BUZZELLI

– Brano tratto dal saggio American ground –


William Langewiesche


(…) Al momento dello schianto contro la torre nord, Buzzelli si trovava molto più in basso, in un ascensore secondario che saliva verso il suo ufficio al sessantaquattresimo piano. L'ascensore ha subito uno scossone violentissimo ed è precipitato per un breve tratto, poi si è riassestato lentamente al punto di partenza, la «sala panoramica» al quarantaquat­tresimo piano. Quando le porte si sono aperte, Buz­zelli si è trovato davanti una confusione di grida e denso fumo nero (sprigionato probabilmente dal carburante dell'aereo, colato nella gabbia di altri a­scensori e adesso in fiamme). È tornato immediatamente nella cabina e, non potendo fare altro che salire, d'istinto ha premuto di nuovo il pulsante del suo piano, il sessantaquattresimo. Per arrivare in cima la cabina ci ha messo un'eternità. Al piano sem­brava tutto tranquillo; l'illuminazione funzionava e c'era poco fumo. La maggior parte degli impiegati se n'era già andata, ma rimaneva più di una dozzina di persone che, obbedienti, aspettavano istruzioni dall'alto. Così gli era stato chiesto di fare, a quanto pareva, dai funzionari della Port Authority e del Fire Department interpellati per telefono. Visto che del gruppo faceva parte anche il suo capo, Pat Hoey, Buzzelli ha deciso di fermarsi lì, cercando di sapere cos'era successo.

«Non lo so,» gli ha risposto Hoey «ma sono quasi volato via dalla sedia».

«Davvero? Pensavo che fosse un guasto agli ascen­sori».

Hoey ha continuato a telefonare al centro comu­nicazioni della Port Authority, ma senza ottenere informazioni precise. Sembrava nervoso, ma più per un fatto di frustrazione che di paura. Buzzelli è andato a un altro telefono per chiamare sua moglie,incinta di sette mesi del loro primo figlio: «Non ti preoccupare, sto bene. Però accendi la tivù e dimmi se è successo qualcosa».

Ha aspettato. Dopo un po' la moglie è tornata all'apparecchio, urlando: «Mio Dio, Pasquale! C'è un aereo nel tuo palazzo!».

Buzzelli, da buon ingegnere, non si è scomposto. «Va tutto bene, va tutto bene. Non ti agitare». (E raccontandomi quella conversazione ha aggiunto: «Si stava preoccupando, sa com'è»). «Fammi solo un favore: puoi dirmi dov'è? Ci ha colpiti in alto, a metà o in basso?». («Capisce, non sa niente di piani e roba del genere»).

«Be', sembrerebbe piuttosto in alto».

Ovviamente era una buona notizia. Buzzelli aveva già vissuto l'attentato del 1993 al World Trade Cen­ter e non sembrava turbato più di tanto. «Okay. Va tutto bene. Insomma ora lo sai, sto bene, siamo qui e adesso ci inventiamo qualcosa».

Ma per inventare qualcosa c'è voluto un po' di tempo. Prima, in qualche modo, è arrivata la notizia che anche la torre sud era stata colpita da un aereo, anche se nessuno di loro ha visto o sentito niente. Gli uffici occupavano l'angolo nordoccidentale della torre nord, il punto più lontano dalla torre ge­mella. Per quanto strano possa sembrare erano iso­lati, e non avevano modo di accorgersi di nulla, nemmeno che i loro colleghi dei piani superiori sal­tavano nel vuoto. Dopo avere inzuppato d'acqua alcune giacche, le hanno infilate sotto le porte, per non fare entrare il fumo che filtrava dal corridoio degli ascensori. La loro reazione è stata come ral­lentata da una specie di inerzia collettiva: sicuri che gli avessero ordinato di aspettare lì, hanno conti­nuato a telefonare in cerca di qualcuno che comu­nicasse i dettagli del piano di evacuazione. In que­sto modo è stata spesa più di un'ora, mentre Frank Lombardi, che invece gli avrebbe detto di andarsene all'istante, scendeva giù per le scale dal suo uf­ficio situato più in alto, ma senza ovviamente con­trollare ogni piano.

