IL MEDICO ITALIANO

– Brano tratto dal saggio Niente asilo politico - Diplomazia, diritti umani e desaparecidos

Enrico Calamai




(…) Una mattina la signora Giugni mi consegna un portafogli che la polizia ha appena portato. Non vi sono soldi, ovviamente. Contiene, in compenso, tutti i documenti di un italiano, compreso il passaporto, che mostra un timbro di arrivo a Ezeiza di poche settimane prima. La signora Giugni mi fa garbatamente notare che il legittimo proprietario non può essere andato da nessuna parte senza il passaporto. Che deve trovarsi in una situazione di estrema gravità, per non essersi fatto vivo a segnalarne la perdita o il furto.
Riusciamo a risalire dall'indirizzo alla famíglia in Italia e veniamo a sapere che si tratta di un medico venuto a Buenos Aires per partecipare a un congresso. In effetti, sono rimasti senza notizie.

Iniziano giornate di ricerche affannose. Mi reco più volte alla sede centrale della polizia di Buenos Aires, a calle Moreno. Trovo un funzionario che prende a cuore la si­tuazione e diffonde dei cablogrammi in proposito a tutti i commissariati.

Resto ad aspettare le prime risposte fino a tarda notte. Mi colpiscono due manifesti a sfondo nero: uno mostra due occhi fosforescenti, l'altro un demoniaco personaggio, con cappello e impermeabile, in atteggiamento di ascolto. Sul primo si legge: Il nemico ci guarda. Sul secondo: Il nemico ci ascolta.

II clima che si respira nell'ufficio è di un grande efficientismo: ticchettio di macchine da scrivere, telefoni che squillano continuamente, poliziotti che entrano di corsa, escono sbattendo la porta. A un certo punto entra uno che grida che c'è una macchina senza targa al centro del par­cheggio sotterraneo. Tutti si voltano verso di me, chieden­domi se sia la macchina del consolato, che peraltro è di tutt'altro tipo, ha la targa ed è parcheggiata per strada. Non riescono a capire come abbia fatto quella macchina ad arrivare fin laggiù e temono si tratti dì una bomba. Per fortuna non è così.

Finalmente arriva una segnalazione da un commissa­riato di periferia. Mi sistemano sul sedile posteriore di una Ford Falcon nera, tra due uomini con il mina puntato ver­so la strada, e partiamo di corsa. Chiedo cosa siano quei foglietti appiccicati al finestrino e mi spiegano che è per evitare imboscate. Con l'aria che tira, i poliziotti di notte girano tutti in borghese e hanno ordine di sparare senza indugi a qualunque altra macchina che si affianchi, anche se apparentemente della polizia, a meno che non porti bene in vista gli stessi foglietti, che vengono cambiati dì formato, posizione e numero ogni giorno.

Arriviamo nel commissariato che è ormai notte fonda. E una modesta casupola con il tetto in lamiera, ma circon­data da un ampio spiazzo protetto da mura che mostrano il filo spinato. Grossi riflettori lo illuminano a giorno. Agli angoli, dietro montagne di sacchi di sabbia, poliziotti con casco, giubbotto antiproiettile e mitra. Sacchi di sabbia anche alle finestre e a formare una L davanti alla porta.

Si tratta di un falso allarme. Hanno trovato un barbone alcolizzato che ha in comune con il medico scomparso il colore dei capelli e il fatto di essere italiano.

Pochi giorni dopo dall'Italia arriva il fratello, per seguire personalmente le ricerche. Mettiamo annunci sui gior­nali, lanciamo appelli alla televisione e alla radio. Una mattina arriva una telefonata anonima di qualcuno che crede di aver visto una persona corrispondente alle indica­zioni fornite. E in stato di confusione mentale, con dei mo­menti di lucidità in cui chiede aiuto, dicendo di essere un medico italiano.

Mollica ci porta a tutta velocità all'ospedale di periferia che ci è stato indicato. Dopo molte insistenze veniamo scortati in un cortile pieno di casse vuote, materiale sani­tario scartato e spazzatura. Il corpo è completamente nudo, riverso nel cassetto più basso di un armadio metallico, previsto per una refrigerazione che certo non ha funzionato. Il caldo, l'odore, le mosche sono insopportabili. Il fra­tello lo riconosce per una cicatrice alla gamba.

La direzione dell'ospedale rifiuta qualunque spiegazio­ne. Si tira indietro anche la polizia, che fino a quel mo­mento ha fatto tutto il possibile, sostenendo che ormai non c'è altro da chiarire.

Uno dei dottori dell'ospedale accetta di parlarci di sfuggita in un corridoio. Ci spiega che nessuno credeva che quel barbone delirante potesse veramente essere un medico, come sosteneva nei rari momenti di lucidità. Al­trimenti, ci assicura, avrebbero fatto di tutto per salvarlo. Eppure qualcuno deve aver sospettato qualcosa, visto che gli hanno strappato la protesi dentaria in oro.

Insieme al fratello della vittima mi rivolgo al nunzio apostolico, per chiedergli di intervenire presso le suore in servizio all'ospedale, affinché ci facciano riservatamente sapere come sono effettivamente andate le cose. Risponde in maniera evasiva dicendo che farà tutto il possibile, ma che non ha alcuna autorità sulle suore. Le quali, in effetti, non si faranno vive.

