L'INFORMATORE


Margherite Duras

 



Dopo un po', ne avevano avuto abbastanza di interrogare i prigionieri. All'inizio lo facevano tutti, poi solo qualcuno, poi Al­bert e Jean. Poi neanche più Albert e Jean, la cosa li aveva nauseati. Il primo prigioniero era stato interrogato da Théodora, lo avevano portato là alle cinque del pomeriggio. Era venuto il padrone del bistrot che l'uomo frequentava: "Lì da me c'è una carogna, una spia, dovreste venire a prenderlo". A prenderlo c'erano anda­ti tre uomini. Era il primo che avevano acciuffato, lì al Centro, un vecchietto di cinquant'anni. Tutti erano venuti a vederlo, per que­sto lo avevano messo nel bar e ce lo avevano lasciato lì, bene in mostra, per un'ora. Non riuscivano a crederci. Una spia, ne avevano una tra le mani. Gli uomini lo circondavano, gli si avvicinavano, lo fissavano intensamente, lo fiutavano. Carogna. Figlio di puttana. Porco. Un vecchietto di cinquant'anni, strabico, occhiali, colletto inamidato, cravatta. Gli uomini si facevano sotto e gridavano: "Carogna!". L'informatore parava i colpi, aveva fifa, sudava, diceva no signore, sì signore, no signora. Aveva una voce garbata: lo si sarebbe potuto prendere, ad esempio, per un impiegato co­munale in pensione. Diceva: "Le assicuro, signore, che si sbaglia". Théodora era furibonda, voleva che ci si occupasse subito dell'uo­mo, ma Albert aveva detto che bisognava aspettare la cena, che "se ne sarebbero occupati" dopo. Tutti d'accordo: doveva occuparsene Théodora. Il marito di Théodora era stato arrestato dalla Gestapo, lei non sapeva se fosse ancora vivo, aveva un grosso pe­so sul cuore, perciò era lei che doveva occuparsi dell'agente della Gestapo. Agli uomini rincresceva un po', ma era giusto così. Erano andati a mangiare. Théodora non aveva mangiato molto. Poi, dopo la cena, aveva chiesto due uomini. Stavano tutti cenando nella sala-ristorante del sesto piano. "Chi viene con me?" Si erano alzati in venti, con la bocca piena, e lesi erano messi intorno. Avevano tutti delle buone ragioni, ma Théodora ne aveva scelti due che erano passati per Montluc, era giusto così, passati per Mont­luc e pesantemente malmenati. Niente da ridire. I due ragazzi erano andati a procurarsi due lampade da campo, Théodora carta e matita per prendere nota degli interrogatori. Aveva sentito dire che gli interrogatori dovevano esser messi a verbale. Non c'era energia elettrica. Théodora era scesa per la scala principale del giornale con i due uomini. Da fuori, dal Louvre, arrivavano sventagliate di mitra. Non era ancora finita. In lontananza, il rimbom­bo dei carri armati. Di tanto in tanto un colpo di cannone. Parigi era libera - quasi. Théodora non era particolarmente cattiva, aveva un grosso peso sul cuore.

