li era la sua fantasia, il suo coraggio e la sua libertà. Detestava la donna che aveva sposato, una cugina che lo disprezzava perché privo di ambizione. Lui era soltanto un modesto professore che viveva sulla fiducia. Anima troppo angusta, incapace di passione e di follia. Non osava scostarsi dalla linea retta, nel timore di provocare un uragano nel lago stagnante dei suoi pensieri.

In capo a qualche mese era riuscito a stabilire con una ra­gazza, bruna ed esile – una sua allieva alla quale dava lezioni private – un rapporto piacevole, ambiguo e molto discreto. A lei piaceva guardarlo mangiare. Forse li affascinava la libertà animalesca che il professore esibiva appena si trattava di cibo. Lui sapeva che a lei piaceva il suo modo di ingoiare la frutta. Allora esagerava e forzava il rito al quale cercava di dare un aspetto erotico, l'aspetto di una seduzione brutale. Come gli sarebbe piaciuto posare la mano sui piccoli seni della fanciulla o far scorrere il pollice tra le sue labbra. Non osava. Accumu­lava i desideri e li abbandonava al freddo della notte. Per tutta la vita non aveva fatto che accumulare. La memoria ne soffriva, ed era talmente carica che rasentava la soglia dell'amnesia. Era capace di selezionare tutto quello che il cervello registrava. Che pesante bagaglio. All'età di trent'anni, già gli pendeva la testa e la schiena era curva. Sapeva che la memoria gli fun­zionava senza grande sottigliezza né intelligenza. Raccoglieva tutto e ricordava molto. Come una pala meccanica che non di­stingueva tra l'essenziale e l'insignificante. Allo stesso modo ricordava alla perfezione i sogni, ma niente provava che non li

confondesse con i ricordi. Era capace di elencare un numero impressionante di astri. Era il suo divertimento, un gioco nel quale l'esibizione prevaleva sull'intelligenza. Non riusciva a dare ordine alle sue visioni. In esse vi era un disordine sostenu­to dall'improvvisazione. Diceva che “il folle é colui che non conosce l'oblio”. Ora, era deciso a sedersi sulla soglia di una porta, al limitare del mistero e dell'oblio.

Niente di notevole era successo, dunque, nella sua vita. Era quella la pena. Era così arrivato al termine di una modesta vita, senza essere stato veramente utile a qualcuno o a qualco­sa. Si paragonava a un salvagente mai utilizzato. L'aveva letto in un libro che parla dell'uomo e del tempo: “Un salvagente, su una grande nave, può accompagnarla per anni nelle crocie­re, restando sempre legato alla sbarra. Poi, lo si butta via, senza che nessun naufrago se ne sia mai cinto. Migliaia di salvagenti navigano così su tutti i mari e non raggiungono mai la loro destinazione”.

Lui, almeno, stava per essere utile a se stesso e per supe­rare la grande tristezza che era stata la sua vita. La definiva già “vita precedente”. Che impazienza! Di quella vita precedente solo due avvenimenti, uno senz'altro più importante dell'altro, meritavano di essere ricordati: due date incise su una stessa stele, due momenti eletti dalla sua memoria ancora ver­gine, una memoria svuotata, ripulita, sbarazzata della paglia e delle erbe secche. Due avvenimenti che il calendario di fami­glia aveva accuratamente registrati; il primo – non troppo in­teressante – riguardava la sua nascita; il secondo, molto più importante perché liberatore, riguardava la sua morte. Tra i due, non era successo niente, o quasi. Mentre la sua venuta al mondo era un fatto banale, una piccola gioia subito sotterrata e dimenticata, la sua morte – una sparizione progressiva e magica – assumeva l'aspetto di un grande momento della storia; non quella del paese, ma quella del suo ambiente, la storia di coloro che lo avevano conosciuto e poco o male amato.

Questo eccesso di lucidità, questa esigenza nobile e bella, lo rendevano più umano con se stesso. Devo fare pulizia, diceva, fare pulizia dentro me stesso e risollevarmi. Niente può umiliare un uomo, quanto accantonarlo in una vita angusta. Si può umiliare, così, tutto un popolo e abituarlo alla rassegna­zione e al silenzio!



(Brano tratto dal romanzo La preghiera dell’assente, Edizione Lavoro, Roma, 1990. Traduzione di Sergio Zoppi.)








Tahar Ben Jelloun
(Fes, 1944) č uno scrittore marocchino, impegnato nella lotta contro il razzismo. Riporta nei suoi romanzi i racconti, le leggende, i riti dell'area del Maghreb africano e gli antichi miti ancestrali. Ha vinto il Premio Goncourt nel 1987.


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