CONSUELO
- Brano del romanzo Esilio -
Enzo Bettiza
(...) Nel mio animo s'era inoltre riversata, in quegli anni di crisi e di crescita tormentata, anche la pece di un amore assurdo, tanto più struggente quanto impossibile e irraggiungibile. Il tutto era cominciato come in un fatuo gioco di specchi. Non ricordo più se gli eventi, o non eventi, che
sto per rievocare, siano avvenuti in seconda o terza ginnasio: l'Italia probabilmente era già entrata in guerra; io, comunque, dovevo trovarmi in quella complicata fase di transizione e di trasformazione che va dai dodici ai quattordici anni d'età.
Ho detto fatuo gioco di specchi, ovvero di svianti illusioni ottiche, perché in quel periodo la mia attenzione s'era dapprima concentrata, con una certa apparente spontaneità, su un bersaglio sentimentale minore che poi doveva rivelarsi fallace e pretestuoso. M'ero convinto d'essermi innamorato di una coetanea considerata la più bella della classe: una ragazzina svagata e sorniona, dagli occhi turchini leggermente infossati, dal passo strascicato un po' dondolante che, quando camminava, imprimeva un'oscillazione allusiva a due sottili trecce bionde che le scendevano fino alla metà del dorso ancora infantile. Aveva un nome tedesco ed era, credo, di origini austriache. Soprattutto nei momenti in cui non riuscivo a vederla, in cui non eravamo
più insieme nella stessa classe mista, la mia fantasia s'avvolgeva con insistenza intorno alla sua immagine. Cercavo di idealizzarla platonicamente nei miei pensieri che erano insieme casti e confusi. Cercavo di cancellare dal suo volto quel tratto sardonico, così caratteristico in lei, che m'attraeva e mi respingeva nello stesso tempo. Cercavo insomma, come fuggendo da qualcosa, come scappando da un altro volto per ora nascosto, d'incanalare con foga correttiva tutti i
miei sentimenti visionari verso l'occhio angelico, la treccia eterea, il passo sognante della coetanea austriaca. Mi sforzavo così, almeno per il momento, senza rendermene ben
conto, di distogliere pensieri e sentimenti da un'alta persona assai più importante, più grave e più pericolosa che da qualche tempo si aggirava fra i nostri banchi scolastici.
Le cose ad un certo punto precipitarono, scagliandomi tempestosamente dal naufragio di un invaghimento effimero alla dolente rivelazione di una passione impossibile. I tempi si fecero d'improvviso procellosi e incalzanti. In seguito a un macchinoso scambio di messaggi sottobanco, avevo combinato con la ninfetta austriaca un appuntamento pomeridiano. C'incontrammo in un crepuscolo d'autunno sulla Riva Nova, consumammo più di un'ora in una snervante passeggiata lungo il mare, infine, seduti su una gelida panchina di pietra, ci scambiammo un bacio maldestro nell'ombra di un parco delle rimembranze.
Tutto finì lì. Ventiquattr'ore dopo rividi la ragazzina bionda che, in piena Calle larga, nell'ora più gremita del passeggio serale, ondeggiava sul suo passo un po' abulico sfacciatamente avvinghiata con due mani al braccio di un adolescente in calzoni lunghi delle superiori classi liceali. Sorpreso, irritato, deluso, ma al tempo stesso come liberato da un brutto sogno, gettai uno sguardo senza speranza ai miei pantaloni alla zuava: osservandoli, capii subito che la storia con quella volubile coetanea, troppo matura per me, era svanita già prima d'incominciare.
Fu nei giorni seguenti che mi colpì la rivelazione del sortilegio d'amore per tanto tempo covato e represso nel mio subconscio. Ad un tratto, quando meno l'aspettavo, il sortilegio, non saprei come chiamarlo altrimenti, fino allora tenuto a bada dietro l'invaghimento per la coetanea, scoccò e lampeggiò davanti ai miei occhi in tutta la sua imponente e impotente vastità. Il fulmine, quasi più nero che incandescente, mi accecò proprio nel momento in cui mi sentivo ancora ferito dall'inatteso, offensivo voltafaccia della piccola austriaca. Qualcosa del mio infortunio con lei doveva essere trapelato nella classe. Non erano mancati infatti sorriseti al vetriolo, allusioni, malevolenze irritanti da parte di certi compagni più pettegoli e più astiosi. Ruminavo fra me e me di trovare addirittura un pretesto per allontanarmi qualche giorno dalla scuola. Pensavo proprio a questo, fissando amareggiato dal banco due trecce bionde e traditrici, che m'inducevano a provare un immenso disgusto per la mia età insulsa, quando all'improvviso sentiì immergersi fra i miei capelli la mano di una donna matura: una mano furtiva e leggera, poi più calda e più prensile, che sembrava voler frugare e lenire in una lunga carezza consapevole i miei desolati pensieri di ragazzo bruscamente abbandonato dal sorriso e dalla compostezza abituale.
