I NIPOTI DELLA NONNA CHE NON POTEVA AVERE FIGLI
Nelson Saúte
Mia nonna Francisca la salvò dalla vergogna. Joalina aveva il destino segnato dalla natura - non procreava. Donna che non fa figli non riesce a salvaguardare il matrimonio. Il problema era che quella ragazza non poteva tramandare il cognome del marito. Lui sarebbe anche rimasto con lei, era abituato al suo fare pacato, alle sue attenzioni quando rincasava, all'acqua calda per il bagno, alla cena sul tavolo piccino che li raccoglieva, alla roba lavata e al suo sguardo discreto. Ma la famiglia vociferava. Lei doveva essere data indietro. Dove si è mai visto? Dopo aver ricevuto il seme dal marito, una moglie deve restituire qualcosa alla terra. Erano stati da diversi stregoni. Pur divergendo sulle cause, tutti concordarono sulla diagnosi, che era una specie di sentenza: non sarebbe mai diventata madre. Perché? Le cause erano tante. Dopo tutte le visite, l'ultima delle quali dal più temuto stregone di Panda, un vecchio originario di Mambone, al marito di Joalina mancarono le forze per continuare ad adoperarsi per lei contro la sua famiglia. Non c'era niente da fare, doveva tornare dai suoi genitori. Come avrebbero fatto a restituire la dote? Nessuno lo sapeva, ma la donna sposata stava per essere ripudiata e la famiglia del marito, danneggiata dalla sua incapacità di procreare, pretendeva la stessa cifra pattuita con gli accordi prematrimoniali. Fu allora che si fece avanti mia nonna Francisca, dona Francisca de Panda, conosciuta da tutti per la sua determinazione e per la forza con la quale si destreggiava in ogni situazione. Pagò lei il valore corrispondente alla dote e prese la giovane Joalina a lavorare in casa sua. Eravamo tra la fine degli anni '30 e l'inizio dei '40. Mia madre era appena nata. Prima che mia nonna venisse a mancare, ormai sul letto di morte, chiamò Joalina e la obbligò a fare una promessa. Lei annuì con il suo proverbiale silenzio e, china sul letto dove mia nonna Francisca sarebbe morta di cancro di lì a poco, molto prima di compiere cinquant'anni, la ringraziò così per averla salvata dalle ire della famiglia del suo sfortunato marito.
I documenti di nonna Joalina Mafaduco le davano 93 anni. E' evidente che ne aveva molti di più. Come minimo aveva già superato i cento. Non ho mai conosciuto una persona tanto vecchia e tanto forte allo stesso tempo. Dicono fosse così perché aveva sempre fatto il bagno con l'acqua fredda. In effetti non l'ho mai vista scaldare l'acqua per il bagno. Nonostante gli anni, la vecchia aveva più forza di molti di noi. Si svegliava prestissimo e sbrigava le sue faccende.
Dal momento che eravamo rimasti senza nonni molto presto, la vecchia Mafaduco acquisì lo status di nostra nonna. Nonna di tutti, anche di mia madre, che la chiamò sempre così. Ci ha tirato su tutti, la generazione di mia madre, i miei zii, tutta la sfilza di nipoti e perfino, mi azzardo a dire, i bisnipoti. La storia della mia famiglia è impressa nella retina degli occhi fulgidi della vecchia Joalina.
Non potendo avere figli, non si sposò più. E non si ha mai avuto notizia di altri uomini a parte il marito che l'aveva ripudiata. Ha vissuto per mantenere la promessa fatta a dona Francisca. Da quando arrivò a casa dei miei nonni non è più andata via. Siamo noi la sua vera famiglia, nonostante, dalla parte dei Chiconela, che è il suo vero cognome, abbia nipoti ancora in vita.
Da alcuni mesi alla vecchia Joalina gli anni iniziarono a pesare. Cominciò a credere che vivere era una grande noia, una vera scocciatura, si arrese alla vecchiaia, a poco a poco si lasciò andare, lì nel suo angolino, quasi non si muoveva più. Stava lì con quel suo sguardo assorto come se, fissando il soffitto bianco della cucina, scorgesse il cielo dell'eternità. La vecchia si strinse al silenzio, si abbandonò a se stessa. Nello stesso silenzio che l'accompagnava dal giorno in cui lasciò avvilita la casa del marito.
