UNA SERA DI NOVEMBRE


Anna Maria Bonfiglio

 



Era davanti a me e sembrava volesse parlarmi. Invece se ne stava in silenzio, quasi aspettando che io le leggessi negli occhi le domande che intendeva rivolgermi. Eravamo arrivati a Villa Esperia, un esiguo spazio di verde chiamato parco. Il panorama non era esaltante, anche se in lontananza si scorgeva un'unghia di mare. Era veramente molto strano per me stare lì, alle dieci del mattino di un giorno feriale, fra una mamma che imboccava il suo piccolo capriccioso, una bicicletta abbandonata ed un gruppo di anziani che giocavano a scopone utilizzando una panchina come tavolo. Ma di quel mattino tutto si poteva dire tranne che rispettasse la routine quotidiana.

Avevo ordinato un caffè e, mentre seguivo il rituale della sua preparazione, una voce alle mie spalle aveva detto "ciao". Era impossibile non riconoscerla. Avevo risposto "ciao" voltandomi e la mia voce aveva preceduto il gesto.

"Cosa fai da queste parti?" Cercavo di tenere a freno l'accelerarsi delle pulsazioni.

"Quello che fai tu, aspetto un caffè." Aveva risposto senza tradire alcuna emozione. Come sempre del resto, la sua forza era la serenità. Prendendo la mia tazzina le avevo fatto cenno di seguirmi ad un tavolo.

"Strano che in tutti questi mesi non ci si sia mai incontrati."

"Sono stata a Genova."

In dubbio fra la curiosità di sapere perché fosse stata a Genova e il desiderio di non apparire indiscreto, avevo fatto la domanda meno adatta:

"Hai rivisto Paolo?"

"No. Avrei dovuto?"

"Credevo fossi interessata a lui."

"E ti sbagliavi. Non m'interessa un uomo solo perché tiene sulla propria scrivania un fermacarte d'oro."

" Ma Paolo non è solo ricco, è intelligente, brillante, provvisto di quella determinazione che ne fa un uomo di successo. Non certo un oscuro omuncolo alla ricerca di se stesso, come me."

"Non sei cambiato. Non cambierai mai."

Si era alzata per avviarsi verso l'uscita. L'avevo seguita. Non volevo che il nostro incontro fosse risucchiato dal vortice di quelle battute insensate.

Il vento le spingeva i capelli all'indietro, le sollevava i lembi del soprabito, ma lei non sembrava infastidita. Io le stavo dietro solo di un passo ed ora ci trovavamo su quella panchina, in silenzio, un silenzio di cinque mesi, cieco, vuoto, sospeso. Eravamo in attesa che qualcuno facesse suonare il gong della ripresa: due combattenti che aspettavano ognuno la mossa dell'altro.

"Hai ripreso a scrivere?"

Dagli abissi dell'origine arrivava l'attacco frontale.

"No, ma sono passato ad un altro giornale, curo la terza pagina. Ho fatto carriera."

Dalla sua smorfia avevo capito che aveva raccolto l'ironia.

"Sempre con la tua inquietudine, la tua voglia di autodistruzione."

Mi domandavo quali erano fra di noi i nodi da sciogliere e se fosse stato ancora possibile scioglierli. Chiederle perché era andata via significava riaprire caverne dove erano sepolte ragioni subdole che riportate alla luce avrebbero ammorbato il piacere dell'incontro.

Quella sera di novembre era ancora dentro di me come una questione irrisolta.

Stava seduta accanto a me, dentro l'utilitaria che percorreva la strada verso casa, dopo una serata né migliore né peggiore di tante altre.

All'incrocio con viale Piemonte un filo di fumo biancastro, che da una fornacella si levava verso il cielo, aveva attirato la sua attenzione.

"Guarda -aveva detto- le caldarroste." E mi aveva fatto cenno perché mi fermassi. Ma io ero andato oltre, ignorandola.