Sul primo non osai voltarmi e sollevare la testa. Mi lasciai carezzare così come stavo, pietrificato, scomposto, abbandonato di traverso sul banco, col mento svogliatamente appoggiato nel cavo della mano. Non volevo interrompere, con una mossa che avrebbe potuto rivelarsi goffa e inopportuna, né il fluido balsamico che sembrava filtrare da quelle dita lenitive, né l'incanto conturbante e imbarazzante che esse mi trasmettevano fino al viso che sentivo in fiamme. Sapevo bene a chi apparteneva quella mano che per la prima volta mi toccava in un modo così strano e così profondo. Finalmente, pur paventando d'interrompere il contatto, mi venne non so perché l'impulso di scrollare il capo. Dopo un'ultima esitazione, mi girai di scatto, come infastidito. Vidi allora tutt'intera sopra di me, incombente quanto irraggiungibile, un po' sorpresa dall'asprezza del mio movimento, la supplente trentenne arrivata da poco a sostituire il nostro capoclasse che, non ricordo per quale motivo, aveva dovuto all'improvviso abbandonare Zara per una destinazione ignota. Destinazione che noi, soprattutto noi piccoli maschi, appena vista e apprezzata la sostituta, subito sperammo fosse senza ritorno.
Anche a me quel cambio inatteso era molto piaciuto. La novità era stata, fin dalla prima lezione, affascinante e coinvolgente. La provvidenziale sostituzione di un capoclasse anonimo, dalla voce grigia che suscitava solo sbadigli, con una professoressa che ci appariva assai attraente, più capace e più vivace del suo noioso predecessore, aveva di colpo riportato attenzione, tensione, emozione in una classe fino allora distratta e svogliata. Eravamo stati immediatamente soggiogati così dal fascino misterioso, che veniva dal fisico saldo della donna, come dalla stimolante e spesso visionaria chiarezza plastica che proveniva dalle lezioni dell'insegnante. L'entusiasmo per lo studio e la convivenza scolastica, piuttosto raro nei faticosi ginnasi classici del tempo, era stato ridestato e ricostruito in noi quasi da zero, non tanto dalle buone intenzioni della supplente, ma da qualcosa di enigmatico e di strambo che spirava dal suo spirito e dalla sua nervosa prestanza corporea. Più che fare lezioni, sembrava quasi aggredirle, dando alle movenze del suo corpo e delle mani un'energia comunicativa straordinaria che allora non sapevo come definire e che oggi definirei con il termine, sommamente ambiguo, di erotismo pedagogico. Quel nostro rinnovato amore per lo studio non era altro che la trasposizione giudiziosa dell'amore meno giudizioso, anzi insidioso, che in maniera più o meno consapevole, più o meno dichiarata, tutti noi provavamo da qualche tempo per la nuova arrivata.
In particolare ci ammaliava lo stile insolito, poco conformistico, insieme irrequieto e creativo, con cui lei ci catturava nelle spire di un insegnamento per così dire peripatetico. Non stava mai seduta in cattedra. S'aggirava inquieta fra i banchi, ne percorreva su e giù i corridoi, come un felino in cerca d'uscita dalla gabbia, e intanto richiamava medianicamente in vita dall'aldilà le grandi figure della storia e della letteratura con una voce gorgogliante e un po' sommessa di contralto: una voce seduttiva, dalle velature opache eppur penetranti, come dilatate su profondità inaccessibili, che in modo del tutto naturale imponeva il silenzio e insinuava l'attesa di chissà quale miracolo in una classe che durante le sue lezioni non fiatava più. Così parlando, andava avanti e indietro, s'infervorava, ogni tanto gesticolava brevemente con piglio conciso e perentorio. A tratti dava quasi l'impressione di correre fra i banchi silenziosi, col busto leggermente inclinato in avanti, come attirata da un'ombra che non vedevamo e che pareva fuggire davanti lei, senza darle il destro di raggiungerla e di fermarsi.
Sembrò alfine fermarsi, e placarsi per la prima volta nel giorno, gravido di conseguenze, in cui ad un tratto frenò la corsa alle mie spalle per posarmi sul capo quella sua mano carezzevole e promettente.
