LA FUGA


Antonio Prete

 



Da quanto tempo era nascosto in quell'anfratto, stretto tra due grosse lastre di pietra, e in quella posizione così contorta? Ravvolto su se stesso, chiuso nel proprio pelo ispido come un sacco, le unghie ruvide si sfregavano tra loro, il soffio delle froge sfrusciava contro il petto, le corna ritorte premevano sugli arti doloranti che erano raccolti intorno al ventre. In quello stato, e nel silenzio che era sopravvenuto tutt'intorno nella campagna, avvertiva in modo più pungente di altre volte quell'onda che era come un fremito, e che portava allo stesso tempo una sensazione di oscurità profonda in cui annegavano i pensieri, e di luce abbagliante in cui tutto poteva essere chiaro, tutto aveva una sua spiegazione. E infatti le immagini di quello che aveva visto e sentito in tutto il tempo che era stato rinchiuso nel grande recinto erano doppie: da una parte fluttuavano dinanzi ai suoi occhi mescolandosi in un vortice di incomprensione, dall'altra gli si presentavano, quelle immagini, separate l'una dall'altra, e ognuna aveva un suo tempo, un suo movimento.

In mezzo a tutte quelle immagini, ecco sulla parete della prigione l'ombra dello sconosciuto, improvvisa, sorta dal nulla, e con l'ombra un grido che rimbalzava sulle pareti, ritornava in mille echi, accerchiava il suo stupore prima ancora che esso prendesse forma. E, per un istante, seminascosti dalle colonne, due occhi blu, e il rimbombo di passi in fuga che si mescolava anch'esso allo stupore. Possibile che fossero gli occhi di lei? Tante volte nelle notti di tempesta lei s'era spinta fino alla stanza della sua prigione, porgendogli il cibo, perché mitigasse il terrore del fulmine e del tuono, e parlandogli da sorella. Proprio in quelle notti di bufera lei gli aveva raccontato del mondo ch'era fuori dal labirinto. Re e palazzi, guerrieri e mari immensi solcati da navi. Atene e Creta, con le loro leggi. E dappertutto uomini che si combattevano tra di loro, si invadevano gli uni con gli altri le terre, si uccidevano in scontri che chiamavano guerre. Una notte apprese della madre, del suo desiderio che era stato eccesso e tumulto, stravaganza e perdizione. Dicevano, nel mondo di fuori, che sette ragazze e sette ragazzi ogni anno erano inviati laggiù per essere sacrificati al suo cruento insaziato appetito.

Perché avevano inventato questa storia, se nessuno tranne i sorveglianti e lei, la donna con gli occhi blu, aveva mai varcato la soglia della sua prigione?

Sui muri erano dipinti animali che correvano tra alberi altissimi e folti: da un angolo, dove si scorgeva bene l'apertura del soffitto, osservava il movimento delle stelle, imparando a distinguere l'intensità della luce di ciascun astro, e seguiva il volo degli uccelli, indovinandone la direzione e la distanza, e ascoltava la voce dei venti, apprendendo la loro musica, la loro provenienza, la loro forza.

La donna con gli occhi blu, che molte volte, nelle notti di bufera, lo aveva visitato, aveva nelle vene parte del suo stesso sangue, e per questo gli era sorella. Gli parlava con una lingua che anch'egli poteva capire, più simile alla sua propria lingua, fatta di suoni aspri e forti, gorgogliante a volte e stridente, impetuosa e profonda. Come poteva essere apparsa, anche solo per un istante, tra le ombre delle colonne, al fianco dello straniero, quasi fosse sua complice?