Uno dei ragazzi era andato a prendere la spia, poi si erano chiusi, tutti e quattro, in una stanza vuota in cui c'erano due sedie e un tavolo. Uno dei ragazzi aveva detto: "Allora?". "Su, spogliatelo." I due ragazzi gli avevano detto: "Spogliati! Più in fretta". Gli avevano fatto la stessa cosa, a Montluc, avevano cominciato a spogliarli poi alla fine gli avevano strappato tre unghie dei piedi, loro stringevano i denti, uno è rosso di pelo, trent'anni, lavora in un garage, l'altro venticinque anni, manovale - bravi ragazzi, co­raggiosi. Mentre il tizio si spogliava, Théodora si domandava cosa stesse facendo, non avrebbe saputo dirlo, ma era necessario. Da quattro anni non aveva fatto che sentire: "Quando ne avremo preso uno, quante gliene daremo!". Ecco, ne avevano uno tra le ma­ni. La spia aveva cominciato a togliersi la giacca. Si sfilava i panta­loni. Sapeva come sarebbe andata a finire, e si spogliava lentamente. Aveva posato la giacca sulla sedia. "Più in fretta," dice uno dei ragazzi. Forse lo uccideranno. La cravatta, si toglieva la cravatta. Théodora pensava: centocinquantamila fucilati. Il colletto, all'interno della camicia, era sporco. In rue des Saussaies c'erano cento donne che aspettavano per portare un pacco al marito o al figlio, dopo lo sbarco più niente da fare, Théodora aveva atteso due giorni, in fila, ventidue ore di coda per fargli avere un pacco da un chilo. Sotto il colletto bianco la camicia era sporca, era un delatore. Non faceva la coda, lui, in rue des Saussaies. "Allora, ti sbrighi?" fa Théodora. Improvvisamente si era alzata. Gli uomini la guardavano, poi: "Ti è stato detto di sbrigarti, carogna!". Gli strappavano le mutande. Non aspettava da nessuna parte, lui, non faceva la coda in rue des Saussaies, mostrava una tessera e entrava, poi bussava a una porta, diceva che aveva i connotati, l'indirizzo, gli orari. Gli davano una busta. Adesso si toglieva le scarpe. Tutta la sua roba era sulla sedia. Tremava. Nella coda c'era una giovane donna in lutto, incinta, lui era stato fucilato e lei faceva la coda perché aveva ricevuto un avviso, una coda di ventidue ore per ve­nire a prendere il pacco dei suoi effetti personali, e doveva parto­rire da li a quindici giorni. Adesso è la volta delle calze. Lei voleva i suoi vestiti, voleva rivederli, leggeva la sua ultima lettera a voce alta, leggeva e rileggeva quella lettera, "di' a nostro figlio che sono stato coraggioso", e piangeva a dirotto, doveva aver vent'anni, di­ceva: "Non è possibile, non ci credo"; tutte le altre donne piangevano, le avevano dato un seggiolino pieghevole, ma lei non voleva niente, poteva stare solo in piedi. Adesso è nudo, si è tolto gli oc­chiali, li appoggia sui vestiti. I due ragazzi aspettano gli ordini di Théodora. L'uomo è nudo, il membro vecchio e i testicoli avvizzi­ti, il punto vita inesistente, è grasso, è sporco. E grasso.

"Non hai fatto la fame, eh, per quattro anni..."

"Quanto ti veniva in tasca per ogni soffiata?" dice Théodora. L'informatore piagnucola.

"Ma se vi dico che sono innocente."

"Quello che vogliamo è che tu ci dica la verità. Allora, neghi?" "Ma se vi dico..."

Adesso la stanza è piena di gente. Le donne in prima fila. Gli uomini dietro. Théodora è imbarazzata, è come se facesse qualco­sa di erotico.

Tuttavia non può chiedere loro di andarsene, non ci sarebbe ragione. Sta giusto dietro la lampada, si vedono solo i suoi capelli corti e neri - ma non la faccia.

"Su, cominciate," dice Théodora.

Il primo colpo. Manda un suono strano. Il secondo colpo. Il vecchio cerca di schivare. Urla: "Ahi! Ahi!". Nel chiarore della lampada gli altri lo vedono perfettamente. I due ragazzi picchiano sodo. Dietro, tutti tacciono. Colpiscono il petto, lentamente ma con forza. Poi si fermano: "Hai capito adesso?". Si strofina il petto, senza gli occhiali non vede da dove vengono i colpi. "Come entravi alla Gestapo?"

"Boh, come tutti."

L'uomo si strofina il petto con le due mani aperte. Mentre parla piange. La sua voce è quella di uno che piange.