Si chiamava curiosamente Consuelo, nome da eroina iberica, da gitana di melodramma, già per se stesso romantico e insinuante. Ma era zaratina purosangue, zaratina emancipata, ciò che la faceva spiccare fra altre sue college cautelose e bigotte provenienti dalla penisola. La "bella Consuelo", come l'appellavamo con un tocco d'intimità screanzata trascurandone il cognome che pur conoscevamo, era stata poi davvero così bella nella realtà? Non saprei dirlo. Probabilmente l'intensità dell'aspetto e del carattere prealeva sulla sua reale bellezza fisica. Era vigorosa, ben fatta, e ai miei occhi di ragazzo appariva esageratamente alta anche se doveva essere di statura piuttosto media. Aveva la chioma molto densa, cresputa, color rame, profondamente radicata nelle tempie disposte, su una faccia larga, a notevole distanza tartarica l'una dall'altra. L'energia forse nevrotica della sua inquietante personalità pareva concentrarsi, più che negli occhi castani, nella fronte carnosa ed espressiva, seppure schiacciata e come risucchiata dal peso di quella sua fitta capigliatura zingaresca. Era stranamente abbronzata pure d'inverno. Sull'epidermide, d'una tinta diluita fra l'ocra e l'oro scurito, si notava qua e là qualche lentiggine minuta, tutt'altro che sgradevole, anzi eloquente e quasi spiritosa. Consuelo era spagnolesca non solo nel nome, ma anche negli indumenti, sempre neri, che tuttavia cercava di portare con levità e disinvoltura sportiva. Si diceva che era stata colpita da un grave lutto; si accennava ogni tanto alla morte per incidente di un fratello o di un fidanzato pilota; di più non si riusciva a sapere, o forse ero io a non volerne sapere di più. Un insieme di tragedia imespressa e di leggerezza ansiosa, di sofferenza e di vitalità, si combinavano e sembravano darsi contraddittoriamente il cambio nella sua persona che, al limite, poteva suggerire l'idea di un'attrice drammatica che avesse deciso di censurarsi e di non recitare l'ultimo atto del dramma.
Ricordo certi suoi vestiti svolazzanti, d'ottimo taglio, in cui lutto e civetteria si mescolavano in maniera quanto mai provocante. Funerei ma vaporosi, fatti d'una strana stoffa traslucida, nereggiavano gonfie fluttuanti come vele alate tutt'intorno a lei nell'attimo in cui, china in avanti, lo sguardo fisso per terra, percorrendo in un baleno il ponte di Cereria, sembrava tagliare il vento e il mare col corpo lanciato all'inseguimento di ombre invisibili nascoste fra gli idrovolanti ormeggiati poco più in là. Ricordo anche certe calze di seta opaca, tendente al grigioscuro, che la carne tingeva da sotto d'un riverbero caldo, con la riga d'epoca che incideva una lunga cicatrice verticale sui polpacci delle sue forti gambe di camminatrice. Non so se la "bella Consueto" abitasse, al di là delle mura cittadine, nel quartiere dirimpettaio di Cereria. Neppure so cosa vi andasse a fare nei giorni in cui, puntualmente dopo le quattro del pomeriggio, rivedevo quella sua sagoma ventosa. che mi faceva pensare a una grande farfalla nera, volare per pochi secondi sopra il ponte levatoio e perdersi in un guizzo segreto fra le prime case allineate quasi a picco sul canale e sull'idroscalo. Non sapevo, se quelle improvvise fughe di là dal ponte, verso i velivoli galleggianti sulle acque di Cereria, potessero avere una qualche vaga attinenza con le voci su un suo presunto fidanzato pilota morto in un incidente aereo. Forse non desideravo sapere troppe cose sul conto di Consuelo per non inquinare, con banali notizie di seconda mano, l'aura di mistero e d'incanto di cui ormai la circondava la mia immaginazione gelosa e protettiva. Immaginazione da qualche tempo sempre in stato d'allerta, che si faceva però particolarmente fertile, anzi appassionatamente onirica quando, appostato come un cecchino inesperto dietro la finestra affacciata sul canale, aspettavo, col cuore in gola, di mettere nel mirino della mia follia la fugace farfalla in volo sopra il ponte. Nei pomeriggi che la vedevo, non riuscivo più, dopo che lei era scomparsa, a concentrarmi per qualche tempo sui libri; se non la rivedevo il pomeriggio successivo, chiudevo il libro e uscivo a vagabondare da solo e senza meta fino all'ora di cena. Il turbamento si faceva così sempre più circolare e vizioso. Non l'avrei saputo dire quale dei due vuoti fosse il più profondo: se quello che si apriva in me dopo l'appuntamento esaudito sul ponte, o quello che immediatamente tornava a riaprirsi dopo l'appuntamento mancato sul ponte. Insomma, da quella suggestiva apparizione, bella o meno bella che fosse, s'irradiavano misteri, stranezze, messaggi talmente contrastanti e allusivi da infiammare anche l'immaginazione di un santo. Figurarsi la mia, che non aspettava altro che di riaccendersi e riscattarsi dopo la delusione e la depressione in cui l'aveva ingrigita lo smacco inflittomi dalla volubile ninfetta austriaca. Ma si trattò purtroppo di un riscatto dal prezzo durissimo. Una rivincita amara, se così la posso definire, una riscossa senza speranza e senza sbocco, naufragata in partenza nell'abisso degli anni che mi separavano dalla matura trentenne. Una medicina sotto ogni aspetto più grave, più tossica, del morbillo che avrebbe dovuto curare: come se su una ferita lieve si fosse versato l'acido di un farmaco corrosivo e devastante. Infatti ciò che emerse e prese a svilupparsi da quel mio primo contatto in classe con la mano insidiosa dell'insegnante zaratina, fu subito qualcosa di molto più disperato e più travolgente di un semplice cambio di sentimenti e di persona. Fu un salto mortale, da un'ingenua parodia amorosa fra bambini, all'estasi d'amore di un ragazze imberbe, che non portava ancora i pantaloni lunghi, per una donna che aveva vent'anni più di lui. L'angusto purgatorio in cui m'ero perduto giocando con la piccola coetanea, non era stato che la sala d'attesa di un paradiso infernale che all'inizio, soltanto all'inizio, mi si preannunciò sottotono nella carezza di una mano indugiante, soccorrevole, direi quasi terapeutica.
