LORD SPLEEN

Giovanni Faldella


 



 

Lord Spleen ha le paturnie: con un mezzo milione di rendita, egli ha assaggiato tutto quello che l'arte cucinaria della nuova civiltà può ammannire di più vario e di più squisito al palato di un ghiottone, dai crostini tedeschi alle lasagne lombarde, dalle lingue di pappagallo alle creste di galletto, dal sugo di anguilla alla salsa di pomi d'oro e alla cervellata di canarini; tanto che avrebbe potuto dir di lui un cinquecentista: "gli fanno afa i fichi fiori".

Quanto a' vini egli ha tracannato del bordeaux e dello sciampagna a isonne, e si è persino bruciata la lingua centellando i più indiavolati liquori della Russia. Ha sentito trillare la Patti con il suo agile vocino da soprano, le ha voluto donare un braccialetto tempestato di diamanti si è riempite le orecchie del vocione di Alessandro Bottero che rimbomba come un cannone in chiave di basso e lo ha regalato di una tabacchiera d'argento. - Di viaggi ne ha fatto un subbisso; andò a risico di morire assiderato il Groenlandia, si allettò per un colpo di sole alla testa nel Brasile, e dimorò due mesi a Madera, dove il clima è sì dolce, che vi possono tentare una guarigione anche i tisici di terzo grado. - Bello per ciò che fa la piazza, egli conobbe le donne più avvenenti di questo mondo, la bruna creola dalle labbra roventi e rovesciate, la tedesca dalle spalle d'alabastro e dalle trecce di capecchio, la severa circassa dalla persona ritta sopra di sé come una colonna l'italiana languida come la nostra razza sfatta e procace nella sua languidezza.

Scusate, se l'ho detta grossa.

Che resta ancora a godere e a provare in questo mondo a lord Spleen? Puà! Ammazzarsi per ammazzarsi.

Tutto visto, considerato, vagliato, ventilato e burattato egli accetta il partito. Da quell'eteroclito che egli è, scrive una lettera di congedo alla sua ultima amanza spolverando le parole con rena di gemme triturate, e lascia per testamento le sue sostanze ai primi dieci che si uccideranno fra due mesi dalla morte del testatore, poi se ne viene difilato in Italia nella terra classica degli stiletti e dei veleni.

Calatoci giù come un baule dal Moncenisio, ancora con il sistema Fell, appena si trova a Torino, egli è già dal capo-stazione a ordinare una carrozza a salone per andare a Venezia. Infatti la mattina seguente a fine di arrivare più presto a Venezia, egli monta sopra uno di quei convogli-tartaruga, che si fermano ad ogni osso di formica ossia ad ogni villaggio. Ma non importa; egli ha pagato il suo biglietto, ed ha diritto di godere a dilungo dei soffici canapè della sua elegante vettura tutta specchi e invetriate, sui quali canapè si sdraia e si addormenta in un leggiero pisolino, mormorando a quando a quando fra i denti: «Presto ammazzatomi, grande bella emozione!...».

«San Bartolomeo! San Bartolomeo!» sbraita la voce del guardaconvoglio: «San Bartolomeo!» o il nome di qualche altro santo che finisce in eo .

Lord Spleen si sveglia, si frega gli occhi.., e discende a S. Bartolomeo, senza neppure incomodarsi a chiedere quante centinaia di chilometri sia distante da Venezia. Infilata la via maestra, che era l'unica del paesello, si ferma alla prima insegna di osteria, che era quella del Pellicano, si fa dare una cameretta presso al solaio, e vi si accampa tirando fuori dalla valigia un astuccio di pistole, ciascuna delle quali litigava all'altra la maggior lucentezza del calcio. Le ripassa attentamente tutte arricciando il naso, quando vi trova qualche tacca, finalmente ne sceglie due dicendo: «Oh, queste dare emozionissima!». Quindi se ne punta una nel buco dell'orecchio destro, e l'altra nel buco dell'orecchio sinistro, ripiegando le mani in modo che parevano due manichi di un vaso etrusco.

Signorine! Turatevi anche voi le orecchie, perché a momenti sentirete lo scoppio di un terribile poun!... Lord Spleen ha già messo la sue dita sui grilletti... già... Che è? Che non è? Si sente da basso un pissi pissi che diventa un patassio e poi addirittura un diavoleto. L'inglese scompone la figura di vaso etrusco, posa le pistole sopra il tavolo e discende le scale lemme lemme borbottando a fior di labbra: «Pazienza! Mi ammazzerò fra un quarto d'ora!».

Il fracasso lo faceva l'oste, il quale urlando e nabissando carminava con un poderoso randello la Betta, la sua povera figliuola, una ragazza assai appetitosa, sebbene fosse tozzotta, avesse i capelli rossi, la faccia seminata a lenticchie e le mani che puzzavano di lavatura di piatti.