Era bella. Quella sera aveva suscitato interesse ed ammirazione, sicuramente molte donne l'avevano invidiata e Paolo l'aveva corteggiata senza ritegno nonostante la mia presenza. L'aveva requisita, divertendola con battute maliziose e pettegolezzi: il sindaco che sniffava coca, il direttore di una certa banca colluso con la malavita, il ricco commerciante che faceva da prestanome per acquisti illeciti. Poi, prima che iniziasse il concerto e per il salone di Palazzo Chiaramonte si diffondessero le note del notturno di Chopin, le si era seduto accanto e le aveva poggiato la mano su quella parte del collo che sta sotto l'orecchio, come se volesse sentirle il pulsare delle vene. Il gesto gli aveva scoperto il polso dove riluceva il rolex d'oro. Mi ero sentito inadeguato e depresso, con il mio frusto gessato di rappresentanza e l'antiquato zenith paterno.

Sulle scale di casa ci avevano accolto lo stantio odore del cavolfiore cucinato dai vicini e uno scarafaggio, che si era involato alla fioca luce del pianerottolo.

Appena in camera, lei si era tolta le scarpe per massaggiarsi i piedi. Dalla calza smagliata veniva fuori il suo alluce destro, piccolo e rotondo, roseo e tenero come quello di un bambino. Ma la tenerezza nei suoi confronti ormai era una libertà che non mi concedevo più.

"Un giorno o l'altro Paolo ti inviterà ad andare a casa sua." Avevo detto.

"Se ci inviterà, andremo."

"Non fare la furba, hai capito benissimo cosa intendo."

"Adesso ti sei scoperto geloso?"

"No, puoi scegliere e se Paolo ti piace."

"Non mi ucciderai, lo so."

"Con lui la vita sarebbe diversa, lui è riuscito a diventare qualcuno."

"Sei acido. Ti diverti a demolire gli altri e ad esaltare le tue frustrazioni. D'accordo, non sei il grande scrittore che pensavi di diventare, sei deluso e amareggiato perché nessuno ha ancora riconosciuto il tuo talento, ma questo non dimostra che sei un fallito, hai altre possibilità."

"Quali? Fare il cronista sportivo in un quotidiano di provincia dove ti succhiano il sangue non offre possibilità."

"Sguazzi nella tua insoddisfazione senza renderti conto che coinvolgi e distruggi chi ti sta vicino. Non esistono solo l'ambizione ed il successo, si può essere importanti anche in altri ruoli."

"Per esempio?"

"Quello di padre, per dirne uno."

Mi aveva strappato un gesto di fastidio.

Ormai il nostro dialogare non era che la forma svilita dell'intesa di un tempo.

Avevamo fatto l'amore nell'illusione di dimenticare il litigio, ma la rabbia ci spingeva a strapparci le lenzuola come fossero la nostra pelle. Il nostro amore si era ridotto ad una lotta che si consumava senza spargimento di sangue, una danza tribale nella quale bruciavano i resti di quella passione che ci aveva condotti al matrimonio.

Il giorno dopo, tornando a casa, non l'avevo trovata più.


Il sorriso era sempre stata la sua arma privilegiata, un sorriso che si disegnava innanzi tutto nell'indaco dei suoi occhi. Credevo di averlo dimenticato, ma ora che lei mi stava di fronte me lo ritrovavo come un arcobaleno inaspettato.

Avevo riflettuto molto su quella stupida sera nella quale avevo messo in gioco l'unica cosa importante della mia vita. Ora pensavo che forse non era un caso se ci eravamo incontrati. Forse lei mi aveva cercato e forse anche io l'avevo cercata senza che ne avessi la consapevolezza: lei, il suo buonsenso, le sue ali di aquila che le permettevano di volare anche senza cielo, il suo mondo circoscritto dentro al quale riusciva a fare entrare tutto.

Lei mi tendeva la mano.

"Sono lieta di averti incontrato - stava dicendo - fra qualche giorno ti chiamerà il mio avvocato per il divorzio."

Ma la mia mano si rifiutava di rispondere al commiato. Allora lei aveva ritirato la sua e, sovrapponendo i lembi del soprabito all'altezza del ventre, mi aveva voltato le spalle.

Allontanandosi, aveva girato il viso verso di me. Con gli occhi seri e la bocca imbronciata aveva detto:

"Fra qualche mese nascerà Laura, tua figlia."





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