Quella prima carezza furtiva, forse sbadata seppure così amica all'apparenza, doveva rivelarsi poi tutt'altro che casuale e isolata. Si ripeté infatti il giorno dopo, si approfondì nei giorni seguenti, si fece più lunga, più lenta, più insinuante, e sempre più insistente. Cominciò a ripetersi non solo nei giorni, ma perfino nelle ore di una stessa mattina. Io ormai non stavo più nella pelle ancora infantile che gli anni m'imponevano addosso. Rivedevo in sogno le fattezze chirghise di Consuelo, poi correvo a scuola col batticuore, inciampavo per le scale fino allo stanzone della classe, non pensando ad altro che alla mano magica che fra poco, immancabilmente, si sarebbe di nuovo posata sul mio capo stordito. Frattanto avevo casualmente scoperto, sbirciando dalla finestra della mia "camera privata", anche quelle sue misteriose corse pomeridiane sul ponte di Cereda. Quando mi capitava la fortuna che i due eventi si succedessero con regolare puntualità d'orario, la carezza in classe verso le dieci del mattino, seguita dall'apparizione sul ponte dopo le quattro del pomeriggio, io provavo allora una tale armoniosa pienezza d'emozioni da non avverti-re quasi più l'ombra del pericolo sempre in agguato intorno a me: ombra che riaffiorava da quella sensazione di vuoto, di sconfitta latente, che purtroppo m'accompagnava, come un presagio triste, ai gravi turbamenti che la donna terribilmente più adulta andava suscitando nel mio animo.
Ad un certo punto mi resi benissimo conto di quello che stava accadendo o, meglio, che mi stava accadendo. Compresi cioè, spaventato ma non pentito, anzi di tutto cuore consenziente, d'essermi innamorato sul serio, non più per scherzo o per sfida all'età, con i sentimenti pieni di un uomo maturo per una donna matura. Sentimenti mai provati prima. che mi apparivano, oltreché pericolosi, sorprendentemente nuovi e ignoti: cocenti, aggressivi, insonni, soprattutto tormentosi, essi non avevano più nulla a che fare coi deboli giochi proibiti brevemente sperimentati con l'austriaca tredicenne. Capii anche che il nuovo gioco era troppo grosso per le mie forze, troppo impari e punitivo per i miei pochi anni. Non tentavo comunque di nascondere a me stesso l'anomalia, l'assurdità, l'estrema vulneraità della mia condizione d'innamorato maturo nei senti-
enti, però ridicolmente informe e inerme nel fisico alterato dalla pubertà ma non ancora modificato dall'adolescenza.
Ero sempre più irritato con me stesso per via della pubescente insulsaggine del mio aspetto. Cercavo perciò di correggerlo con un'esagerata quanto meticolosa cura degli abiti, delle camicie, delle scarpe, della pettinatura, nonché con una maschera di precoce pensosità imposta al volto erbe. Non a caso avevo cominciato a impossessarmi di qualche sgargiante cravatta di mio fratello, esibendola aggrondato davanti ai compagni e soprattutto davanti alla profesoressa. Disperatamente mi sforzavo di apparire più adulto della mia età, atteggiandomi da grande anche se portavo ancora i pantaloni alla zuava. La sigaretta Camel ora senza filtro, simbolo inebriante del porto franco zaratino, era entrata anch'essa in quel mio mimetico gioco la maturità, dandomi sul primo violenti conati di vomito; avevo iniziato a fumare di nascosto in camera, oppure in compagnia nei parchi cittadini. Stordito nei sensi, forse grottesco nell'aspetto, non ero però offuscato per nulla nella mente. Disperavo ma ragionavo. Quel mio delirio d'amore e d'impotenza era a suo modo lucido, autocritico, refrattario in parte, anche se non del tutto, agli impeti dell'angoscia che cercava di soverchiarmi ogni volta che rivedevo l'incoraggiante faccia chirghisa di Consueto, o che ne riudivo la voce soffocata e sommessa di contralto. Un
sussurro tenace, intatto, non confuso della mente, mi suggeriva che non ci sarebbe stata nessuna felice via di sbocco, o nessuna pietosa via di scampo da una situazione che, da ogni punto di vista, era apparsa cieca e squilibrata fin dall'inizio.