Ha detto: come tutti. In rue des Saussaies entravano i prigio­nieri con le manette ai polsi e gli agenti della Gestapo. Gli altri mai, mai. Théodora aveva fatto domanda per consegnare un pac­co, tre settimane dopo le avevano risposto che doveva venire a prendere un numero, glielo avevano dato all'ingresso della Gesta­po, dal portiere, poi aveva aspettato ventidue ore e aveva mostrato una tessera speciale che avevano stracciato all'uscita. Lui dice come tutti perché mente, e poi spera che Théodora non sappia, che creda che ci si poteva entrare come niente fosse, in rue des Saussaies. Mente. Sul petto appaiono larghe macchie violacee. Mente.

"Hai detto: `Come tutti'? Entravano tutti alla Gestapo?"

Da dietro si sente: Carogna, carogna, porco schifoso, ha paura. "Bah... sì, bisognava mostrare la carta d'identità."

"Sei sicuro che bastava quella?"

"Bah sì."

Sul petto si comincia a vedere un piccolo rivolo di sangue. Lui continua a mentire.

Avevano sentito parlare degli informatori. Anche dei tede­schi. Poi delle torture. Di tutto. Dei nemici. Le hanno fucilato il marito perché era comunista, aveva venticinque anni. L'uomo segnalava i comunisti perché questo gli fruttava cinquecento fran­chi per ogni comunista. È un bugiardo. Quella cravatta, quelle scarpe, le ha comprate con i cinquecento franchi che gli davano per ogni comunista. "Grazie, signore." Dal fondo, di nuovo: carogna, porco, schifoso, fetente, pezzo di merda. Sì. Sì. Loro non facevano la spia, hanno dei difetti, certo, ma nomi non ne davano. Non hanno parlato, a Montluc, i due ragazzi.

"Forza, ricominciate!"

È strano, pensa Théodora, non picchiano se non glielo dico, eppure non ho più diritto di loro. Forse è perché credono che io sappia interrogare e loro no, ma i pugni li sanno usare, li hanno stretti a Montluc e non hanno parlato, qualche giorno fa lanciavano bottiglie incendiarie sui carri armati tedeschi, in tempi normali lavorano in fabbrica.

"Su, forza!"

Lo fanno con piacere. Sono contenta di fargli piacere. Pensano ai loro compagni. Contro un muro, c'è un uomo contro un mu­ro e davanti all'uomo dei tedeschi. Sventagliata di mitra. L'uomo si porta le mani al petto, grida viva la Francia, viva il Partito co­munista, cade con la faccia nel fango. Questo gli ha fruttato cin­quecento franchi con i quali si è comprato scarpe nuove e sigarette. E dire che era nell'ordine delle cose possibili che non lo avessi­mo mai trovato e che fosse rimasto a piede libero. I due ragazzi si fermano e guardano Théodora.

"Di che colore era il tuo tesserino di riconoscimento?"

I due ragazzi ridono. Loro sanno. Gli piace che Théodora fac­cia una domanda astuta. Hanno picchiato sodo. L'occhio forse si è spaccato, il sangue cola lungo la faccia. Piange, dal naso gli esce del muco insanguinato, geme: "ohi ohi ohi ahi ahi...". Si passa le mani aperte sul petto, dove la pelle si è lacerata in diversi punti e sanguina. Le mani sono bianche. Quello che faceva non richiedeva alcuno sforzo manuale. Adesso, che muoia o se ne tiri fuori, non ha alcuna importanza. Per terra c'è del sangue.

"Ti è stato chiesto il colore del tuo lasciapassare, hai capito, carogna!"

Sono cattivi, e per di più gli si mettono sotto il naso. Dietro, una donna dice: "Forse basta così...". Le altre donne approvano. I due ragazzi si fermano, e cercano con lo sguardo quelle che hanno parlato, stanno dietro la lampada. Théodora si è girata. "Come sa­rebbe basta?" dice uno dei due ragazzi. "Che cosa?" fa l'altro. "Si sono forse fermati per noi?" "Non è una buona ragione," dice una donna.

"Per l'ultima volta, qual era il colore della tessera che mo­stravi?"

"Rispondi!"

