UNA VENTINA DI CAMION

- Brano del romanzo L'ora del ritorno -

Stefano Tassinari

 



(.) «Lo sai che è pericoloso venire su a quest'o­ra. Quando fa buio, quei bastardi sparano con­tro qualsiasi cosa si muova.»

«Lo so, non è mica la prima volta che salgo in montagna» gli rispose con un tono di voce un po' risentito. «Se sono arrivata adesso è perché non mi è stato possibile fare diversamente. Il fondovalle è pieno di posti di blocco, perciò mi sono dovuta arrampicare su per i sentieri e ho fatto tardi. Dall'alto, oltre tutto, ho anche notato una ventina di camion fermi nella radura.»

A questa notizia Eugenio aggrottò la fronte, ma non disse niente per non allarmarla.

«Hai degli ordini con te?» le domandò conoscendo già la risposta.

«Sì, certo, sono in questa busta» confermò Marta, prima di porgergliela.

Eugenio ringraziò con distacco, tornando cosa a indossare le vesti del partigiano Eolo, un nome di battaglia assegnatogli dagli altri, «perché - gli avevano detto - quando corri tra i calanchi sei veloce come il vento».

Un attimo dopo andò a cercare il comandan­te. Lo trovò seduto per terra con la schiena appoggiata a un albero, intento a scrivere qualche appunto su un quaderno, illuminato soltantodalla luce della luna. Prima di consegnargli la busta lo mise al corrente di quanto gli aveva rac­contato Marta. Il comandante - un uomo di cir­ca trent'anni che, giovanissimo, aveva combat­tuto contro Franco nella guerra civile spagnola - lesse rapidamente la lettera, accompagnando la lettura con una smorfia del viso. Poi, dopo aver tentennato per un istante, si rivolse a Eolo guardandolo fisso negli occhi.

«Non riesco a capire. Ci dicono di restare qui fino a nuovo ordine, ma non fanno alcun accenno a movimenti di truppe nemiche. I casi sono due: o ne sanno meno di noi, o sono fuori di testa. Se Marta ha visto una ventina di camion, significa che dentro ci sono almeno duecento uomini pronti ad avviare un rastrellamento in grande stile. E noi non arriviamo a trenta effet­tivi, dato che tre dei nostri si muovono ancora a fatica. Se quelli vengono dalla nostra parte, non abbiamo nessuna possibilità di difendere la po­stazione.»

Il comandante fece una pausa per accendersi una sigaretta, dopo averne offerto una anche a Eolo. Poi, abbassando la voce come per parlare a se stesso, aggiunse:

«C'è qualcosa che non quadra, e non mi piace per niente. Vai a dire a Casco che piazzi quat­tro sentinelle in più. E che mandi tutti gli altri qui da me entro dieci minuti».

Molti si sorpresero sia per quella convoca­zione improvvisa, sia per l'ordine di rafforzare la sorveglianza. Nessuno aveva avuto il sentore di un pericolo imminente, anche perché la zo­na, in quei giorni, veniva considerata sicura. E poi, da quando il gruppo era entrato in azione, non aveva mai subìto attacchi diretti, tanto meno di notte. Ogni volta che si erano scontrati con il nemico l'avevano fatto in seguito a una pro­pria iniziativa: arrivavano sul posto poco prima dell'alba, s'appostavano nei pressi della strada lungo la quale sarebbero dovuti transitare reparti nazifascisti, e poi, al momento opportuno, facevano scattare l'imboscata, sparando senza tregua dall'alto verso il basso. L'importante era concentrare il fuoco in un tempo brevissimo, in modo tale da ritirarsi prima che gli altri potes­sero organizzare una risposta efficace. Di norma centravano l'obiettivo di infliggere danni sen­za subirne, ma in un'occasione il sistema non funzionò. Fu il precedente comandante a sba­gliare, pagando l'errore con la vita. Al passaggio di una piccola colonna di mezzi leggeri tedeschi impartì l'ordine di attaccare, senza accorgersi che dietro una curva, a circa cinquecento metri, si muovevano alcuni carri armati. Colpa del ven­to - commentarono più tardi, per giustificare l'accaduto - che aveva spinto il rumore dei blin­dati nella direzione opposta alla loro. Stadi fatto che dai cani cominciarono a bersagliare con colpi di cannone la collina in cui erano nasco­sti, uccidendo quattro partigiani - il comandante Porro, Aldo, Ettore e Gianìn - e ferendone altri tre. In qualche modo riuscirono a trascinare via i feriti, ma non a recuperare i corpi dei caduti, che poi, con il solito rituale macabro, vennero scaricati nella piazza di un paese della valle ed esposti alla popolazione per un giorno intero. Per Aldo ed Ettore si trattava della prima azio­ne, ed era proprio a loro che Eolo stava pensando nel momento in cui il comandante iniziò a parlare a tutto il gruppo:

«Marta ha visto centinaia di nazisti accam­pati a pochi chilometri, ma di questa presenza, negli ordini che mi ha consegnato, non c'è alcuna segnalazione. Dicono che dobbiamo restare qui, ad aspettare nuove disposizioni... sem­bra incredibile, ma a quanto pare non si sono accorti di niente"

Il comandante s'interruppe, probabilmente per verificare l'effetto della notizia sui suoi uo­mini, i quali, dal canto loro, ne approfittarono per scambiarsi alcuni commenti concitati. Eolo stava seduto accanto a Marta, ma non le disse nulla, riuscendo soltanto a guardarla negli occhi con la stessa intensità che, nel farlo, avreb­be avuto Eugenio. Per un istante pensò che quello sarebbe potuto essere il loro ultimo sguardo, ma subito disperse quell'immagine attraverso il chiarore della neve attorno, tornando a concen­trarsi sulla voce del comandante, che intanto aveva ripreso a parlare:

«Abbiamo poco tempo per decidere, e io, fran­camente, non me la sento di farlo da solo. Non si tratta di debolezza, ve lo assicuro. So quali sono il ruolo e le responsabilità di un comandan­te, ma questa volta il dubbio non è tra attaccare un convoglio o far saltare un traliccio. Que­sta volta l'alternativa è tra contravvenire a un ordine o rispettarlo. Nel primo caso si aprirebbe un conflitto durissimo con il comando, e noi fi­niremmo con l'essere considerati dei traditori. Una scelta del genere, però, garantirebbe la no­stra sopravvivenza.

«Nell'altro caso, invece, ci si aprirebbero due strade: la prima sarebbe quella ideale, ma si fonderebbe sull'ipotesi, alquanto incerta, che quei soldati non sanno della nostra presenza qui, e quindi non attaccheranno. La seconda ci costringe ugualmente a rimanere fermi. Siamo in evidente inferiorità numerica e militare, non possiamo nemmeno utilizzare la radio per chia­mare rinforzi. Se lo facessimo, ci intercette­rebbero. E se ci localizzassero, non avremmo scampo».

Il comandante tacque, per dare il tempo ai suoi uomini di considerare quanto aveva detto. E mentre tutti discutevano animatamente fra lo­ro, li fissò uno per uno con lo sguardo preoccu­pato. Dopo qualche minuto riprese:

«E c'è anche un altro aspetto, di carattere stret­tamente politico, ma che ritengo utile alla discussione. Il nostro gruppo, all'inizio, è stato for­mato da comunisti non ortodossi, tant'è che mol­ti delle Brigate Garibaldi non ci considerano nemmeno dei compagni: la cosa non ci ha mai toccato più di tanto. Ora, molti si sono arruolati con noi proprio perché, sul piano politico, conoscevano le nostre posizioni e le condividevano; qualche altro, invece, è finito qui per caso, magari solo perché eravamo il gruppo più vicino al posto in cui viveva. Nessuno è mai stato discriminato per motivi ideologici; al contrario, abbiamo volutamente evitato di chiedere a chicchessia di schierarsi. Ed è in particolare a que­sti compagni... o semplicemente amici, se lo preferiscono... che mi sto rivolgendo, per chiarire che qualunque decisione verrà presa tra poco, loro potranno scegliere in piena autonomia di non seguirla».

Da parte degli uomini presenti iniziò tutta una serie di esclamazioni e di domande. E negli occhi di tutti si leggeva lo stupore. Ma i pochi più vicini al comandante - come Eolo e Marta, per esempio - avevano già intuito.