Complicava ancora più la situazione, da cui neppure quella parziale lucidità riusciva a liberarmi, uno strano seppure giustificato convincimento che il mio peccato d'amore fosse stato non solo captato e perdonato dalla sibillina Consuelo. M'ero perfino messo in testa che lei, oltreché as-
solvere il peccato l'avesse favorito o addirittura fomentato. Anzi, ero più che convinto che avesse continuato e continuasse a fare del suo meglio per sottolineare in modo sempre più scoperto quel nostro rapporto tattile privilegiato, esibendolo e denunciandolo quasi provocatoriamente davanti a tutti. Non nascondeva che ero io il suo discepolo preferito. Lei infatti mi dava corda, me l'allungava apertamente, non sottobanco, ma sopra il banco in cui io col fiato sospeso aspettavo il contatto quotidiano con quella sua mano ogni giorno più ardita e più possessiva. L'eloquente puntualità con cui la professoressa, ammirata e amata anche da altri alunni, arrivava correndo e magari recitando Leopardi alle mie spalle, per immergere in uno slancio ormai indiscreto le sue dita fra i miei capelli, non aveva potuto fare a meno di destare l'attenzione sarcastica e la stizza di quasi tutta la classe. Certi compagni più maliziosi, punti dalla gelosia, s'erano fatti particolarmente molesti, non risparmiandomi nelle pause ricreative le loro allusioni invidiose, talora perfino volgari e rivoltanti. Ciò finì per dare ai miei sentimenti, già incoraggiati e di continuo rinfocolati dalla mano di Consuelo, un tocco d'esaltazione in più: quasi un brivido compiaciuto di martirio e d'orgoglio che mi faceva sentire, nello stesso tempo, come l'alunno più
privilegiato e più perseguitato dell'intero ginnasio. Mi dicevo che la velenosa invidia di cui mi gratificavano quei coetanei era lo scotto, in qualche modo necessario e sacrificale, che dovevo pagare non solo per il vincolo ormai evidente che mi legava a Consuelo, ma più ancora per la scelta esclusiva che aveva portato Consuelo a preferirmi fra tutti nella classe.
Sentivo, o quanto meno mi pareva di sentire che lei, probabilmente consapevole della tempesta che aveva scatenato, mi amava a sua volta in maniera sia pure capricciosa e ambigua. Capivo che mi era vicina, troppo ambiguamente vicina, nonostante. l'insormontabile divario dell'età e il
rapporto gerarchico che le imponeva comunque di esercitare nei miei confronti anche il ruolo imparziale di maestra e di guida pedagogica. Non credevo che quella sensazione di essere compreso e ricambiato dall'insegnante nei miei sentimenti provenisse da un'illusione soltanto
epidermica, effimera. Non ritenevo di potermi essere ingannato sulla natura assai particolare del legame che ci univa e isolava all'interno della classe, e di cui quella mano galeotta era
per così dire l'antenna trasmittente e palpitante. Avvertivo, infatti, in ognuna delle sue carezze un'intenzione che andava assai al dilà di un gesto d'affetto innocuo, di una simpatia generica fine a se stessa: mi sembrava di percepirla corrente di una volontà complice e dominatrice, possessivamente concentrata sulla conquista di tutta la mia persona che, d'altronde, già soggiogata com'era, non aspettava altro che lasciarsi allucinare e travolgere fino in fondo.
Certamente il mezzo trasmittente, di cui Consuelo si serviva per comunicare con me, era in sé alquanto limitato. Una mano, sia pure una mano già esperta, già adusa ad altre carezze, rimane alla lunga uno strumento di comunicazione carnale povero e incompleto se non dà seguito a successive effusioni amorose: la parola, il bacio, l'abbraccio. Intravvedevo il limite e il pericolo di stallo in cui quel nostro rapporto sentimentale, tutto allusivo ed elusiv, frenato e impoverito dalla mia minore età rischiava d'incagliarsi e appassirsi a poco a poco. Mi rendevo conto cioè che le dita di Consueto non potevano bastare ad alimentare la mia frustrata passione per lei. Quella mano, che pur sembrava riversare sul mio capo di ragazzo il ricordo di altri contatti più impuri, non era che la punta dell'icerberg in cui avrei voluto sprofondare: la scheggia di un corpo grande e robusto ignoto nella sua irragiungibile interezza. La corresponsione d'amore che pareva volermi comunicare con quelle sue sinuose toccate e fughe sulla nuca, sulle tempie, talora perfino sulla fronte e sulle gote, era pur sempre una corresponsione dimezzata: forzatamente tronca, maliziosamente muta, limitata da una sorta d'avarizia esasperante perchè forse calcolata eaccentuata ad arte. Il contatto, pur ripetendosi e approfondendosi, conservava tuttavia in sé qualcosa di omeopatico e di reticente; si esauriva in una specie di simbolico messaggio cifrato, di promessa chimerica senza seguito e senza sviluppo. Eppure, nello stesso tempo, quella corresponsione puramente epidermica, per quanto imperfetta, finiva per spalancare ogni volta davanti alla mia fantasia eccitata la vana speranza di altre carezze meno evasive, più compiute e più avventurose.
