INTERNO DI UN TRAM


Mátyás Dunajcsik

 



Quando osservava qualcuno sembrava voler comunicare: guarda, eccomi, vorrei rivolgerti la parola, conoscere la tua vita, i tuoi desideri, sapere come prepari il tuo panino la mattina. forse per questo motivo il ragazzo leggeva tanto durante il tragitto, per evitare di entrare in contatto con gli occhi degli altri. Eppure, quando poteva, gli piaceva guardare la gente senza essere visto; prendere il tram regolarmente è come seguire una serie televisiva: il tempo è ciclico, avanza, si ferma e ritorna.

Sul tram incontrava persone che viaggiavano con lui giorno dopo giorno, questi occupavano più o meno gli stessi posti e tranne qualche piccolo dettaglio erano vestiti nello stesso modo tutte le mattine; cambiavano le pieghe dell'abito o del viso, la misura del nervosismo o della sazietà. E il tempo procedeva: i vecchi diventavano sempre più vecchi, invecchiavano anche i giovani, e l'ordine dell'abbigliamento dettato dalle stagioni e dalla moda andava avanti per la sua strada, seguendo a volte vie diverse rispetto al tram inseparabile dai suoi binari reali che lanciava strani cappi nel tempo, simili ai pensieri che si inseguivano nella testa del ragazzo. Quella mattina rifletteva sull'età in cui le donne si legano definitivamente a una certa moda, sul momento della scelta definitiva che dura fino alla fine delle loro vite. Perché è noto che da un certo momento in poi le donne non comprano più abiti nuovi oppure comprano solo vestiti simili ai vecchi: il ragazzo ne sapeva qualcosa perché sua nonna paterna, che nell'aprile di quell'anno avrebbe compiuto novantotto anni, aveva trovato la moda adatta a lei all'età di trentotto, nel 1942.

La donna che quella mattina era seduta a quattro-cinque sedili di distanza dal ragazzo, doveva avere quest'età - era probabile che se nessuno l'avesse più toccata, avrebbe portato quegli abiti e quella pettinatura anche trenta, quaranta, persino cinquanta anni dopo. Forse questo la rendeva più vulnerabile allo sguardo del ragazzo: sussultava ogni volta che lui alzava lo sguardo su di lei con quegli occhi insopportabilmente spalancati e lei era visibilmente ansiosa, come se lui le stesse cercando addosso qualcosa che non aveva mai posseduto. La donna abitava in un grande palazzo Liberty al centro della città dove, nello spazio quadrato lasciato libero del cortile interno, un unico albero si stiracchiava verso il cielo. Una volta pensò che quando non sarebbe più stata in grado di salire sul tram al ritorno dal lavoro notturno per andare a fare la spesa per sé e per il suo gatto, avrebbe in qualche modo raggiunto l'albero per impiccarsi . Si immaginò i vicini sconosciuti e muti sul ballatoio - tanti buon giorno e buona sera - intenti a osservare il suo cadavere e a parlare di lei e della sua triste vita, senza averla mai conosciuta, mentre lei avrebbe continuato a penzolare tranquilla dall'albero, come se questo movimento oscillatorio contrassegnasse il momento in cui aveva cessato di seguire la moda.

Meno male che da morta non sentirà gli stupidi commenti su di lei perché, se li sentisse, la farebbero scoppiare dal ridere.

Il fatto che questa donna non sapesse che l'edificio era stato costruito nell'anno di nascita della nonna materna del ragazzo, ovvero nel 1904, potrebbe sembrare sconveniente, ma non le interessano neppure gli ornamenti maiolicati sulle volte dei corridoi interni che rappresentano foglie di alloro e piccole bacche. Per vederli, ci vogliono giovanotti entusiasti e inesperti che nel loro tempo libero chiedono di entrare in edifici simili con la scusa di voler scattare qualche foto del cortile interno, quando in realtà vogliono solo respirare l'atmosfera; se non possono vivere in quei caseggiati, vogliono almeno portare via con sé qualcosa della loro aria. Ma va bene così: i veneziani riversano l'acqua dei piatti nella laguna strappata alle gondole, le mura di fine secolo non rendono tutti degli studiosi della storia cittadina, per giunta non era questa l'intenzione originale degli architetti, perché loro volevano costruire case e non monumenti, tenendo comunque sott'occhio - e questa è la differenza - l'ammirazione di quel giovanotto entusiasta che abbiamo appena conosciuto e che da anni è uno dei fantasmi di questa grande città con la macchina fotografica in spalla e con il sorriso dei filosofi incompresi sul viso.