"Rispondi! Adesso risponderai!"

Da dietro: "Riattaccano... Io me ne vado...". Ancora una don­na, la voce è indignata. Théodora si volta.

"Quelle che si sentono stomacate non sono costrette a restare, non abbiamo bisogno di loro, se si tolgono dai piedi ci fanno un piacere. Su, forza, ragazzi!"

Si sente un "oh!", però restano e sussurrano contro Théodo­ra. Di lei si vedono solo i capelli e, quando interroga, la fronte bianca, gli occhi semichiusi, come ciechi. Gli uomini non dicono niente, tranne un: "Chiudi il becco!", ma loro restano.

"Su, presto, il colore?"

Ridono. Sanno. Ricominciano a picchiare nei punti già colpiti. La spia cerca di parare i colpi. Sanguina. Geme.

"Bah, come tutte le tessere..."

"Forza, ragazzi."

Picchiano sodo. Sono infaticabili. Un uomo contro un muro cade, le mani sul cuore, muore perché crede in qualcosa che vale per tutti gli uomini. I cinquecento franchi gli servivano per pagarsi piccoli lussi. Quelli che sparano all'uomo credono di fare il loro dovere. Lui, con i cinquecento franchi si pagava piccoli lussi da individuo solitario. Non è che fosse anticomunista, arrotondava lo stipendio. Continua a mentire. Quanto può mentire un uomo... Con i cinquecento franchi si sceglieva una cravatta.

Théodora allunga le gambe. Non c'è dubbio, nessun dubbio, e non c'è scelta.

"Forza, ragazzi, dateci dentro!"

E loro ci danno dentro, accidenti se ci danno dentro. Dietro: carogna, fetente, porco. Le donne escono. Lui si lamenta, grida, supplica: "Vi prego, vi supplico, non sono una carogna". Ma ha ancora paura di morire visto che continua a mentire.

Non è ancora abbastanza. Théodora si alza. C'è un uomo, un uomo contro un muro, contro un muro un uomo che lei conosce, che non ha parlato, mai, contro quel muro, perdio, quell'uomo contro quel muro. Perdio. "Ci fate ridere con la vostra resisten­za..." Quelli che lo dicono, se fossero qui, se ridessero... già che ci siamo... Un uomo solo contro un muro di mattoni, e al di là di quel muro, niente. Non vede più, Théodora. Sente la Marsigliese dei condannati a morte, l'Internazionale cantata a squarciagola nei cellulari, gli sguardi dei borghesi da dietro le imposte chiuse: "Sono terroristi...".

"Su, ragazzi, forza!"

Nell'alone di luce l'uomo si dibatte. Ogni pugno risuona nella stanza vuota. A ogni colpo grida "uh, uh!" con lunghi lamenti. Le donne sono uscite. Quando piovono i colpi gli uomini stanno in silenzio. Stanno zitti nell'ombra, dietro la lampada, ma è quando sentono la voce dell'uomo che dal fondo partono gli insulti, proferiti fra i denti e con i pugni stretti, parole pesanti, non frasi. E quando parla che gli insulti scaturiscono perché continua a mentire, ne ha ancora la forza, non è ancora arrivato a non mentire più. Théodora guarda i pugni che cadono, sente il gong dei colpi e pensa che nel corpo dell'uomo vi sono spessori d'aria che è diffi­cile sfondare. Gli insulti che salgono dal fondo della stanza le fanno bene al cuore, la incoraggiano, è molto sensibile a quegli insul­ti. Una sola volta, nel silenzio, si è domandata perché le donne fossero uscite, impossibile capirlo; quanto a lei, lascia tacere il suo cuore. Quando picchiano nello stomaco, l'uomo grida e si tiene lo stomaco con le mani, allora uno dei ragazzi ne approfitta per mol­largli un calcio nei testicoli. Sanguina molto, soprattutto la faccia. Non è un uomo come gli altri. Si può ucciderlo. Era un uomo fi­nito per gli altri uomini, uno che dava uomini. Che prendeva cin­quecento franchi per ogni uomo che consegnava, senza preoccu­parsi di sapere per quali ragioni i nemici di quegli uomini lo pa­gassero. Un maiale vale di più, lo si mangia. E lui, se lo uccidono, ingombrerà la hall.