Mi sentivo il destinatario di una grande promessa rivelatami però in codice, mediante un alfabeto tattile senza fili; o meglio, un alfabeto dai mille fili invisibili che le dita solerti di una maga tornavano ad annodare silenziosamente, di giorno in giorno, fra i miei capelli elettrizzati dall'attesa e poi di colpo scarmigliati e arruffati da una carezza senza futuro. Breve: una grande promessa sospesa sul nulla.
Il pericolo che tutto lentamente ristagnasse lì, nel quotidiano ritorno di un gesto allusivo che la ripetitività rischiava di rendere tedioso e banale, fu per sfortuna evitato. Sfortuna? Sì, poiché il latente pericolo dell'abitudine e della noia fu, per modo di dire, preventivamente quanto crudelmente sventato dall'intervento improvviso di un altro pericolo ben più serio e più allarmante. Anzi, per quanto mi riguardava, si trattò di una svolta addirittura sconvolgente.
Un giorno Consuelo, senza il minimo preavviso, senza motivo apparente, di punto in bianco, nel mezzo della lezione, sembrò stancarsi di me e della mia povera testa questuante che in quella fatale mattina non venne neanche sfiorata. Dirò di più mi volse a tradimento le spalle quando meno me l'aspettavo, e così facendo denunciò sgarbatamente, in modo scoperto e offensivo, la fine di quel nostro rapporto speciale che tanto fastidio aveva dato ad altri scolari invidiosi. Capricciosa ma fredda, irriconoscibile agli occhi miei e dell'intera scolaresca, la professoressa volle esibire con un gesto quanto mai perfido la sua inattesa decisione di rompere ogni legame con me. Chissà perché volle umiliarmi davanti a tutti nella maniera più sferzante, mostrando che mi toglieva in pubblico ciò che in pubblico mi aveva dato. Ecco: la sua mano traditrice disertò la mia la sorvolò distrattamente e andò a posarsi, dolcissima sulla chioma di un ragazzo anonimo e quieto su cui, fino a quel giorno, non s'era mai fissato né da lontano né da vicino il suo sguardo.
Il mio amore silente per l'imprevedibile Consuelo entrò all'improvviso così, altrettanto silenziosamente, nel girone acido e vorticoso della gelosia. Neppure oggi saprei scoprire la vera ragione, ammesso che ce ne fosse una, che poté spingere quella donna saturnina, fino allora non solo conscia ma complice dei miei turbamenti, a distruggere da un momento all'altro il nostro rapporto esclusivo con una mossa tanto sorprendente quanto odiosa. Certamente non ero stato io a premeditare lo strappo e tanto meno a provocarlo. Non avevo fatto assolutamente nulla di cui dovessi vergognarmi o soltanto pentirmi. Seppure molestato e spesso pungolato dalle domande indiscrete di alcuni vicini di banco, non avevo mai ceduto alla loro curiosità, mai esaudito la loro voglia di pettegolezzo, mai confidato a nessuno l'assurda intensità dei miei sentimenti per la profesoressa. Perché allora quel fulmine punitivo, quel castigo ingiusto, inviatomi da un cielo per modo di dire sereno? Perché quella sua immotivata decisione di trasformarsi tutto ad un tratto in provocatrice, anzi provocatrice plateale, direi quasi dozzinale, consumando l'atto manuale del tradimento sotto i miei occhi annichiliti e quelli vendicativi e scintillanti degli altri alunni? L'aveva fatto per sconvolgere forse un incantesimo divenuto troppo abitudinario, per provare qualche nuova emozione illecita a mie spese, e vedere come, sapendo che l'amavo, avrei reagito alla mossa del tradimento repentino? O forse, chissà, l'aveva fatto quasi a fin di bene, per ravvivare col soffio della mia gelosia la fiamma di un amore proibito che minacciava di estinguersi nella futile consuetudine della solita carezza quotidiana? Oppure, nella perfidia della diserzione gratuita, nel finto interesse per un altro ragazzo che le era del tutto indifferente, aveva cercato soltanto il diversivo del gioco puro e semplice?
L'ignaro e fortunato ragazzo, sulla cui testa era piovuta quel giorno la manna, sedeva proprio nel banco davanti al mio. Un tipo piuttosto insignificante, uno scolaro mediocre, che però la natura aveva generosamente dotato della capigliatura più bella e più attraente che si potesse immaginare. Il viso un poco tondeggiante, sempre un po' assonnato, era sovrastato da una chioma trionfale che sembrava caduta per caso sulla sua testa da quella di un angelo. Luminosa, barocca, tutta inghirlandata di riccioli d'un biondo zecchino quasi innaturale, la massa dorata dei suoi capelli, vista da dietro come la vedevo io, pareva aspettare solo che una mano venisse a toccarla per accertarsi che non si trattava di una sontuosa parrucca.