Notammo i primi segnali strani quando iniziò a non mangiare. Smise di fare tutto da sola, diciamo pure che - perdonatemi l'espressione - arrivò a stare a mollo nella sua stessa merda. Esiste un'immagine migliore per descrivere una persona che si trascura a tal punto, che rinuncia a tutto, perfino a vivere, e che, rassegnata al proprio abbandono, si piscia e si caca addosso?
La vecchia smise di camminare. Nonna Joalina era sempre la prima ad alzarsi. Ci svegliava tutti di buon mattino per farci il bagno prima di andare a scuola. Riusciva addirittura a preparare l'acqua calda per ognuno di noi - siamo nove fratelli - già alle quattro e ci sfregava a lungo la schiena fino a toglierci tutta la sporcizia.
Se c'era una cosa che la vecchia davvero odiava era la sporcizia. Considerato che tra noi è comune il mestiere di lavavetri e perfino quello di lavasoldi, lei, quasi me la immagino, avrebbe potuto fare la lavagente. Il compito della vecchia era prendersi cura di noi, lavandoci soprattutto.
Fatto sta che il mio figlio maggiore l'altro giorno l'ha trovata con la bocca aperta. Tutti, quando tornavamo a casa, avevamo l'abitudine di andare a salutarla in cucina, dove passava la maggior parte del tempo, o nella stanza accanto. Anche i bambini facevano altrettanto quando arrivavano a casa dei nonni: andavano a salutare la vecchia Joalina, nonna Mafaduco. Stava lì immobile, con la bocca spalancata, come se fosse stata colta dallo stupore di un'esistenza troppo lunga, interminabile, prodiga di tempo per qualcuno, troppo avara per molti altri.
L'abbiamo portata in ospedale ed è stata ricoverata. I medici non le trovarono nulla. Probabilmente era la vecchiaia. Più di novant'anni per qualcuno, più di cento per me.
I giorni in cui è rimasta in sala di rianimazione - ora la chiamano di terapia intensiva - sono stati di grande apprensione. Nel frattempo le condizioni sembravano migliorare.
Ieri, quando siamo andati a trovarla, ha aperto gli occhi e ha abbozzato quel sorriso che la contraddistingueva. Chi non la conosceva avrebbe potuto pensare che lo facesse per dispetto ma la vecchia era fatta così. Sorrideva con i denti che le mancavano. Un sospiro e si addormentò placidamente.
Questo pomeriggio ho chiamato mia madre per andare insieme dalla vecchia. Volevo andare a farle visita prima di partire per le vacanze ma arrivati in ospedale, non ci hanno fatto entrare a vederla. L'infermiera ci ha chiesto di sederci ad aspettare nell'atrio, accanto all'ingresso del reparto, al pianterreno.
Mia madre ha avvertito subito un brutto presentimento. Ha avuto uno dei suoi sussulti. Ho visto le sue gambe tremare, le sue labbra biascicare parole sconclusionate, voleva dire qualcosa ma non ci riusciva. Io da parte mia pensavo: mia madre sta temendo il peggio. E ho finto di non notare la sua apprensione.
Ci hanno detto che il dottore voleva parlarci. Dal fondo del corridoio è apparso un uomo alto e magro, dai modi affabili, che ci ha pregato di seguirlo nel suo studio.
- Che grado di parentela vi lega alla signora? - volle sapere, prima di iniziare.
Mia madre ha balbettato qualcosa ma non è riuscita a farsi capire.
- Come glielo spiego, dottore? La vecchia che sta in quella stanza e che ci state proibendo di visitare, è stata la mia macaiaia1 - si dice in portoghese? - e quando mia madre è morta le ha chiesto di non abbandonarmi. Ero piccola, la più indifesa dopo la morte di mia madre. Mio padre era morto giovane, un giorno di Natale. Prima di cena era andato a riposare e ci aveva detto di svegliarlo quando era pronto il tacchino, a mezzanotte. Quando arrivò il momento di mettersi a tavola, lui era pallido, con un leggero sorriso che si schiudeva dal labbro inferiore. Era morto durante il sonno, per questo in casa nostra non festeggiamo più il Natale. Con il passare del tempo e l'arrivo dei miei nipoti - ne ho ben dodici! - ho sempre riunito tutti i miei figli per il pranzo, come se fosse una messa in memoria di mio padre. Ormai non ci pensa più nessuno, ma io tutti gli anni, in silenziosa preghiera, onoro la sua memoria.