"Basta!" dice Théodora.

Si alza e muove verso l'informatore - dopo il rimbombare sordo dei pugni la sua voce è stranamente sonora. Gli uomini sul fondo la lasciano fare, si fidano di lei, non le danno consigli, ma lei non sbaglia, e ogni volta la fraterna litania degli insulti le scal­da il cuore. Silenzio sul fondo, i due ragazzi guardano Théodora, attenti. C'è una pausa.

"Per l'ultima volta," dice Théodora, "vorremmo sapere il colore della tua carta... per l'ultima volta."

L'uomo la guarda. Gli sta vicinissima; lui non è alto, hanno pressappoco la stessa statura. Lei è sottile, giovane e crudele. Ha detto: per l'ultima volta.

"Ma che cosa volete che vi dica..."

L'uomo piagnucola. Anche lei ha piagnucolato, neanche tanto tempo fa. Ma perché è una donna. Gli uomini contro un muro non piagnucolavano, loro. Dal corpo dell'informatore sale uno strano odore, nauseante e dolciastro: l'odore del sangue.

"Vogliamo che tu ci dica il colore del tesserino che ti serviva per entrare alla Gestapo."

"Ma non so... non so. Vi dico che sono innocente..."

Ecco, ripartono gli insulti. Carogna. Fetente. Porco. Schifoso. Théodora si rimette a sedere. Tace. Battuta d'arresto. Gli insulti fioccano, a uno a uno.

Perla prima volta, si sente un ragazzo dal fondo: "Cosa aspet­tiamo a liquidarlo?...". L'informatore ha alzato la testa. Silenzio. Un attimo di tregua. L'uomo ha paura, dice con voce acuta, lamentosa, una voce che lui vorrebbe che sciogliesse i cuori:

"Almeno sapessi cosa volete da me...".

I due ragazzi sudano, si asciugano la fronte con i pugni insan­guinati, guardano Théodora e aspettano. Lei sembra distratta, stanca. Poi, di colpo:

"Non è ancora abbastanza," dice.

I due ragazzi si girano verso l'informatore, i pugni tesi in avanti. "No," dice Théodora.

Si alza di scatto e urla.

"Forza, ragazzi, con me."

Valanga di colpi. Raffica finale. Di nuovo silenzio in fondo alla stanza.

"Era rossa la tua carta, carogna?"

"Uh! Uh! Ahi, ahi! Mi fate male!"

"Tanto meglio," gridano i due, "è proprio quello che voglia­mo, pensa un po'."

Il sangue cola.

"Ohi, ohi!"

"Rossa, di', rossa?"

Apre un occhio. Sta per capire.

"Rossa?"

Théodora urla. I due ragazzi sanno già. L'informatore cerca di riflettere sulla risposta.

"Rossa?"

Continua a non rispondere.

"Su, ragazzi, più forte, più forte, coraggio."

"Rossa? Rossa? Rossa?""Nooo..." geme l'informatore.

Risate. I ragazzi ridono.

"Io ho aspettato ventidue ore con una carta d'identità gialla. Ventidue ore, porco schifoso! Ventidue ore. Come te lo spieghi? Era gialla, la mia carta. Eppure tu dici che avevi la stessa! Le carte d'identità sono gialle, di solito."

Théodora urla. Dal fondo, sale un crescendo di voci, caldo, pieno.

"Ventidue ore, noi si aspettava ventidue ore con una carta gialla. Forse che anche la tua era gialla?"

L'informatore continua a gemere. Adesso cerca di rifugiarsi nell'angolo. I due ragazzi lo tirano fuori.

"Gialla?"

I due lo tirano fuori dall'angolo e ve lo ributtano di nuovo. La sedia si rovescia e tutti gli indumenti dell'informatore cadono a terra.