Ma la mano infedele di Consueto, quel giorno e nei giorni successivi, andò ben oltre l'accertamento. Sotto il mio naso vidi le dita di lei indugiare adagio, sempre più lente e più morbide, fra quei meravigliosi boccoli d'angelo; vidi la punta vibrante del suo indice sfiorare e ridisegnare teneramente il contorno dei loro convolvoli; notai perfino le punte unite del suo indice e del medio penetrare insistentemente, profondamente, nell'interno di quegli anelli d'oro che, solleticati da dentro, davano l'impressione di gonfiarsi e di schiudersi come boccioli di seta investiti da tante piccole scariche elettriche. Anche il mio cuore, che batteva forte in quei momenti, dava l'impressione d'inturgidirsi sotto l'offesa che gli recava la vista insopportabile del gioco digitale di Consuelo coi riccioli del ragazzo il quale, senza volerlo, era diventato per me un odiato rivale. Quell'ostentato girotondo tattile, eseguito insolentemente sulla sua testa davanti al mio sguardo disgustato e irritato, non era certo così innocente come voleva forse apparire. Io vedevo, capivo purtroppo, che tutte quelle carezze così esibite e provocatorie erano principalmente rivolte a me: anzi lanciate contro di me che, roso da una gelosia esacerbata dall'impotenza, non potevo fare proprio nulla per impedirle. Non mi riusciva altro che di trattenere il fiato e riempirmi di rabbia sterile ogniqualvolta la mano di lei, cavalcandomi, tornava a planare sulla bella testa del rivale immobile, un po' curvo e come rassegnato sotto la carezza che stava per raggiungerlo.
Il beneficato, stranamente, s'era piegato in maniera del tutto passiva al tocco della grazia, accogliendolo senza batter ciglio, senza dare il minimo segno di comprenderlo o adirlo. Non sembrava particolarmente interessato ad apprezzare la fortuna che gli era capitata fra capo e collo. Non sembrava rapace di capire ciò che accadeva intorno a lui, tra me e lui, tra lui e me e la professoressa. Insomma, non sembrava rendersi conto di trovarsi al centro di una sottile provocazione d'amore e di gelosia, provocazione che, per caso e per calcolo, l'aveva trasformato nel lato favorito del triangolo in cui la mano erratica dell'insegnante ci aveva intrappolati ambedue. Il mio ottuso rivale dava semmai l'impressione di essersi rintanato in se stesso, come se quelle carezze premeditate, anziché risvegliarlo da lunghi sopori, non avessero prodotto in lui altro che indifferenza mista a fastidio e imbarazzo. Per esempio, il volto dell'inconsapevole eletto non era cambiato per nulla nell'espressione da quando la supplente aveva iniziato a prediligere la sua testa bionda alla mia. Dapprima sorpreso, ma mai turbato, egli era rimasto poi inerte, insensibile, anzi piuttosto seccato per l'attenzione singolare di cui la mano dell'insegnante l'aveva fatto oggetto. Perfino negli attimi talora assai prolungati, e per me interminabili, in cui la mano si perdeva nelle profondità di quei suoi riccioli dorati, come a scoprirvi un punto nevralgico che continuava a sfuggirle, lui non si scomponeva affatto. Non dava la minima sensazione di partecipare da complice al gioco. AI massimo, assumeva l'aspetto sacrificale e paziente di un succubo privo di nervi: la sua faccia tondeggiante restava come sempre un po' assonnata, i suoi occhi si dilatavano azzurrini e acquosi nel vuoto, mentre la bocca e la mascella accentuavano una certa loro naturale tendenza al rilassamento muscolare. Non mancava che lo sbadiglio a completarne il ritratto soporoso. Che gusto poteva mai trovare l'intrepida Consuelo nel trastullarsi con l'inutile splendore di quella chioma esuberante, sotto la quale sonnecchiava un volto così assente e cosi svigorito?
A un dato momento anche lei sembrò porsi la stessa domanda. Sembrò accorgersi, in parole povere, che il gioco non valeva la candela. In effetti, i segnali in cifra trasmessi dalla sua mano a quella testa rigogliosa ma sorda, che non li riceveva, che non dava risposte, che non partecipava alla tessitura della trama triangolare intorno alla mia gelosia, minacciava di ridursi alla lunga per lei in una pura perdita di tempo e di piacere. Un grigiore deluso cominciò a diffondersi sulla sua larga faccia tartarica. Le toccate sull'angelica capigliatura del mio rivale si fecero più annoiate e più sporadiche. Un giorno, all'improvviso, cessarono del tutto.