La vecchia Mafaduco per me è più di una madre. Mi ha cresciuto e mi ha aiutato a tirar su i miei figli. Ho avuto nove parti, dieci figli, una coppia di gemelli, uno dei quali è morto prematuramente. Sono passati tutti per le mani della nonna, così come molti miei nipotini che hanno vissuto per lunghi periodi a casa mia. Allora le porte erano sempre aperte e a tavola ci stavamo tutti. Il cibo era poco ma bastava. Anche quando avevano arrestato mio marito per una soffiata sbagliata che era arrivata a Samora. Erano tempi molto duri, dottore, perché mentre mio marito lavorava noi tiravamo a campare. Faceva il camionista e portava sempre qualcosa da dividere con i vicini. C'era sempre un po' di cacciagione, del pesce essiccato o qualche sacco di farina. Poi sono arrivati gli anni in cui siamo andati avanti grazie alla mia schiena e alla macchina da cucire. Oggi dalla sarta non ci va più nessuno. Comprano tutto già fatto nei negozi, dai nigeriani e dai cinesi, oppure prodotti brasiliani, da queste ragazze che vanno e vengono da San Paolo. Chissà come campano ora. In quegli anni durissimi, mentre io passavo la giornata a cucire, la nonna si prendeva cura dei piccoli. Dalla stanza in cui lavoravo sentivo:
- Lino!
E gridava:
- Zito!
E insisteva:
- Carmito!
E urlava:
- Daniel!
E chiamava:
- Mandinho!
Dottore, non pensi che ho avuto solo maschietti. Il fatto è che solo loro rimanevano in strada fino a tardi a giocare a pallone o a scherzare con gli amici. Una delle mie figlie ce l'ha proprio davanti agli occhi. Ne ho avute diverse, dalla più grande, che ha il nome di mia madre, alla più piccola, che si chiama come mia cognata e, ovviamente, una delle mie gioie porta anche il mio nome. Quella che vede accanto a me si chiama come la mia madrina, che è già morta, poveretta - anche lei ha vissuto per gli altri, non si è sposata e si è presa cura dei figli dei cugini, fino all'ultimo giorno.
Dottore, la vecchia che sta in quella stanza è molto più di una madre e di una nonna di tutti i miei figli e nipoti. La nonna è la mia famiglia, proprio così.
Il medico fissò lo sguardo sul riflesso che proiettavano le lenti degli occhiali di mia madre:
- Stamattina, quando è stata qui, le ho detto che le condizioni di sua nonna stavano migliorando.
Mia madre a quel punto si aspettava il peggio. La vecchia il mattino aveva aperto gli occhi e sentendo la sua voce aveva emesso un sospiro. Nei giorni scorsi era peggiorata. La circolazione non raggiungeva le gambe e le mani e i medici avevano ipotizzato l'amputazione degli arti. Come può vivere una vecchia così, senza gambe né braccia? Mia madre, come tutti noi del resto, per la nonna desiderava la soluzione migliore - il riposo. Quando ci avevano detto che stava migliorando e che era perfino uscita dalla terapia intensiva fummo colti da un'effimera allegria. E' tutto ciò di cui abbiamo bisogno, siamo all'ultimo dell'anno. Ma era solo un falso segnale, un commiato. Nel primo pomeriggio ha avuto due attacchi di cuore di fila.
- Erano le due quando ci ha lasciato...
Mia madre neanche sentì le parole del medico. Uscimmo dallo studio e chiesi informazioni sul certificato di morte. Erano le quattro. Sono ancora in tempo per organizzare il funerale? - pensai tra me e me. In questi giorni, gli uffici osservano l'orario festivo e gli impiegati alle tre e mezza avranno già levato le tende, ma sono pur sempre in un ospedale. La città là fuori correva frenetica, tra chapa2 traboccanti e negozi che grazie al periodo di festa facevano ottimi affari.
Ci recammo alla camera mortuaria. Un morto non si abbandona alla sorte da chi dovrebbe prendersi cura di lui. Un morto senza famiglia e senza le dovute raccomandazioni corre il rischio di imputridire sul pavimento dell'obitorio. Muoiono così tante persone che non c'è posto per tutti nelle camere frigorifere, di conseguenza bisogna fare tutto il possibile. L'uomo che ci accolse fu gentile. Loro lo sanno già, quando viene la famiglia di qualcuno, il morto in questione merita altri riguardi. Non lo si butta per terra alla bell'e meglio, non lo si lascia fuori, deve stare al freddo. Individuò il corpo non appena gli detti le prime indicazioni:
- Viene dalla clinica? E' lì - indicò.
