LUÍSA FIGLIA DI NICA

- Il mare batteva violento contro gli scogli dell'Isolotto-degli-Uccelli e grondava mieloso per i dirupi -


Orlanda Amarilis


 



 

- Tu hai la mania di nascondere il nome delle malattie. Anton è venuto da Santo Antão così ammalato, così magro, così giallo, e tutti sanno solo dire che ha dei sassi nel fegato. Tre giorni disteso su quello sdraio del corridoio con dolori tremendi e senza la forza di parlare, e tu che nascondi, nascondi.

Luísa litigava con la madre. Sembrava sconvolta.

Liti e liti.

- Questa tua fissazione mamma. Hai fatto venire Anton qui in casa, e va a finire che diventiamo tubercolose anche noi due, qua dentro.

Nica, madre di Luísa, non riusciva a dire due parole di fila.

La figlia non gliene dava la possibilità. Nica non era Nica. Era un automa dietro la figlia, a cercare di spiegarle, ma Luísa non la lasciava parlare.

- Dio mio, Luísa - riuscì ad articolare impappinandosi.

Sembrava una terza persona in scena. - Questi discorsi di gente tubercolosa, questi discorsi di sassi nel fegato. Dio mio, Luísa.

- Hai la mania di nascondere la malattie, mamma. Antonio è tubercoloso, te l'ho detto. Va a vederlo, va! Va a vedere la sua bocca sempre aperta per bere l'aria!

E indicava la porta del corridoio.

Questo dialogo si svolgeva in cortile.

- Ah,mamma, Dio non voglia che Anton senta questi discorsi. Luísa si calmò d'improvviso senza motivo. - Poverino, anche se stesse per morire, gli dovremmo parlare in modo diverso, no? Che migliorerà, che passerà, non é così, mamma?

Luísa aprì il cancelletto ed entrò nel corridoio. A metà corridoio si fermò vicino allo sdraio.

- Domani ti porto all'ospedale, ti porto dal dottor Augusto, hai sentito, Anton?

Dal cortile la voce della madre arrivò fino a lei. - Luísa, figlia mia, smettila con questi discorsi. Per amor di Dio, smettila con questi discorsi.

Uscirono di casa ancora presto, per evitare il sole a picco sulla testa. Camminavano un pochino e subito si fermavano per riposare. Camminavano un altro pochino e tornavano a fermarsi. Anton si lamentava e metteva la mano nel punto del fegato. Era lì il dolore. - Sta tranquillo Anton, vedrai che non è niente.

Nica era rimasta sulla porta a guardare la figlia che si allontanava. Qualcuno l'aveva vista tirare Luísa verso casa. Alla fine la lasciò. Cominciò a sfregarsi la faccia con le mani. Sfregò, sfregò, avreste detto che si voleva tirar via la pelle del viso tanto sfregava.

Quando svoltò l'angolo di rua dos Descobrimentos si fermarono un'altra volta. Luísa vide Nuna affacciata alla finestra.

Ah gente, mi ero dimenticata del ballo di questa sera. Che testa, che testa, eravamo d'accordo che avrei procurato un costume di carnevale per lei. E dovevo trovare delle calze bianche per me. E adesso Anton.

- Camminiamo più in fretta, si? Così arriviamo all'ospedale che la visita è già finita.

Luísa alzò gli occhi e allungò lo sguardo fino alla finestra di Nuna. Non c'era più. Aveva tirato a sé e sbarrato le persiane.

Anton cominciò a camminare più in fretta, ma dovette fermarsi. - Scusami, Luísa, non ce la faccio a camminare. Il male non mi dà pace. Mi fermo un po'.

- Sciocchezze, Anton. Cammina, prova e vedrai.

Oh, gente. In questo paese non c'è nessun aiuto per un disgraziato. Né una macchina, né una barella, neppure due assi per portare una creatura all'ospedale. Può benissimo morire per strada.

Anton sudava. La camicia appiccicata al corpo, la testa umida, la faccia spenta.

