MIO PADRE
- Brano tratto dal breve romanzo autobiografico Il naso triste di Bartali -
Tullio Bugari
(...) La sua bicicletta non era una macchina elegante, forgiata apposta per un compito unico e specifico, studiata su misura per il suo eroe di turno. Era una biciclettaccia qualunque, da donna, una delle tante in circolazione allora, goffe e ineleganti, sempre un po' precarie e lente, quasi stanche, frenetiche solo quando è la forza di gravità che le trascina in avanti verso il fondo delle discese e allora deve soltanto affidarsi alla sorte se vuole conservare la speranza di arrivare sana e salva, tutta d'un pezzo. È così dunque che arrancava perché così era normale arrancare. Intanto, anche il sole spuntava e iniziava ad alzarsi verso il giusto lato del cielo, ma lui per lo più seguitava a ignorarlo, aveva ancora da pedalare e imprecare, solo a tratti lanciava veloce verso l'alto qualche sguardo.
Due ore, tre, questo era il tempo del suo viaggio per recarsi al lavoro una volta alla settimana. Per il resto di quei giorni era il lavoro ad attenderlo, o la fatica, e non c'erano più viottoli o strade su cui pedalare ma solo sentieri prati e montagne, e rocce e buche da scavare con pale e picconi, e poi pali di legno da trasportare in spalla e innalzare dritti verso il cielo come tanti minareti piangenti, obelischi piantati nell'aria, e poi i fili del telegrafo da appendervi sopra e collegare tra loro. Un po' come si addobba un presepio o un albero della cuccagna. Si arrampicava su per quei pali calzando attorno alle scarpe delle ganasce chiodate, diventava come una scimmia, con i piedi legati e conficcati nel legno. Ad ogni passo doveva strattonare il piede, liberarlo quasi con dispetto dalla presa, dondolarlo un attimo nel vuoto per fargli recuperare forza ed equilibrio e poi via di nuovo a conficcarlo in quel legno appena qualche centimetro più in alto. Poi era la volta del lato opposto del corpo a entrare in azione: doveva muoversi un pezzo alla volta per poter procedere tutto intero. Erano invece le spalle e le braccia che strette attorno a quel palo si conquistavano la strada verso il cielo. Lo sguardo restava libero e continuava a correre avanti e indietro. Ora fissava veloce la punta del palo sempre più vicina e immersa sullo sfondo delle nuvole. A noi che stiamo qui, comodamente sdraiati, quel palo potrebbe sembrare la penna di un cartonista che disegna viaggi nel cielo, là dove il nostro sguardo di solito non arriva. Il suo, di sguardo, indugiava appena e poi subito si volgeva di nuovo alle ganasce chiodate dei sui piedi, non appena il colpo assestato sul legno scuoteva tutto insieme lui e il suo palo in una sola vibrazione. Ma trovava sempre anche un barlume di tempo, come uno scatto, per volgersi all'ampiezza del paesaggio che gradualmente si allargava giù in basso. Questo lo so per certo, l'ho sempre capito dal modo in cui lo raccontava. Come erano ampi quegli spazi, così pieni dell'aria e delle voci delle persone che li si trovavano. Era così che nel dopo guerra quei piccoli uomini stavano ricostruendo il sistema di telecomunicazioni del nostro paese, e probabilmente la fatica nemmeno pesava perché tutto questo forse era addirittura normale per loro, non avevano capito di vivere in realtà dentro al mito, con quel loro naso triste come una salita di Bartali. Nel paesaggio di quel mito loro non occupavano la scena centrale, si erano invece incamminati per quella piccola stradina laterale, fino a togliersi quasi dallo sguardo, dove nessuno più li vede, e li erano diventati loro l'accenno alle cose reali, alle grandi idee e sogni, quelli di cui l'artista cantore del nostro mondo ha bisogno per sorreggere l'intera storia.
Poi, una volta alla settimana ecco di nuovo la stessa strada, questa volta nella direzione inversa, quella del ritorno, del racconto che si prepara ad essere narrato. Le discese polverose dentro le quali si era gettato ora l'attendevano dall'alto, e dunque ancora ad arrancare con tutto il corpo, le spalle e le anche e quel manubrio che ogni volta sembra volersi spezzare in un colpo solo, così come potrebbe spezzarsi la schiena che si agita lenta e tesa come una corda, sotto quel sole ancora caldo dell'ultimo pomeriggio. L'ultima immagine che mi appare è una surplace gesticolante sul crinale della collina di fronte alla nostra casa, ferma per sempre come un mimo silenzioso, senza più scricchiolii di alcun tipo che gli scorrono dentro. Rasserenato.
(Brano tratto dal breve romanzo autobiografico Il naso triste di Bartali - Ritratto di Alberto Bugari, Edizioni Alba Bugari, Ravenna, 2008.)
Tullio Bugari è nato a Jesi nel 1952, in una casa di campagna che oggi non c'è più: tolta per far
posto ad una strada. Laureato in filosofia all'Università di Roma nella metà degli anni Settanta, si è occupato per molti anni di ricerca sociale, di mercato del lavoro e di immigrazione, negli ultimi venti anni si è dedicato all'intercultura, collaborando con molte scuole e associazioni; nel 1999 ha scritto, insieme all'amico di viaggi Giacomo Scattolini, il libro "Izbjeglice/Rifugiati, storie di gente della ex-Jugoslavia", con un racconto di Predrag Matvejevic (ed. Pequod, Ancona); nel 2000 ha realizzato il volume "Itinerari, storie di viaggio dentro al mondo", racconti di migranti raccolti nelle Marche, in Catalogna, in Svezia e in Germania, nell'ambito di un progetto Comenius (tra intervistatori, intervistati e interpreti sono state coinvolte quasi cento persone che hanno comunicato tra loro in un intreccio caotico di svariate lingue); nel 2004 ha pubblicato con Franco Angeli, nella collana La Melagrana, "Parole condivise", il racconto a più voci di un'esperienza di accoglienza scolastica dei minori stranieri nelle scuole di Ancona. E' Presidente dell'Associazione Casa delle Culture di Jesi e dal 2006 cura Alfabetica, incontri letterari con i nuovi scrittori in lingua italiana .
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