Soltanto l'autopsia potrà spiegare la causa del decesso, ma è evidente che a praticarla non possono essere i medici dello stesso ospedale. Né quelli della polizia, che vi si oppongono. Chiedo quindi all'Ospedale italiano che deleghi due chirurghi a provvedervi, ma anche qui emerge l'atteg­giamento omertoso di chi non vuole urtarsi con colleghi e polizia. Capisco che c'è un unico modo per essere sicuri che l'autopsia venga fatta bene: assistervi.

Mollica e io andiamo a prendere i due chirurghi, che ci stanno aspettando controvoglia all'Ospedale italiano. Du­rante tutto il lungo tragitto cercano di dissuadermi bona­riamente dall'assistere. Uno di loro mi racconta di avere eseguito l'autopsia di Oberdan Sallustro, il presidente della Fiat argentina sequestrato dalla guerriglia pochi anni prima. Per dimostrarmi amicizia, mi confida che a ucci­derlo è stata la polizia, che ha fatto irruzione nella villetta in cui era tenuto nascosto, sparando indiscriminatamente e ammazzando tutti i presenti. Per dare una lezione alla guerriglia.

Arriviamo finalmente presso il posto di polizia adia­cente a un cimitero di periferia, dove è stato portato il ca­davere. E un'enorme stanza a pianoterra, con il pavimento in cemento, il soffitto basso e le pareti ricoperte da ampie scaffalature. Vi si vedono cadaveri distesi su vassoi porcel­lanati che sembrano galleggiare nella penombra, prepa­randosi a una lunga navigazione. Il lettino in acciaio inos­sidabile predisposto per l'operazione è al centro, con il ca­davere del medico italiano sopra.

Fino all'ultimo i due chirurghi tentano di evitare l'in­tervento o, almeno, la mia presenza. Fanno un estremo tentativo al momento di iniziare. Attirano la mia attenzio­ne sull'occhio del defunto, che uno di loro ha spalancato con la mano guantata: pullula di piccoli vermi biancastri.

Comunque rimango. Assisto mentre aprono la scatola cranica e poi il torace. Nei momenti in cui mi sembra di essere sul punto di svenire alzo gli occhi verso un ragazzo steso sul suo vassoio, in uno scaffale davanti a me. Ha cir­ca vent'anni. Colpisce l'aria di serenità che avvolge la sua figura addormentata. E sereno anche il viso, malgrado il buco in mezzo alla fronte.

Mi sentirò male soltanto al ritorno, in macchina, quan­do sono quasi sul punto di vomitare — da allora basta il verme di una mela a farmi star male.


Non riusciamo a procurarci elementi sufficienti per fare causa all'ospedale. Ma la verità viene fuori a poco a po­co, dalle telefonate anonime che arrivano in consolato.

Il medico è arrivato a Ezeiza in stato confusionale, do­po avere avuto un malore in volo. In tali condizioni, l'im­porto chiesto dai tassisti per portarlo fino in centro deve essergli apparso esorbitante. Tutti a Buenos Aires conti­nuano infatti a esprimersi in pesos vecchi, mentre i turisti conoscono soltanto i pesos nuovi. Ciò comporta spesso malintesi, con i nuovi arrivati che possono, ad esempio, trasecolare nel sentirsi chiedere diecimila pesos al posto di dieci.

Risulta in ogni caso che il medico si è allontanato a piedi dall'aeroporto, trascinando la sua valigia. Qualcuno deve averlo caricato in macchina, per poi colpirlo alla testa, rapinarlo e lasciarlo in mezzo alla strada.

Probabilmente è stato colpito e rapinato più volte. Qualche giorno dopo l'hanno visto aggirarsi perla zona del porto, completamente nudo, sporco, ferito e stravolto. La gente si terrorizza quando cerca di avvicinarsi. Alcuni ragazzi lo prendono a sassate per farlo andare via.

E stato allora che qualcuno ha chiamato l'ambulanza ed è stato ricoverato a forza. All'ospedale gli hanno ri­scontrato un diffuso versamento cerebrale, senza fare al­tro che tenerlo in corsia. I pasti gli vengono regolarmente lasciati in un vassoio vicino al letto, ma altri pazienti glieli sottraggono, dato che non è più in grado di provvedere a se stesso.

E la fine che attende i barboni. O chiunque, impossibi­litato a provvedere a se stesso, non ha familiari che lo ac­cudiscano. Almeno nella Buenos Aires della guerra fredda.



(Tratto dal saggio Niente asilo politico, Feltrinelli, Milano, 2006.)



Enrico Calamai, ex diplomatico in Argentina negli anni settanta, in Italia è stato chiamato a testimoniare nel processo che ha portato alla condanna di otto militari argentini. Ha contribuito a fondare il Comitato per la promozione e la protezione dei diritti umani. Niente asilo politico, pubblicato per la prima volta da Editori Riuniti nel 2003, è la testimonianza della sua esperienza di diplomatico nell'Argentina prima e dopo il golpe del 1976.


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