Passando davanti alla finestra della Nuna, Luísa spiò tra i listelli delle persiane verde scuro. Erano chiusi anche i vetri e non potè distinguere niente oltre la penombra che avvolgeva la stanza.

- Hai portato il berretto, Anton? Il sole sta facendosi caldo, devi coprirti la testa.

Anton tirò fuori il berretto dalla giacca di tela rustica.

- C'è un'aria afosa! Pioverà.

Mise il berretto e si fermò. - Pioverà. - Si guardò intorno. - Pioverà.

- Quale pioggia, Anton. Tu non conosci il caldo di Soncente. Questo caldo viene dallo scirocco. Si alzerà un vento soffocante nel pomeriggio! Ci farà screpolare e bruciare le labbra, se non mettiamo vaselina intorno alla bocca. E verso sera il vento soffierà più forte. Vedrai che roba, la terra entra per le fessure delle finestre; panni, carte, spazzatura scappano via dai cortili insieme al vento; lui li avvolge e scappa per queste strade come bambini che giocano a rincorrersi. A Paul non è così, Anton?

- No, da noi a Paul, quando fa molto caldo e viene un tempo così, un po' strano, è sicuro che avremo la pioggia.

Luísa fece un sospiro. Mi è ventuto in mente a chi posso chiedere le calze bianche. Nair può prestarmi le calze del matrimonio. Voglio mascherarmi da arlecchino meritano. Cappello alto, giacca di satin nero senza maniche, short a quadri bianchi e neri, pettorina plissettata di organdis bianco, calze bianche, scarpe basse nere, un bastone. E guanti bianchi. No, chiamerò in un altro modo la mia maschera. Ecco, ho trovato. La chiamerò, negro quando ha i quattrini.

- Andiamo Anton, dobbiamo sbrigarci.

Egli respirava con difficoltà, (o non respirava?) in maniera affannata.

- Sono così stanco, Luísa. Non ce la faccio. E' ancora molto lontano?

- Appoggiati al mio braccio. Adesso camminiamo con calma, senza fretta. La vedi quella donna là, seduta sulla porta di Dona Angélica? Quando le passiamo davanti non dire niente. Né buon giorno, né buona fortuna, né niente. E' un po' fuori di testa ma è tranquilla.

Luísa contava i passi. Sette, otto, devo ancora cucire i quadrati di satin bianco sopra gli short. E comprare borotalco da spargere nella sala da ballo.

Il braccio di Anton pesava sul suo.

- Quella donna sta di traverso sul marciapiede, Luísa. Non passeremo mica sopra di lei, eh?

Una sensazione di freddo le attraversò il corpo. Debole, senza forza, come potrà scendere il marciapiede per evitare la donna?

La stessa debolezza Luísa la sente dentro di sé.

- Non ti preoccupare. Vedrai che passeremo, si che passeremo.

Trascinano le scarpe sulle pietre col passo di chi non è capace di camminare.

Luísa si fermò vicino alla donna. Questa si alzò e apri le braccia.

Luísa si decise, protese le mani e la allontanò.

- Compermesso, sora Ninha. La strada è fatta perché la gente ci passi.

- Chi ha detto il contrario? La strada è per camminare, la porta è per passare, la casa è per abitare. E io mi sposo e mi metto una corona di ortica.

- Va bene, sora Ninha. Compermesso.

Prima di proseguire Luisa arricciò il naso e storse la bocca. - Avete un odorino di sporco, sora Ninha. E' perché vi trascinate lì per terra. Siete una persona adulta, potreste avere più giudizio. E se vi cambiaste la biancheria di sotto?

La sora Ninha si appoggiò alla porta e scosse la sottana con la mano, poi la sottana di sotto, sfregò i piedi uno sull'altro.

Anton cominciò a tossire. Si teneva il petto con le due mani.

Luisa era pentita di averlo portato senza l'aiuto di nessuno, senza avvisare il dottor Augusto.