Alle 9 e 59 hanno sentito una specie di tuono soffocato, e l'edificio vibrare. Era la torre sud che crollava, un evento talmente impensabile che tutti quanti hanno subito cercato la spiegazione più sem­plice per quel sussulto – magari un frammento dell'aereo che si staccava e scivolava lungo la facciata. Non si sono neppure spostati su quel lato per guardare dalle finestre. Però si sono resi conto che il fu­mo nel corridoio degli ascensori si faceva sempre più denso. Buzzelli e un altro hanno sbloccato le porte e sono usciti a controllare le scale di emer­genza più vicine, trovandole sgombre e illuminate. Tornati in ufficio, hanno riferito la notizia agli altri. Con o senza permesso, era giunto il momento di andarsene. Finalmente il gruppo ha cominciato a scendere, a piedi, dal sessantaquattresimo piano.


Erano in sedici. Si muovevano a velocità diverse, tanto dopo un po' si sono ritrovati sparpagliati almeno su nove piani. La scala scendeva in senso an­tiorario, verso sinistra, e naturalmente era senza finestre, del tutto isolata dall'esterno. Più o meno a un terzo del percorso (verso il quarantesimo piano) Buzzelli ha cominciato a incontrare vigili del fuoco esausti, alcuni dei quali si erano seduti sui gradini per riposarsi. Nemmeno loro sapevano che la torre sud era crollata, né che i loro colleghi avevano rice­vuto l'ordine di ritirarsi. Erano calmi, e dicevano: «Continuate a scendere, la via è sgombra. Conti­nuate a scendere, la via è sgombra».

Buzzelli aveva appena oltrepassato il ventiduesi­mo piano quando anche la torre nord ha ceduto: erano le 10 e 28 del mattino, un'ora e quarantadue minuti dopo l'attentato. Ha sentito un rimbombo, e subito dopo una tremenda serie di colpi dall'alto che sembravano avvicinarsi sempre di più: erano ipiani superiori che crollavano l'uno sull'altro, in se­quenza. Quei colpi Buzzelli se li ricorda benissimo. Era un battere ritmato, sempre più intenso, sempre più rapido, come un macigno gigantesco che, roto­lando per le scale, stesse per cadergli sulla testa. D'i­stinto si è tuffato dalla metà di una rampa di scale andando a rannicchiarsi in un angolo del pianerottolo. Sapeva che il palazzo stava crollando, e ha fatto né più né meno quello che qualsiasi altro cattolico avrebbe fatto al suo posto: ha chiuso gli occhi e ha pregato per la moglie e il figlio che doveva nascere. Per sé ha chiesto solo una morte rapida. Con gli occhi chiusi, ha sentito, piuttosto che vedere, i muri intorno a lui squarciarsi. Per un attimo le pareti gli si sono ripiegate sulla testa e sulle braccia, e le ha sentite schiacciarlo; poi la struttura sotto di lui si è disintegrata, e ha pensato: «Ecco, è giunta la mia ora» – quindi ha cominciato a precipitare, sempre con gli occhi chiusi. E un po' come una corsa sull'ottovolante del luna park Great Adventure, nel New Jersey, ha pensato. Non poteva dire di divertirsi: in realtà non poteva dire nulla. Non provava nul­la. Ha sentito il vento sulla faccia, e come una passa­ta di cartavetro sulla pelle mentre ruzzolava attra­verso la nube di detriti. È stato colpito leggermente alla testa quattro volte, e ogni volta ha visto un lam­po, poi un altro, abbagliante, quando è atterrato. Ha aperto gli occhi: erano passate tre ore.

Si è tirato su a sedere. Ha visto il cielo azzurro so­pra di lui, e sotto di lui un mondo in frantumi di ac­ciaio e cemento. Era atterrato su una lastra di cemento simile a un altare sacrificale, sospesa sopra montagne di macerie. Un salto nel vuoto di quasi cinque metri lo separava dal cumulo di detriti sottostante. L'aria era satura di un fumo denso. Sopra la sua testa si levava un grazioso scheletro di muro, un merletto gotico che si reggeva in piedi per miraco­lo. Ricordava benissimo tutto – e ha pensato di essere morto. Ha aspettato un po', per vedere se la mor­te sarebbe stata come al cinema: magari sarebbe ve­nuto un angelo a prenderlo, oppure sarebbe salito in cielo e avrebbe visto se stesso dal di fuori. Poi, però, ha cominciato a tossire e a sentir male a una gamba, e ha capito di essere vivo. Era intrappolato lassù, su quella specie di altare, ferito e coperto da una polvere viscida. Ha gridato per chiedere aiuto, e ha chiamato per nome tutti quelli che lo avevano accompagnato giù per le scale. Nessuna risposta – e nessun segno di movimento, o di vita, intorno a lui. Al posto delle Torri Gemelle ora c'erano soltanto fumo e cielo. Chissà come, un intero, enorme grat­tacielo gli era passato accanto mentre crollava. Chissà come, lui era arrivato a terra ed era ancora vivo. Buzzelli era cattolico, ma aveva la testa dell'in­gegnere, non del teologo: e per un'ora è rimasto se­duto sull'altare, cercando di trovare una spiegazio­ne logica.