Investito da un'ondata di emozioni contraddittorie, vidi Consuelo abbandonare l'insipido ragazzo, con grande soddisfazione la vidi allontanarsi dalla sua testa bionda e poi, con un certo sgomento improvviso quanto irritato, la vidi fare un subitaneo passo indietro e spostarsi verso il mio banco. La sequenza dell'inatteso ritorno si svolse però come in uno di quei sogni che incominciano bene e finiscono male. Risentii la sua mano stranamente esitante, una mano quasi pentita, addirittura umile, adagiarsi di nuovo dopo tanti giorni vuoti sui miei capelli nel tentativo di accarezzarli e di rassettarli. Ma non so cosa mi prese in quel momento. Un oscuro desiderio di violenza e di distruzione, un desiderio forse serbo o montenegrino, sgorgò repentino e torbido dal più profondo di me. La vista d'un tratto mi si annebbiò, mi voltai infuriato, sollevando il capo e gli occhi verso di lei, mentre una mia mano incontrollata e vendicativa, simile alla zampa d'un animale ferito s'avventava sulla sua rimasta sospesa e senza appoggio nell'aria. Conficcai con forza le unghie tra le sue dita con l'inconsulta intenzione di spezzargliele. Lei strappò allora con troppa rapidità la mano alla presa e involontariamente, nella mossa brusca, la scorticò contro le mie unghie: un tenue zampillo di sangue rigò una sua falange graffiata. Non disse però nulla. Non mi redarguì davanti agli altri alunni che avevano assistito in silenzio, col fiato trattenuto a quella specie d'assalto cupo e feroce di un coetaneo uscito di senno contro la loro insegnante. Mi parve di captare soltanto uno strano brivido nel busto indolente della piccola austriaca, ormai completamente trascurata da me, la quale infatti occultò un meno sorriso curvandosi e soffocandolo dentro il palmo di una mano. Il mio rivale abbandonato, ma come sempre trasognato e distante, diede l'ennesima prova di non afferrare bene quello che stava accadendo intorno alla sua vuota testa d'angelo.
Consuelo frattanto era sparita alla mia vista senza aprire bocca. Non so se adirata, forse risentita, sicuramente turbata da quella mia aggressione così inaudita contro di lei, era quasi fuggita dalla classe attraverso la porta che poi aveva lasciato socchiusa alle proprie spalle. Pietrificato nel mio banco, già pentito di quello che avevo appena fatto, pensai per un attimo che la professoressa fosse corsa dal preside a denunciarmi. Invece la porta si riaprì dopo qualche minuto. Consuelo, che certamente era andata a ricomporsi il volto e a controllare il dito escoriato nel corridoio fuori dell'aula, ricomparve calmissima ma gelida e padrona di sé sulla soglia. Molti occhi in classe si fissarono subito su di lei, altri su di me, aspettando lo scoppio di chissà quale tempesta. Ma nulla accadde, fuorché una cosa del tutto inconsueta. La supplente, che di solito amava insegnare passeggiando fra i banchi stavolta ci stupì salendo in un balzo sulla pedana della cattedra e assumendo lassù, sopra le nostre teste ammutolire, l'aspetto di una Minerva rigida e luttuosa.
Seduta in cattedra, diede una fuggevole occhiata ai dito scorticato, lo portò alla bocca, ne umettò velocemente con le labbra la minuscola ferita e, infine, apri in un severo gesto inquisitorio il registro delle interrogazioni. A quel punto avviò anzi inventò una procedura disciplinare nuova, quasi militaresca, mai sperimentata da nessun insegnante nella nostra classe. Chiamò burocraticamente per cognome e nome, con una voce controllata e più profonda del solito, una sfilza di scolari impauriti e notoriamente impreparati. Impose loro di mettersi in riga per ordine alfabetico. Quindi, col tono perentorio di una capoclasse autentica, non più disposta alle licenze poetiche della supplente, prese a esaminarli, a setacciarli, a falciarli uno per uno, scaraventandoli negli errori in cui lei stessa freddamente li induceva con domande insidiose e difficili. La lunga fila indiana, serpeggiante dai banchi fino ai piedi della cattedra, andò raccorciandosi a ritmo sempre più veloce sotto le fucilate ben mirate dell'implacabile esaminatrice: i ragazzi frastornati, colti di sorpresa dalla rapidità e dalla durezza dell'interrogatorio, cadevano l'uno dopo l'altro nella trappola e, più morti che vivi, venivano via via seccamente rispediti ai loro posti. Non ricordo più la materia scolastica sulla quale s'imperniò e scandì quella specie di decimazione sul campo. Ma ricordo benissimo che, pur deviando e sfogando una sua ira repressa su quegli alunni innocenti, che non le avevano fatto nulla, Consuelo tuttavia riservò a me la punizione peggiore: mi ignorò completamente. Non mi chiamò neppure per cognome. Non m'interrogò. Non mi degnò neanche di uno sguardo o di un rimprovero per l'intera durata di quella "lezione" che aveva tutto l'aspetto di una rappresaglia esemplare. Mi lasciò solo, con i miei divoranti sensi di colpa e di pentimento, facendomi così capire che io non esistevo più per lei.
(Brano tratto dal romanzo Esilio, Mondadori editrice, Milano, 1996.)
Enzo Bettiza (Spalato, 7 giugno 1927) è un giornalista, scrittore e politico italiano.
Precedente Successivo Copertina
|