Non ce la fa. Anche così, con più di metà strada ancora da fare, non rinuncerò. Ohi, Dio ce ne liberi. Tornare indietro! Manco per sogno. Tornare indietro è tornare indietro. Manco per il cavolo. - Andiamo Anton. Solo un altro pochino.

Anton non aveva colore. La faccia era diventata grigia. Fece l'atto di piegarsi.

Si siede, gente. E adesso?

Luísa guardò i due capi della strada. Si appoggiò al muro della casa del signor Inácio, e tenne stretto il braccio di Anton infilato sotto il suo.

Le case in stile pombalino, tutte avevano le persiane chiuse. Al primo piano, di fronte, si poteva vedere sora Joaninha seduta sulla veranda in una poltrona di vimini. Stava prendendo il fresco del primo mattino. Sora Joaninha si raddrizzò sulla poltrona, appoggiò il mento sul parapetto della veranda e guardò in strada. Poi riprese la posizione di poco prima, mani in grembo, occhi immoti, spirito tranquillo.

Sora Ninha si era seduta sulla soglia della porta. La sottana abbassata sulle gambe un po' discoste per via del caldo, una mano sotto il mento, guardò Luísa così, dal basso.

- Stai appoggiata al muro in un modo. Sembri una ragazza di strada.

La mano di Anton si fece leggera sul suo braccio. Luisa si sentì libera e potè indicare col dito la vecchia. - Dicono che siete fuori di testa. Che siete matta. Ma quando volete insultare un uomo o una donna non siete più matta, vero?

Sora Ninha fece una risatina bassa, come una campanella. - Allora sono fuori di testa, vero? Allora, se una creatura di Dio si appoggia sola come te, così al muro, è o non è una ragazza di strada? Di primo mattino appoggiata al muro, cari miei, o una è un po' tocca oppure è una ragazza di strada. O no?

Luísa sentì un gran caldo in tutto il corpo. Il sangue le salì alla testa.

- Sola? Non avete gli occhi nella faccia, sora Ninha? - Sola, sissignore. Non vuoi essere ragazza di strada ma è come se lo fossi. E allora?

La campanella del suo riso suonò e tremolò un'altra volta.

Sora Ninha è matta da legare. Meglio non dar corda a questa conversazione senza capo né coda.

Malgrado il fuoco per tutto il corpo, come un'ondata di sangue che volesse uscirle di bocca, Luísa doveva risolvere il suo problema e quello di Anton.

Egli aveva tolto il braccio da quello di lei.

- Su, Anton, andiamo. Sora Ninha è matta e a ribattere si perde solo tempo e pazienza.

Girò la faccia verso di lui.

Oh, che stranezza!

- Ohi, Anton, dove sei andato? Non può essere.

Anton non avrebbe mai potuto andarsene di qui. Non riesce a fare due passi di seguito. Non ce la faceva neppure ad arrivare in fondo alla strada. Mancano ancora diverse centinaia di metri. Non può essere.

Luísa fece una corsa fino all'incrocio, scrutò rua de Lisboa. Dio mio, questa è opera di stregoneria. Non ci capisco niente. O sono diventata matta?

Affrettò il passo fino alle vicinanze del Palazzo. Anton non poteva essere passato per la piazza del Palazzo. Le venne voglia di mettersi a gridare, a urlare per radunare gente. Il suo cuore era un tamburo. Digrignò i denti e ritornò nella strada di sotto. Camminava adagio, gli occhi a casaccio. Entrò nel mercato, sali le scale e rimase lì, davanti alla macelleria.

- Oh gente, oh gente, questa è opera di stregoneria!

Soltanto un suono. Le parole non uscivano dalla bocca secca e senza colore. Scese le scale del mercato facendo i gradini a due a due.

Tante mosche nel mercato. Tante mosche sulle banane, le guaiave, i manghi. Mosche che gironzolavano sui sacchi aperti di patate dolci, sui mucchietti di manioca, sulle cime dei pezzi di canna da zucchero.