Non ebbi il coraggio di guardare. Volevo ricordare la nonna mentre sorrideva, con quel suo sorriso senza denti. Mia madre era rimasta in macchina, a una certa distanza.
Bisognava pagare per farla stare al freddo. Così ho fatto e non me ne andai prima di essermi sincerata che avesse occupato una celletta della camera frigorifera. In questi giorni fa un caldo atroce e molti cadaveri restano sul pavimento dell'obitorio, non resistono al tempo, alla canicola, e puzzano, putrefatti.
Poi ci dirigemmo all'agenzia funeraria per organizzare le esequie per venerdì mattina. Oggi è mercoledì, ormai è tardi. Non possiamo seppellirla domani perché arriva mia sorella per il funerale. Lo fisseremo per venerdì, di mattina. Non ho mai capito per quale ragione, in un paese così caldo, la gente si ostini a celebrare i funerali alle due del pomeriggio, con la veglia funebre che comincia all'una.
Anche la cugina di mia madre è cresciuta tra le braccia di nonna Mafaduco. E' stata una delle prime ad arrivare. Stavamo ancora sistemando le sedie, mettendo via il televisore in una delle stanze, quando suonò il campanello. Sarebbe andata a lavare e preparare la vecchia Joalina per l'ultimo saluto alle sei del mattino.
- La nonna mi ha fatto il bagno tante volte, ti ricordi?
La mattina del funerale, dopo aver preparato il corpo, mia zia si rese conto che l'agenzia funebre aveva scambiato la bara. Quella lì non sarebbe mai potuta costare duemila meticai, come sarebbe stata per la vecchia? Dopo averci ragionato su decidemmo che avrebbe avuto un funerale degno di lei. Con il contributo di tutti comprammo una delle migliori - una da ottomila! Quella mattina l'agenzia si era presentata con una bara grossolana, dipinta di grigio. Mia zia si infuriò e non servirono ulteriori lagnanze per ottenere quella che avevamo di fatto pagato.
Alla cerimonia parteciparono familiari e amici. Per una che non usciva di casa da più di dieci anni c'erano molte persone ad accompagnarla il giorno del suo funerale.
La vecchia Joalina ha delle nipotine che vivono a Maputo ma che non andavano mai a trovarla. Solo una passava a casa di tanto in tanto. Sono venute al funerale. Hanno un'aria costernata. Portano bambini in braccio. La cerimonia prosegue. E' iniziata all'ora prevista, senza ritardi. Al termine delle preghiere, le persone si mettono in fila e passano intorno al feretro che rimane aperto. Non appena il pastore concluse la funzione, mia madre fece un cenno alle nipotine affinché fossero le prime a darle l'ultimo saluto.
- Hi ta sala na mani3? - gridava una di loro
Accompagnarono i bambini per mostrare loro il cadavere di una donna alla quale non avevano mai fatto visita né avevano mai dato notizie. La veglia funebre si svolse in silenzio e, chiuso il feretro, ci avviammo al cimitero di Lhanguene.
Al nostro arrivo ci venne indicata la fossa e il carro funebre avanzò finché gli fu possibile. Il corteo si fermò più avanti, in attesa che venissero fuori i fiori e il corpo e fossero portati nella loro ultima dimora.
L'uomo dell'agenzia iniziò a comportarsi in maniera strana. Non c'era il servizio richiesto, la macchina che provvedeva a calare le bare dentro la fossa era stata destinata a un altro funerale, che si svolgeva a parecchi metri di distanza. Accanto alla sepoltura della vecchia Joalina erano disposti due pali e una corda.
- La famiglia vuole la macchina! - gridava l'uomo dell'agenzia al cellulare.
- La famiglia l'ha pagata e la pretende!