Quando trovò l'edificio quasi non credette ai suoi occhi: davanti a lui si ergevano solide come catene montuose centinaia di metri quadri di impegno artistico, che da novantotto anni resistevano all'assalto dello smog, delle intemperie e dell'indifferenza degli uomini. Quasi mai nasciamo laddove vorremmo vivere, pensò il ragazzo. All'origine dell'universo doveva esserci stato uno stupido incidente, forse si era rovesciato il tavolo sul quale era appoggiata la mappa del mondo con sopra i birilli che segnalavano i posti dove gli uomini dovevano nascere. Tutti avevano un posto proprio, lui forse doveva nascere in questa casa, sua nonna paterna invece in una città spagnola del Sud dove grazie ai rigorosi codici morali del posto sarebbe stata una matrona di tutto rispetto e non quella vecchiarda che era invece qui.

Non sappiamo dove sarebbe dovuta nascere la donna che abitava in questo palazzo. Il giorno che il ragazzo suonò al suo campanello, la mattina sul tram le erano scese due lacrime dagli occhi subito dopo aver vidimato il biglietto; non erano lacrime drammatiche, era solo il corpo a lacrimare in solitudine, come l'uomo quando subisce una punizione. In quel momento c'era molta gente sul tram, né lei né il ragazzo potevano sedersi e molti si aggrappavano al corrimano che reggeva la macchinetta vidimatrice; gli capitò di alzare il polso frettolosamente, sfiorò il viso della donna e colse le due gocce scintillanti come bagliori all'alba. Poi lo dimenticarono entrambi, la donna andò a casa per dormire perché aveva lavorato all'osservatorio astronomico dal tramonto del giorno prima fino al sorgere del sole ed era così stanca da sentire le sua membra come fossero rami dell'albero mezzo rinsecchito nel cortile interno.

Come se non fossi io, mormorò fra sé davanti allo specchio dell'ingresso nell'appartamento vuoto. Il suo gatto vagabondava da qualche parte sui tetti, spero che non si sia stufato di me definitivamente, pensò e fece partire nella sua testa il programma dell'arrivo a casa per spogliarsi, dare da mangiare al gatto, versarsi un bicchiere d'acqua e addormentarsi senza più pensare e soprattutto per non guardare le foto di famiglia appese dappertutto in casa. Le avrebbe dovuto togliere già da un pezzo, per poter finalmente vivere e dormire tranquilla.

Quelli che dormono di giorno fanno sogni strani. Nelle case c'è poca gente, vi restano solo i bambini piccoli e i vecchi, gli incapaci del mondo, avviluppati in un silenzio consenziente. Il tempo è fuori, nelle strade, nei posti di lavoro e nelle scuole, e nulla ha a che fare con i cortili interni dei palazzoni; il silenzio aleggia come un gabbiano sopra i tetti, eppure è giorno e il silenzio è bianco, non è scuro, insomma non è opaco come il silenzio della notte che scioglie tutto. Nel caso della donna che abita qui è evidente cosa sta spiando con le orecchie mentre dorme: la vita, i piccoli rumori di tutti i giorni e soprattutto conversazioni, con cui costruire i suoi sogni. Nell'osservatorio astronomico dove lavora, ci sono solo uomini invasati che non comunicano fra loro, proprio come le stelle che scrutano.

La donna dormiva, il mattino diventava mezzogiorno e al suono delle campane molti alzavano lo sguardo con un sospiro di sollievo: solo qualche ora e sarebbe stato già pomeriggio quando il tempo poteva rifluire anche nei cortili dei palazzi.

Rimase sorpresa quando qualcuno suonò al campanello. Da mesi, forse da anni non riceveva più visite perché non aveva più osato amare nessuno al punto da invitarlo a casa. Il ragazzo si presentò come membro del Circolo per la Conoscenza del Quartiere e chiese cortesemente al citofono di poter entrare per scattare qualche foto. La donna premette il pulsante ed attirata da una strana curiosità, uscì sul ballatoio. Dopo qualche minuto di osservazione e parecchie foto domandò al ragazzo, che le ricordava una vecchia vacanza in Grecia, se voleva vedere anche il tetto. Allora erano ancora in tre, lei, suo marito e la loro figlia che ora studiava architettura dei giardini oltreoceano, se si poteva credere alle sue lettere. Il ragazzo le fece venire in mente una statua del Museo Archeologico di Atene, tranne che per gli occhi, perché le statue guardano solo dentro e non sono interessate ai panini custoditi negli zaini dei turisti.

«Potrebbe farmi salire?» chiese il ragazzo stupito come se lei gli stesse proponendo di spalancare una tomba egizia ed era tanto eccitato da non controllare il proprio sguardo; penetrò negli occhi della donna a modo suo facendola subito riflettere sull'opportunità o meno di far salire uno sconosciuto e portarlo addirittura sul tetto. Ma era già tardi e quando terminò la riflessione erano già dentro casa per cercare la chiave delle scale appesa accanto al ripostiglio.