Giunta sulla strada, non sapeva più da che parte andare. Dietro di lei rimase il vociare alto delle donne, il ronzio pigro del mercato dove un bambino rubava arance e chiedeva qualche spicciolo per un dolcetto di cocco.

Camminò, camminò. Tagliò per vicoli e strade. Non era più Mindelo, la sua terra. Non erano più le strade della morada , di signorinette che passeggiavano, con infradito di pelle di serpente della Guinea e vestiti di satin comperati al negozio degli indiani. Dove ragazzini vendevano di contrabbando sigarette Gold Flake, vassoi di alluminio, cioccolata dei piroscafi, margarina dell'Argentina, carne del Nord così saporita e persino cuscini rubati a bordo di navi norvegesi, svedesi. Dove i barattoli di conserva e i formaggi olandesi? Che terra è questa dove si vedono solo gramigna e certe pietrone, e lei scivola attraverso un imbuto talmente stretto che neppure un bruco ci potrebbe passare?

Un vento la spinge fuori dalla sua terra, per uno spazio di bufere, di sassi, di vulcani morti, di mulinelli di polvere. Si tappò il naso con le due mani e camminò a capo chino, il corpo ad arco, contro la tempesta senza pioggia, senza tuoni o lampi. E questo sgretolarsi di rocce sfatte in pietrame sempre dietro di lei. E lei sempre in fuga e le pietre a balzi, in tragitti precisi e fragorosi. Sono passi di canelinha . Canelinha è talmente leggera, talmente un corpo unica di gambe braccia capelli, un tutto canelinha , tibia o perone, è lo stesso, è sempre canelinha .

Luisa faceva lunghi passi nell'aria, le gambe, distanziate tra loro da un allenamento olimpionico, toccavano il suolo con precisione. Poteva competere con canelinha . Ogni passo misurava un giorno.

La bufera si calmò, era un'esalazione di caldaia, un'esalazione di olio di curcas. Strinse il naso di nuovo. Una schiuma di olio dilagò davanti a lei. Cominciò a raccogliere semi di curcas.

Saltavano salti di canelinha e lei li afferrava e li infilava via via in una punta. Poi li lasciava cadere lungo la strada e gli avvicinava un fiammifero. Ripetè questa operazione un centinaio di volte, cioè cento canelinhas di volte. Ogni canelinha dovrebbe avere la misura di un nastro color ruggine.

Illuminava via via la superficie e scivolava in punta di piedi. Provò un ballo e rise forte. Camminò, slittò, scivolò carponi. Attraversando colline di schiuma, sempre in punta di piedi sulla cima di ogni cucuzzolo, scalò onde di olio di curcas molli e tiepide, afferrandosi a rami di zucca come ragni grigi tra la cosificazione della vita senza vita.

Non arrivava più al termine della giornata e aveva oramai perso il conto del tempo. Sentì lontano, là dall'altro lato, l'eco della risata di quando aveva provato il ballo, questo ballo di canelinha , della risata che viaggiava nel tempo e la cercava un'altra volta.

Il bravo figliolo torna a casa, pensò. Hai capito Luísa? Io-Luísa, tu-Luísa, lascia perdere le risate senza fine e sbrigati. Mi sbrigo. Io-tu-Luísa andiamo. Va e entra. Luísa corse, corse. Udì la tromba e corse di più. Volò. Arrivare in tempo prima che i portoni sichiudano. La tromba suonava più vicino, i portoni, eccoli. Al morire dell'ultimo suono di tromba, i portoni si chiuderanno per sempre. State bene attenti, per sempre. Volava Luísa, i capelli sciolti, scoperti i seni vergini, capaci di allattare quante migliaia di figli fossero venuti.

La tromba esalò l'ultimo arpeggio in agonia. I portoni si chiusero senza fretta. Luísa gridò (ululò?) e si gettò contro i battenti dove picchiò cento volte con tutta la forza dei pugni. Scivolò, le mani scesero lungo la superficie del portone e si lasciò allora andare nel mare di schiuma della curcas calda.