Ecco, di nuovo, nei pensieri, il labirinto: qualche volta, sfuggendo alla sorveglianza, era riuscito a percorrerlo in tutti i suoi meandri. Correva, allora, e muggiva sotto le volte, varcava arcate e portali, strisciava tra doppie colonne, risaliva e ridiscendeva lungo interminabili giravolte, soffermandosi sotto un raggio di luce che scendeva da uno squarcio di cielo per indovinare la giusta direzione, riprendendo più veloce quando l'ordine delle sale mostrava la sua geometria e la successione appariva con chiarezza. In quelle fughe aveva capito qualcosa di quell'immenso palazzo, qualcosa delle sue vie di uscita. E aveva capito che la vita era tutta in quell'inseguimento di linee e cerchi, in quel perdersi e ritrovarsi sotto volte stellate o sotto scorci di azzurro o sotto nubi tempestose. La vita era tutta in quell'affanno, un affanno che era scoperta e paura, insieme, sorpresa per la vista inattesa e ritorno sui propri passi, amarezza dell'inevitabile ritorno, e dei giorni sempre uguali che ogni ritorno spalancava.

Così, quando gli apparve di fronte un altro che sembrava un suo simile, il primo pensiero fu per il mondo di fuori, e non comprendeva perché i passi di quell'individuo a lui somigliante erano lenti e circospetti, rimbombavano pesanti e pareva che andassero non verso un fratello ma verso un nemico. Ma quando la figura fece un balzo verso di lui, la testa di toro apparve per quello che era, cioè soltanto una maschera: gli occhi, infatti, si muovevano in disaccordo con le palpebre, e le stesse corna non si muovevano in relazione con il gesto della mano che ora impugnava un coltello. E fu in quell'istante che, senza averlo neppure deciso, lui si trovò a correre nella direzione opposta a quella dell'uomo dalla maschera di toro, il quale già lo aveva raggiunto e lo aveva ferito al braccio. Correva perché non gli importava rispondere al balzo con un balzo, all'assalto con l'assalto. Poteva strappare quella falsa testa, imponendo la propria forza, poteva vincerlo facilmente, l'uomo dell'inganno, ma uscire dal labirinto era la sola cosa che davvero gli importava. Il sangue che gli gocciolava dal braccio gli dava un vantaggio, gli segnalava il cammino già fatto e gli evitava di tornare sui propri passi. E accadde che il grido dello straniero si fece più debole, poi si perse sotto le volte dell'immenso palazzo, ma, d'improvviso, da un altro punto d'uscita del labirinto, giunse un nuovo grido, anzi un tumulto di grida, ed erano, quelle nuove grida, festose.

Ora, con le membra contratte nella piccola grotta, cominciava a pensare che a quella fuga dovevano seguire altre fughe, altri nascondimenti dovevano essere cercati. Dove li avrebbe trovati, se gli uomini non lo potevano accogliere come uomo e le bestie come bestia? Quand'anche fosse sopravvissuto alla ferita, quale poteva essere la vita di un uomo non del tutto uomo, di una bestia non del tutto bestia?

Il cielo era percorso da nubi veloci e nere, e i primi tuoni rotolavano furenti perdendosi nell'aria. Si raggomitolò nella paura che sopravveniva e nei cupi pensieri, in mezzo ai quali apparvero di nuovo gli occhi blu di Arianna. Lei doveva certo sapere che lui, il fratellastro Minotauro, non era stato ucciso, e un giorno, da sola, senza l'uomo dell'inganno al suo fianco, lo avrebbe forse cercato nelle campagne cretesi, tra mandrie di buoi e pastori, lontano dal labirinto, lontano dall'immensa, sconfinata prigione.




(Brano tratto dal libro L'ordine animale delle cose, Nottetempo editrice, Roma, 2008.)






Antonio Prete
vive a Siena dove insegna Letterature Comparate all'Università. Tra i suoi testi ricordiamo Il pensiero poetante e Il demone dell'analogia (Feltrinelli), Nostalgia. Storia di un sentimento (Cortina), I fiori di Baudelaire. L'infinito nelle strade e Menhir (Donzelli), Trattato della lontananza (Bollati Boringhieri). Con Nottetempo ha pubblicato nel 2004 Trenta gradi all'ombra.

 


     
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