«Un tempo il portiere abitava qui e io ho la chiave per poter salire perché ho un gatto che ama scappare dalla finestra e non ho altro modo per riportarlo a casa» disse la donna solo per dire qualcosa. Il ragazzo notò solo allora che per puro caso - forse anche questa era la conseguenza di un incidente come quello dello scambio delle abitazioni alla creazione del mondo - gli aveva aperto la porta di quel mondo segreto e animato proprio la donna con cui viaggiava la mattina, e mentre osservava la città sotto di sé che sembrava la pelle stesa di un animale morto, gli vennero in mente le due lacrime che quella mattina aveva raccolto.

Partendo dal lato destro dell'orizzonte il ragazzo contò una ventina di torri, poi sentì toccare la spalla, la donna gli disse di non andare oltre perché c'erano molti piccioni, lui però non le diede ascolto, allungò la mano che venne subito sporcata.

Nella donna si spezzò qualcosa, sentì l'imbarazzo della situazione e da quel momento in poi furono costretti a varcare la soglia di una maggiore intimità. Se ne rendeva conto, eppure stava già invitando il ragazzo a scendere:

«Prima lo si lava più è probabile che andrà via, meglio affrettarsi e rimandare le foto.»

Pensava che l'aveva già fatto entrare in casa una volta e lo avrebbe rifatto, e sentiva già l'acqua sulle mani, non avrebbe dovuto neppure guardare, nel suo appartamentino anche da cieca avrebbe ritrovato il detersivo e il rubinetto.

«Stendo i suoi pantaloni al sole, si asciugheranno presto» la donna iniziò la frase, ma si imbatté nel ragazzo seminudo nella porta di fronte; un perfetto sconosciuto, anche se avevano qualcosa in comune come la casa e il tram.

Potremmo affermare in tutta tranquillità che per un attimo il tempo si era fermato o era diventato insopportabilmente lento per la donna, ma in questo nostro racconto abbiamo trattato talmente male il tempo da non poterlo fare ancora, per cui la donna dovette confrontarsi con la bellezza del ragazzo in tempo reale; la sua pelle rabbrividì nella luce pomeridiana come se qualcuno l'avesse sfiorata, meno male che non ho un figlio che gli somiglia, fu il pensiero che le attraversò la mente, altrimenti comincerei sicuramente a parlare di lui e sarebbe terribilmente scontato.

Risalirono sul tetto, la donna appese la camicia su una tegola dello scolo, poi attraversò la città con lo sguardo come se vedesse per la prima volta tutte quelle case con tutta quella gente dentro, e come se cercasse qualcosa all'orizzonte. Aspettava di essere chiamata da un vicino o da una voce interna ma non rispondeva nessuno, il cielo era bianco come il silenzio del dormiveglia di chi dorme di giorno. «Stamattina ha perso due lacrime» sentì la donna e avvertì il tocco di una mano soffice e nuda sulla spalla, «gliele ho riportate». Dov'è l'errore, domandò la donna spaventata fra sé, che cosa ho rovinato. Erano più di quarant'anni che badava al proprio sguardo ed ecco, aveva perso la testa davanti a un ragazzino e lo aveva guardato come lui era solito guardare gli altri, spargendo tutto il dolore e la bellezza mai vissuta della propria esistenza. Forse quando mi sono girata con la camicia bagnata in mano e lui stava lì, davanti a me; lo si può ricostruire solo con il senno di poi.

Permise alle due braccia dietro di lei di abbracciarla e di attirarla, chiuse gli occhi e fu attenta solo al respiro dell'altro: un-due, pia-no pia-no, come se il ciondolare del suo cadavere immaginario, appeso all'albero, avesse dettato il ritmo e il silenzio che avvolgeva i loro movimenti; dicevo che fra noi c'era un legame più profondo e non solo quello creato dal caso, e se accettiamo il principio di base che l'occhio è lo specchio dell'anima, si può anche affermare che l'affinità delle anime può essere più forte di quella degli occhi, a volte fino al punto da far incontrare delle persone che in un mondo perfetto, dove ognuno nasce dove vorrebbe anche vivere, forse non si incontrerebbero mai o semplicemente non si noterebbero, eppure viaggiano insieme tutte le mattine. So che è inutile pensarci sopra, perché nella vita ci sono delle leggi, ma nessuno raccoglie le lacrime degli altri sui mezzi pubblici, preferendo guardare il mondo esterno, i manifesti pubblicitari o i sedili rovinati: perché non ci si guarda sul tram, questo è ovvio.


(Titolo originale: Villamosbelsö, in Repülési kézikönyv, JAK-L'Harmattan, Budapest, 2007. Traduzione dall'ungherese di Andrea Rényi).







Mátyás Dunajcsik
è uno scrittore e traduttore ungherese. Figura emergente della scrittura gay, nel 2008, con il suo primo volume di racconti, Repülési kézikönyv , ha rappresentato l'Ungheria all'ottava edizione dello European First Writer Festival, nell'ambito dell'annuale fiera internazionale del libro di Budapest. Collabora con varie riviste come critico letterario e ha pubblicato diversi racconti e poesie. Alla poesia si dedica intensamente anche come traduttore .



     
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