Il mare batteva violento contro gli scogli dell'Isolotto-degli-Ucelli e grondava mieloso per i dirupi. La madre la sollevò da terra, rigida, le labbra viola, la bava negli angoli feriti della bocca.

Non si svegliava più. La chiamò per nome, la scosse. Luísa, Luísa, Luísa.

La trascinò per il cortile fino alla porta del corridoio. Diede un sospiro di sollievo. Per fortuna nessuno aveva fatto caso a Luísa caduta sulla porta di casa. Meno male. A Soncente si divertono a inventare cose, subito sarebbero cominciati i pettegolezzi basati su niente, storie di innamorati, aborti, fantasie a non finire e il nome di una ragazza giovane sporcato senza alcun motivo.

Nica non sa contare le notti in bianco al capezzale della figlia.

E lei senza svegliarsi. Dieci, venti, cento anni? Nica ha perso il conto.

Tatóia si insospettì del silenzio della casa di Nica e le battè alla finestra. Nica aprì uno spiraglio. Teneva un panno ripiegato sulla fronte, annodato dietro la testa.

- Ho un mal di testa, Tatóia. Non riesco neppure ad aprire gli occhi.

Gli occhi di Nica sembravano due borse rugose.

- Ah Nica, sorella mia, questo è un ragno che ti ha pisciato sulla palpebra. Lasciami vedere. Apri questa palpebra, chiudila. Adesso scoppia. Apri, chiudi. E' stato un ragno, è stato. Non hai dell'acqua purificata? Se non ce l'hai te ne porto una bottiglietta. Questa settimana ne ho fatto purificare quasi cinque litri.

Nica teneva la testa appoggiata alle persiane semiaperte e ascoltava con gli occhi chiusi. Tatóia parlava, ah quanto parlava!

- Preferisco l'acqua purificata dal sor Henrique. E' un bravo medium e attira soltanto influssi buoni. Nei giorni di sedute di pulizia psichica, porto sempre acqua da purificare. Dopo ti porterò un po' di quell'acqua per fare gli impacchi sulle palpebre. Si sgonfieranno in un baleno.

Nica tossi.

- Allora, Nica, non ho visto la Luísa. Non c'è?

Nica fu presa dal panico. Tremava senza sosta.

- Nica, sorella mia, sei agitata. - Tatóia si diede a fare supposizioni. Queste ragazze di oggi cominciano a far l'amore, cominciano a uscir di notte, dopo sono aborti o un neonato tra le braccia. - Su, Nica, non ti agitare.

- Entra Tatóia, entra. Ti apro la porta.

Nica chiuse le persiane, chiuse i vetri e andò a togliere il catenaccio dalla porta.

- Entra, vieni a vedere la Luísa. Le è capitato qualcosa l'altro ieri mattina e fino a oggi non si è ancora svegliata.

Chiuse laporta e si mosse verso l'interno della casa a fianco di Tatóia.

- Lasciami fare il segno della croce. Padre, Figlio, Spirito Santo. Dio scampi e liberi!

Tatóia era perplessa e non che esagerasse. Si tratterà di un aborto? O sarà stata sedotta? Nica la condusse nella camera di Luísa.

Il letto appoggiato alla parete, Luísa tutta coperta, la testa sotto Una coltre di cotone. In un angolo, una macchina da cucire a manovella sopra un tavolo. Una finestra dava su un cortile abbandonato.

- Sta così da non so quanti giorni! Non mangia, si lamenta tutto il tempo. Le ho infilato qualche cucchiaiata di brodo giù per la gola, ma lei sputa tutto, spezza il cucchiaio con i denti, si dimena, un inferno.

- Non hai chiamato il dottore, Nica?

Seduta su una sedia, le dita delle mani intrecciate, i pollici che ruotano uno dietro l'altro. Tatóia, di fronte a lei, segue con molta attenzione tutto quanto l'amica le sta raccontando.