"Gialla?"

L'uomo apre la bocca e la richiude. Vorrebbe rispondere. È terrorizzato. Si lamenta. Vorrebbe dire qualcosa. Perla prima vol­ta è sopraffatto.

"Gialla?"

Théodora è in piedi. Sanno che tornerà a sedersi solo quando l'uomo avrà confessato.

"Nooo... non gialla..." grida l'informatore.

I ragazzi continuano. Soffoca. Adesso ha capito. Non smetteranno. Théodora continua.

"Allora? Di che colore?" urla.

Adesso il ritmo dei colpi è uguale a quello delle domande, ver­tiginoso.

"Di che colore?"

Forse ha scelto di morire, pensa Théodora. Ma no. È incapace di scegliere di morire, in nome di cosa, poi? Parlerà.

"Di che colore?"

L'uomo tace. Finge di non sentire. Fa la pane dell'uomo so­praffatto dal dolore. Théodora lo sa come se fosse in lui. "Presto, di che colore?"

Come andrà a finire?, pensa Théodora, se non lo dice non po­tremo neppure ucciderlo. Sarà un fallimento totale.

"Ancora più forte!" dice Théodora.

Lo sballottano, alternano pugni a calci. Sono in un bagno di sudore.

Théodora avanza verso l'informatore.

"Basta!"

Avanza ancora, concentrata, chiusa in se stessa. L'informatore indietreggia. L'ha vista. Di nuovo silenzio.

"Se lo dici, ti lasciamo in pace. Se non lo dici, ti facciamo la pelle. Forza, ragazzi, dateci dentro!"

L'informatore non sa più come venirne a capo. Parlerà. Cerca di alzare la testa come un uomo che annega cerca di respirare. Parlerà. Si. Ci siamo. Vorrebbe articolare qualcosa. Sono i colpi che gli impediscono di parlare. Ma se i colpi cessano, non parlerà. È un parto che tiene tutti in sospeso. Ma lui continua a tacere.

"Te lo dirò io," dice Théodora, "te lo dirò io il colore della carta con cui entravi."

L'uomo si mette a urlare. E ancora perfettamente lucido. I colpi gli hanno lasciato tutta la sua lucidità.

"Verde!" urla.

I ragazzi si fermano. L'informatore guarda Théodora. Non si lamenta più. La sua curiosità è grande. Si domanda come abbia potuto parlare.

"Sì," dice Théodora.

Silenzio. Théodora prende una sigaretta e l'accende. Poi, con voce stanca:

"Rivestiti".

Si alza. Prima di uscire dice, senza enfasi, con semplicità:

"Le tessere degli agenti della Polizia segreta tedesca erano ver­di. Non c'è più alcun dubbio su costui".

Mentre l'informatore si riveste, i due ragazzi continuano a in­sultarlo.

"Si ricomincia domani?" dice uno.

"Bisogna pur sapere chi ha 'consegnato'" dice l'altro. "Vedremo," fa Théodora.

Esce. Tutti gli uomini escono con lei. Vanno nel bar.

Tutte le donne si sono rifugiate lì. Siedono su delle sedie, su delle poltrone.

"Ha confessato," dice Théodora.

Nessuno risponde. Lei capisce. Se ne fregano che abbia con­fessato. C'è anche un uomo con loro. Se ne frega anche lui che ab­bia confessato. Sono contro Théodora, prima di tutto. Théodora si siede e li guarda con curiosità. Non sa ancora bene che cosa ha appena fatto. Forse è qualcosa di brutto. Ha fatto torturare un uo­mo. E così che si chiama. I tedeschi torturavano. E anche lei. Mentre era in quella stanza, che cosa ci facevano, loro, lì nel bar? Cosa? Théodora sorride con immenso disprezzo: le davano addosso, dicevano di lei le cose più indegne e ci provavano gusto. Pensavano più a lei che all'informatore. Sapevano meglio di lei quello che gli stava succedendo.