Gli uomini portarono il feretro e alcune di noi i fiori. Stavamo finendo di pregare, quando i becchini portarono via i pali e la corda per eseguire un'altra sepoltura. Per un attimo credetti che li stessero sostituendo con la suddetta macchina. Neanche per sogno. Adesso, i funerali non sarebbero stati possibili neanche con quei due artefatti. Continuammo a pregare e cantare, mentre un gruppo di uomini metteva alle strette i becchini. L'uomo che parlava al cellulare era sparito. In seguito venimmo a sapere che uno dei tizi dell'agenzia aveva subaffittato la macchina e si era intascato i soldi. Il collega sapeva tutto: il suo sbraitare era solo una forma di autodifesa.
Abbiamo dovuto pagare una tassa extra ai becchini per fare il loro lavoro, per il quale ricevono, o almeno dovrebbero, uno stipendio. Attraverso questo pagamento, determinato dalla negligenza dell'amministrazione comunale, tornarono con i pali e la corda e svolsero il proprio dovere. Avevamo smesso di cantare da un pezzo e ci guardavamo gli uni con gli altri.
Nel cimitero di Lhanguene succedono di frequente cose strane. Intorno a quello scenario sordido di loculi profanati, di mausolei devastati, di bare fracassate, di tombe disonorate, i mortali, nel tran tran quotidiano di quel luogo, camminano sulle sepolture, calpestano le lapidi. Alcuni sono lì per piangere i loro morti, altri per spiarli, per scoprire se gli sfortunati si erano fatti strada nella vita ed esumarli la prima notte, privandoli dei loro ultimi averi.
Il giorno seguente le cose del defunto verranno esposte sui muri dei mercati di strada. Qualcuno le comprerà di sicuro. Non mi succederà un giorno di salire su un chapa e imbattermi in qualcuno vestito con gli abiti di un conoscente recentemente scomparso?
I venditori di strada affermano che la roba che vendono viene dalle calamità. Potrebbe anche essere vero. Basta dare un'occhiata al muro del cimitero di San Francisco Xavier: sembra un enorme stenditoio. Si vende di tutto: boxer, reggiseni, mutandine, camice da notte, tuniche, jeans, camice, cravatte, interi abiti, tutto per pochi spiccioli. Parte di quella roba viene da un qualche defunto disturbato di recente durante un riposo che sembrava eterno ma che è stato interrotto.
La sepoltura della nonna fu breve. Se ne occuparono tre persone. Uno era entrato nella fossa per accertarsi che le pareti reggessero mentre gli altri due raccoglievano la terra renosa che si era sparsa intorno.
I becchini avevano sollevato il feretro e l'avevano appoggiato sopra i pali, disposti di traverso sulla buca. Con le corde, mentre uno ritirava i sostegni, gli altri calarono la bara. I familiari più stretti si avvicinarono per lanciare pugni di terra rossa. Uno dei becchini aveva già la pala piena ma pazientò. Cominciarono a coprire la fossa subito dopo.
Posati i fiori, si concluse la cerimonia lì nel cimitero. Mio padre parlò in nome della famiglia e dette le indicazioni per raggiungere casa nostra, dove ci siamo ritrovati per le ultime preghiere e il rito del tè.
Arrivata a casa dei vecchi mi imbattei nel giornale Not í cias. C'era la nonna alla pagina dei necrologi, stranamente viva. Una fotografia che la rende eterna e quel sorriso che annunciava: Joalina Faduco Chiconela - il nome completo. Noi la chiamavamo nonna Mafaduco. Il suo viso solcato dalle rughe, il fazzoletto che le copriva le orecchie, lo sguardo ampio e luminoso con il quale ci accoglieva sempre.
NOTE:
1 Bambinaia, nutrice, generalmente molto giovane.
2 Pulmino privato adibito al trasporto collettivo tipico del Mozambico.
3 Con chi resteremo?
(Traduzione di Julio Monteiro Martins insieme ai suoi allievi del 3° anno di Lettere all'Università di Pisa Gianluca Piana, Martina Barsanti, Laura Marletti, Mauro La Mancusa e Sara Scatena.)
Nelson Saúte è nato a Maputo, in Mozambico, nel 1967. E' poeta e autore di romanzi e racconti. Tra le sue opere principali ricordiamo: A p á tria dividida (poesia, 1993), O ap óstolo da desgraça (racconti, 1999) e Os narradores da sobrevivência (romanzo, 2000). La casa editrice Língua Geral ha pubblicato O homem que não podia olhar para trás (collana Mama África, 2006), racconto infanto-giovanile illustrato da Roberto Chichorro.
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