- Con questo mal di testa, non ho potuto pensare a nient'altro. E' una cosa diversa, non è malattia per dottori. Quando l'ho trovata caduta sulla porta di casa, da alcuni giorni andava facendo discorsi strani. Il più delle volte mi lasciavo prendere anch'io da quei discorsi. Sapevo che era tutta un'invenzione, ma stavo a quei discorsi.

- Che specie di discorsi?

Ah, la mia ansia di sapere. Tatóia, sta calma, abbi pazienza. Non stare li a sollevare e abbassare il tuo petto piatto. Questi son discorsi di spiriti, son discorsi di morti-vivi, di stregoneria, di diavoli. Niente domande. Sbrigati Tatóia, torna a casa, questo posto dev'essere stregato, non riscaldare questa sedia di paglia dove stai seduta. Gli spiriti possono possedere anche te.

Nica cominciò a singhiozzare.

- Ah gente, lei parlava solo di Anton. Anton di sopra, Anton di sotto, e quando io provavo a dire qualcosa, interrompeva immediatamente il discorso. Litigava con me, Tatóia. Non c'era verso di ragionare. Sono stati giorni e giorni di insulti. Ma io lo sapevo, Tatóia, e lo sai anche tu, Anton, il nostro cugino di Santo Antão, là, della Ribeira do Paul, è morto tanto tempo fa, la Luísa non era ancora nemmeno nata.

- Dio mio, Nica, Dio mio. Questa casa è stregata. Adesso vado, Nica, adesso mando un'ambasciata al signor Henrique. Dovete fare pulizia psichica se no voi, qui dentro, diventate matte del tutto. E lei, Nica, ha bisogno di una buona dose di bastonate, Nica.

La stanza si oscurò. Oppure tu, Tatóia, sei diventata cieca all'improvviso? Frammenti di terra tirati contro la parete si sfacevano spargendosi sul pavimento. Il copriletto era tutto inzaccherato. Sembravano schizzi di fango. Nica afferrò la figlia e la scosse. Luisa era tutta una convulsione e un digrignare di denti.

Tatóia fuggì lungo il corridoio battendosi il petto e chiamandosi, Tatóia, Tatóia!

Frammenti di fango le cadevano addosso.

Alla larga i cattivi influssi. Le mani battono il petto con vigore, Tatóia, Tatóia, Tatóia! (fosse mai che gli spiriti si impossessassero anche di lei), la voce accompagna questa isteria.


Carnevale 1977

 


Note:

Soncente: il nome dell'Isola di São Vicente in creolo. La lingua comumente parlata a Cabo Verde è il creolo - con differenze tra isola e isola - formatosi dalla mescolanza del portoghese con le diverse lingue africane degli schiavi deportati nell'arcipelago.

Canelinha: osso della gamba in forma di fantasma che, di notte, salta e balla.

Morada: il centro storico di Mindelo, capoluogo dell'isola di S. Vicente.

Curcas: la pianta africana jatropha curcas, dai cui semi si ricava un olio usato sia come antidolorifico che per alimentare le lampade. Per l'illuminazione, la popolazione povera di Cabo Verde usa anche semplicemente i semi infilati in una punta di ferro. Semi e olio di curcas vengono pure usati nei rituali magici.





(Tratto dalla raccolta di racconti Soncente - racconti d'oltremare , Guaraldi-Aiep editrice, San Marino, 1995. Traduzione di Maria Teresa Palazzolo.)




Orlanda Amarilis, nata nell'isola di Santiago dell'arcipelago di Capo Verde in una famiglia di letterati (il padre ha lavorato al primo dizionario creolo-portoghese), ha frequentato la scuola a Capo Verde, poi a Goa (ex "indie portoghesi"), laureandosi infine in pedagogia a Lisbona. Ha svolto attività culturali in molti paesi africani, in America, in Europa. I suoi racconti sono stati tradotti in Germania, USA, Ungheria, Olanda. Ora vive a Lisbona dove insegna lingue africane all'Università.


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