«Vi starete chiedendo» aggiunse lui un attimo dopo «il motivo di questo strano invito. Ebbene, io nutro il fondato sospetto che dietro quest'ordine rassicurante si nasconda una trappola, e non voglio che a pagarne le conseguenze siano persone estranee ai conflitti interni al mondo comunista. In Spagna ho visto decine di antifran­chisti venire assassinati da gente che stava dalla loro parte... ne avete sentito parlare anche voi, di sicuro. Nel nostro caso, non possono permettersi di farlo, se non altro alla luce del sole, e allora preferiscono lasciare il lavoro sporco ai nemici ufficiali. Non ho la minima idea di chi ci possa essere dietro... in fondo non sono nemmeno sicuro dei miei sospetti. Ma l'esperienza e l'istinto mi dicono di stare particolarmente attento. In fondo basta dimenticarsi di fornire in un ordine un'informazione decisiva e il gioco è fatto. Nessuno saprà mai cos'è successo veramente.»

Dallo stupore precedente si passò all'inquie­tudine. Figli di un'epoca autoritaria, abituati a vivere in famiglie in cui erano i padri a decidere tutto, non avevano confidenza con forme di democrazia diretta come quella proposta dal comandante. Nell'animo di ognuno cominciò ad affacciarsi la paura, assieme alla coscienza che non era più possibile soffocarla solo perché la si condivideva con tanti altri. E anche il clima, sep­pure in sintonia con quello stagionale, sembrava rappresentare un'insidia in più, un ostacolo messo di traverso davanti al bisogno di ragio­nare con la calma necessaria. La neve, infatti, si stava trasformando in ghiaccio, e tutti sapevano che, comunque fosse andato quel confronto tra loro, le ore successive non le avrebbero trascorse in quella cascina nascosta tra gli alberi, che usavano per dormire e come rifugio contro il freddo. Per almeno due minuti nessuno ebbe la forza di dire qualcosa, finché Anselmo, uno dei più anziani del gruppo, non decise che era venuto il momento di smuovere le acque.

«Noto che ve ne restate tutti zitti» attaccò con fare polemico, guardando verso un punto imprecisato della notte. «Ma non l'avete sentito il comandante? Non possiamo permetterci di perdere del tempo, e quindi io voglio dire subito come la penso. Secondo me ha ragione lui, nel sen­so che qualcuno ci ha infilato di proposito in questo vicolo cieco, sapendo che, qualunque cosa dovesse accadere, riuscirebbe nell'intento di tagliarci fuori, o perché morti, o perché accusati di essere dei traditori. E visto che non c'è al­ternativa, io preferisco di gran lunga la seconda condizione. Propongo di andarcene al più presto, anche a costo di dividerci per sempre. Nel giro di tre ore, camminando in fretta, potrem­mo raggiungere l'altro versante della valle e met­terci al sicuro. Conosco alcuni contadini antifa­scisti disposti, senza dubbio, a nasconderci in un grande fienile di loro proprietà. E un posto protetto, perché l'unica strada di accesso finisce lì e la si può controllare dall'alto per un lungo tratto. Dopo un paio di settimane, potremmo tentare di raggiungere la città a scaglioni di due o tre alla volta. C'è bisogno di uomini per orga­nizzare azioni di guerriglia urbana. Noi di armi ne abbiamo a sufficienza, e altre ne potremo portar via ai tedeschi strada per strada. Per quanto mi riguarda è tutto.»

Il comandante l'osservò perplesso, ma il buio impedì ad Anselmo di notare la sua espressio­ne contrariata. Non aveva gradito il tono arro­gante, né il passaggio sull'eventualità di spac­care il gruppo: quell'intervento a suo favore ri­schiava di trasformarsi nell'esatto contrario. Ri­fletté per qualche secondo, poi chiese nuovamente la parola.

«Non era nelle mie intenzioni intervenire an­cora, ma credo di dover chiarire una questione

importante. Quando vi ho comunicato di non voler decidere da solo, l'ho fatto dando per scon­tato un elemento che forse per qualcuno non è ancora tale, e cioè che la nostra scelta sarebbe stata vincolante per tutti, tranne che per quelli a cui ho fatto riferimento prima. L'unica cosa che non desidero è la frantumazione di questo gruppo. Per mesi abbiamo combattuto assieme e dobbiamo continuare a farlo, in un modo o nell'altro.»

Anselmo si sentì gli occhi di tutti puntati addosso, ma preferì non replicare per non peggiorare la situazione. Forse si era spinto troppo avan­ti, senza tener conto dei diversi livelli di coscienza che caratterizzavano i compagni. Ma dentro di sé non si rimangiò nulla di ciò che aveva detto, convinto fino in fondo delle proprie ragioni.