"Mi fate schifo," dice Théodora.

Una donna impallidisce di collera e grida.

"Oh! questa poi, e tu allora? Ma non ti rendi conto..." S'interrompe, è senza fiato dall'indignazione. Albert si fa avanti verso la donna.

"Vuoi lasciarla in pace?"

Jean la guarda e scrolla le spalle. La donna tace. Albert va ver­so Théodora e verso Jean. Sembra molto emozionato da quanto è appena successo.

"Beviamo," dice Albert. "Vieni a bere con noi, Théodora. Berrai del vino con noi, mia piccola Théodora."

Théodora sorride. Jean e Albert l'abbracciano. Sono davanti al banco tutti e tre. Jean e Albert sono i capi del Centro. Dietro, le donne tacciono. Livido silenzio dell'odio.

"Poi te ne vai a dormire come una brava bambina," dice Jean. "Si," fa Théodora. "È tardi."

Parla a fatica. Ha voglia di piangere. Albert le porge un bic­chiere di vino.

"Che verme schifoso..." dice Théodora con voce soffocata, al­zando gli occhi verso Jean e Albert.

"Sì," dice Albert, "una gran carogna, su, bevi."

"Bevi, mia piccola Théodora," dice Jean.

Théodora beve. Non sa cosa le stia succedendo. Perché quella dolcezza. Beve a fatica. Ha voglia di piangere. Dal canto loro, invece, gli uomini bevono. Parlano dell'informatore e dicono che bisogna farlo fuori.

Le donne, ancora una volta, escono dal bar senza salutare. "Gli faccio schifo," dice Théodora.

Albert la guarda e sorride.

"Non è niente, solo un po' di invidia, su, vieni a dormire..." "Invidia?" fa Théodora. "E di che?"

"Si," dice Jean. "Non fa niente se non capisci."

Ride. Anche Albert ride. Escono tenendola abbracciata. Allo­ra a Théodora viene in mente che dalle loro bocche non è uscito un solo insulto contro l'informatore.





Ce n'era una, grande, bionda, di nome Marie, che era buona e generosa. Anche le altre erano buone, perfino quella che si chia­mava Colette e che non aveva mai pensato molto alla guerra. E il giovane che aveva vent'anni, e che aveva pensato troppo alla guer­ra, era comunque buono e coraggioso anche lui. Tutti odiavano Théodora in quel momento.

Una volta, Théodora si domandò come potesse sopportare la vista e l'odore del sangue. Sono cattiva, lo sospettavo da sempre. Alla fine, dispensava tutta la sua cattiveria. Aveva ricevuto tante botte, da piccola, non aveva mai potuto restituirle e sognava di picchiare il fratello maggiore.

Banalità - scatto dei tizi negli ultimi momenti - uno di loro è cattivo (Tessier), sfumare i due ragazzi - luce della lampada da campo - punto di partenza dell'interrogatorio: compravo delle cose dai tedeschi - non abbastanza oggettivo per Théodora.

Li avevano messi in una stanza del quinto piano, l'ex ufficio della contabilità che dava su un cortile. La porta era blindata. La finestra, munita di rete metallica. Si comunicava con l'esterno solo attraverso un piccolo sportello. Man mano che arrivavano e in base alla gravità dei casi, li si metteva sia giù nella hall sia nella stanza blindata. Alla fine ci stavano dentro in undici tra cui quat­tro miliziani, una coppia di russi piuttosto in là con gli anni e altre tre coppie di cui non si sapeva granché, se non che si trattava di collaborazionisti.


(Tratto dai Quaderni della guerra e altri testi. Feltrinelli, Milano, 2006. Traduzione di Laura Fauzin Guarino.)






Margherite Duras
(1914-1996), autrice dei romanzi L'amante e Moderato cantabile , è stata una delle più importanti scrittrici francese del Ventesimo secolo. Dalla sua opera è stata tratta la sceneggiatura del film Hiroshima Mon Amour.

 


     
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