Lord Spleen si fece a domandare gravemente il perché di quell'armeggio. E il babbo a rispondere che la sua Betta era una matta cialtrona, perché - figurarsi! - non voleva saperne di sposare il maestro del villaggio, una coppa d'oro, una vera anima di messer Domeneddio... che aveva parecchie staia di terreno al sole. E la Betta a soggiungere che se ne forbisse la bocca, perché quel maestro era un brutto arnese, un vecchio tambellone che fiutava tabacco, dove essa era intabaccata di un magnano, il quale, egli è vero, portava le mani e il viso neri come la cappa del camino ed era povero come Giobbe, ma aveva un paio d'occhi furbi e due labbra di cinabro da far venire le tentazioni a Sant'Orsola e alle sue undicimila vergini. «Miss Betty, quanto avere of patrimonio vostro maestro?» domandò lord Spleen, il quale aveva già rimandato a domani la emozionissima delle pistolettate. «Figurarsi,» salta su a dire il padre di Betta «passeranno le ottocento lire...» «Miseria, molta miseria! Pazienza, fossero sterline! Ebbene, jo will fare vostro magnano donescione duemile lire non sterline. Voi siete contento, miss Betty?» A quella sparata miss Betty gli salta al collo, l'oste si leva rispettosamente il berretto, e il magnano sbuca ancor esso dalla bodola della cantina, dove era andato ad appiattarsi al sopravvenire del crudo padre. Vorrebbe stringere i ginocchi al munifico inglese, baciar Betta e chieder scusa all'oste tutto in una volta: e finisce per trottare a casa arzillo e gaio, come fosse diventato padrone di tutte le bicornie dell'universo.

Sparsosi il rumore del nuovo caso nel paese, si accozzano insieme due violini, un clarinetto e un contrabbasso, e vanno popolarmente a fare un'ovazione musicale all'Inglese, al quale si gonfia il cuore e scappa per sempre la voglia di ammazzarsi. Il cattivello si accorse che a questo mondo, quando taluno ha mangiato, ha bevuto, ha viaggiato e ha donneato, gli resta ancora una cosa a fare, la più dolce di tutte, cioè fare una buona azione, come era stata la sua di levare dal purgatorio dell'amore e trasportare nel paradiso del matrimonio le due anime del magnano e della giovane ostessa. Oramai, assaggiato il frutto, ci ha pigliato gusto. Quella sera, a disfogare la piena della sua contentezza, non trovava altro modo più eloquente che fare stappare, mescere e ristappare bottiglie di barbera e di grignolino. In seguito annaspò qualche cosa di meglio.

Fissata la sua stanza nel paese e compratovi un magnifico podere, vi fondò una scuola pratica di agricoltura, una cassa di risparmio, in cui i gruzzoli del sudore facessero i piccoli, una banca del popolo che prestasse il denaro a lieve usura per salvare la povera gente dalle unghie degli strozzini, una biblioteca popolare circolante, una società operaia, un magazzino cooperativo, come lo chiamano, per evitare la carezza delle grasce, un'arena ginnastica e un coro d'orfeonisti; insomma delle somme, diventò la benedizione dei terrazzani di San Bartolomeo. L'astuccio delle pistole non uscì più dalla valigia dove l'aveva riposto frettolosamente al primo strofinio dei violini della serenata.





(Racconto tratto dall'antologia Racconti neri della scapigliatura , a cura di Gilberto Finzi. Oscar Mondadori edizioni, Milano, 1980.)





Giovanni Faldella nasce a Saluggia (Vercelli) nel 1846, il padre è medico. Studia legge ed esercita per breve tempo la professione di avvocato. Ma fin da studente inizia a scrivere e a collaborare a rivi¬ste letterarie. Fa parte, con Giacosa, Camerana, Sacchetti e altri, del gruppo piemontese legato alla "Dante Alighieri" e alla rivista "Serate italiane" del Molineri. Collabora poi (con Praga, A. Boito e altri) alla milanese "Rivista minima" diretta da Salvatore Purina. Scrive in questo periodo, fra sperimentazione e ironia. Figurine (1875), suo principale libro di racconti (ristampato da Giansiro Ferrata, Bompia¬ni, Milano 1942). Nonostante sia scrittore d'ingegno e inventivo, si dà al giornalismo e poi alla politica- "di sinistra" all'inizio, viene eletto deputato nel 1881 e successive legislature; conservatore e antisocialista, diventa senatore nel 1896. Sempre più preso dalle at¬tività giornalistiche e politiche lascia in secondo piano la letteratura. Muore a Saluggia nel 1928. Tra le opere narrative: Rovine (1879) e la trilogia dì romanzi Capricci per pianoforte Tota Nerina (1887), La Contessa De Ritz (1891), Donna Folgore (postumo, 1974). Tra le opere giornalistiche e storico-politiche: A Vienna. Gita col lapis (1874), Un viaggio a Roma senza vedere il papa (1880), Roma bor¬ghese (1882). "Gentilina" e "Lord Spleen" sono due Figurine. All'amicone Luigi Egidio Nicetti, d lattante valente che non spero emeri to, di letteratura, di avvocatura e di pollicoltura.


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