«Io invece voglio rimanere» intervenne Falco, uno di quelli a cui si era rivolto direttamente il comandante. «Non ho le certezze di Anselmo, e piuttosto che passare per un traditore preferi­sco morire con un'arma in mano. Quando sono salito in montagna sapevo di correre questo ri­schio, e se non mi fossi sentito di accettarlo me ne sarei rimasto a casa, nascosto in cantina. Io non pretendo di convincere nessuno, e sono anche disposto ad accettare un'altra decisione. Vor­rei soltanto che venisse steso un verbale ufficia­le di questa riunione, riportando le diverse opi­nioni e il risultato della votazione finale, con tanto di nomi di chi si è schierato da una pane o dall'altra. Che rimanga a futura memoria... E vorrei ricordarvi un episodio risalente a qualche mese fa, quando, dopo un'azione, rimasi tagliato fuori. Passai un giorno e una notte a vagare, da solo, attraverso un territorio che non cono­scevo, finché non incontrai tre partigiani, ai quali dissi subito il nome della formazione in cui ero e continuo ad essere inquadrato. Si trattava di garibaldini, ma non tentarono in alcun modo di farmi passare nelle loro file. Semplicemente mi aiutarono a ritrovarvi, perché non facevano distinzioni politiche, come non ne faccio io. Anche per questo non posso credere che qualcuno di loro ci abbia teso un tranello. No, compagni, è assurdo!»

A quel punto la discussione si era aperta dav­vero e in molti chiesero di parlare, primo fra tutti Altiero, un altro di quelli che si erano aggre­gati quasi per caso.

«Anch'io sono per restare, per le stesse ragio­ni appena esposte da Falco. Posso capire il comandante: certe cose sono successe davvero, ma in Spagna e non qui da noi. In ogni caso, se ades­so dovessimo scegliere di obbedire agli ordini scritti, lo dovremmo fare nel migliore dei modi. Non siamo ancora morti, e dobbiamo puntare a non esserlo nemmeno domani o dopo. Su di lo­ro un vantaggio, anche se uno solo, ce l'abbia­mo: quello di conoscere le loro intenzioni... sem­pre che di questo si tratti... mentre loro non pos­sono essere sicuri di poter contare sull'effetto sorpresa. Ma adesso questo dibattito deve chiu­dersi.»

Le parole di Altiero suscitarono molte frasi di consenso. Poi si levò qualche voce a favore dell'altra ipotesi, ma così, con scarsa convinzione, perché ormai era chiaro quale delle due tesi sa­rebbe prevalsa. Pochi minuti dopo si passò alla votazione per alzata di mano, che finì ventuno a nove per la mozione di chi voleva restare, con una sola astensione, quella di Marta, alla quale nessuno aveva saputo chiarire se poteva parte­cipare o meno.

Il comandante non fece commenti, prefe­rendo risparmiare energie mentali per allesti­re una difesa minimamente efficace. Ma prima di impartire le disposizioni agli uomini si rita­gliò un piccolo spazio per sé. Pensò innanzi tutto a Giovanna, la fidanzata, e ai propri genito­ri, che probabilmente non avrebbe più rivisto, sentendosi, per l'unica volta da quando era par­tito, un uomo come tutti gli altri, con le stesse ansie e lo stesso rapporto con il proprio mon­do affettivo. Gli eroi non esistono - disse tra sé - se non nel momento in cui non possono più evitare di diventarlo. E certe volte sono stupi­di, gli eroi, specie quando potrebbero fare a meno di indossare quei panni, e invece vanno incontro a un destino ineluttabile, solo perché non riescono a fermarsi un secondo prima di compiere quel passo, come stava capitando a loro, in una notte d'inverno, a un'età ingiusta anche con se stessa. (.)




(Brano tratto dal romanzo L'ora del ritorno, Marco Tropea editore, Milano, 2001.)







Stefano Tassinari
, nato a Ferrara nel 1955, vive a Bologna. Collaboratore dei programmi culturali di RadioRai Tre, è autori di testi teatrali e direttore artistico di varie rassegne letterarie. Ha pubblicato, tra gli altri, i romanzi All'idea che sopraggiunge (1987), Assalti al cielo (1999) e L'amore degli insorti (2005), oltre alla raccolta di racconti Ai soli distanti (1994).



     
  Precedente       Successivo       Copertina