Non che si considerasse in salvo. L'altare era pericolante, minacciava di ribaltarsi o di crollare. E lui era ferito troppo gravemente per scendere senza aiuto. Poteva lasciarsi scivolare giù dalla lastra, ma temeva di rimanere impalato su uno di quegli spun­zoni d'acciaio che vedeva lì sotto. Era sempre più difficile mantenere la calma. Era solo e impotente, e i primi rumori a infrangere il silenzio non sono state le voci di una squadra di soccorso, ma il crepitio di un incendio sempre più vicino. Il fuoco stava ar­rivando da un punto alle sue spalle che da quella posizione non riusciva a vedere. Aveva paura che le fiamme potessero indebolire lo scheletro di muro facendolo crollare sopra di lui, o peggio, che lo bru­ciassero vivo. A giudicare dal rumore, il pericolo si avvicinava a grande velocità.

E stato allora che ha sentito qualcuno chiamare «Richie!». Era un pompiere che si arrampicava sulle macerie (senza che Buzzelli potesse vederlo) nel tentativo di localizzare i quattordici sopravvissuti della scala di emergenza – uno di loro aveva stabilito un contatto radio e guidava i soccorritori.

Buzzelli non lo sapeva. Era una presenza umana, e tanto gli bastava. Si è messo a gridare: «Aiuto, aiuto! Sono quassù!».

Alla fine il pompiere si è materializzato sotto l'altare. Ha guardato Buzzelli e gli ha detto: «Ehi, ti ser­ve una corda per scendere?». Forse lo aveva scam­biato per il collega di una squadra di soccorso rimasto bloccato su quella lastra.

«Se vuoi salto, ma non ce la faccio a calarmi giù da solo» ha risposto Buzzelli.

Il pompiere è rimasto interdetto, lì per lì, ma poi ha fatto due più due: «Oddio, ragazzi! C'è un civile quassù!».

Sono subito accorsi alcuni colleghi, cercando il sistema migliore per far scendere Buzzelli. Non era così semplice. I fianchi della montagna di macerie erano instabili, e l'equilibrio della lastra su cui era appollaiato Buzzelli precario. Poi c'era il problema del fuoco. Non si trattava di un semplice incendio, ma di un vero e proprio inferno di fiamme. E in quel momento le vampate si sono fatte talmente forti da costringerli a ritirarsi. Mentre scomparivano, uno di loro ha gridato: «Tieni duro! Torneremo a prenderti!». La promessa non è bastata a rassicurare Buzzelli: sapeva benissimo che se solo fosse stato possibile restare non lo avrebbero abbandonato.

Ormai era terrorizzato. Il fuoco ruggiva, crepitava e provocava una serie di piccole esplosioni proprio dietro l'altare. Ancora non riusciva a vedere le fiam­me, ma ne sentiva il calore. E avvertiva anche un al­tro rumore, più discreto; probabilmente era l'ac­ciaio surriscaldato che scricchiolava e sfrigolava. La fine, insomma. In preda alla disperazione, Buzzelli aveva deciso di prendere in pugno il proprio destino, e tastando intorno a sé aveva trovato un pezzo di

metallo affilato con cui tagliarsi le vene. Lo stringeva in mano, ed era sul punto di usarlo quando inspiegabilmente, così come all'improvviso erano divampate, le fiamme si sono smorzate fino a spegnersi. Pochi minuti più tardi sono tornati i pompieri. Uno di loro, un certo Jimmy, gli ha detto: «D'accor­do, in qualche modo adesso ti veniamo a prendere». Ha girato intorno all'altare, è scomparso per arrampicarsi sulle rovine e, non certo senza rischi, ha raggiunto una rientranza nella montagna di ma­cerie, più in alto rispetto a Buzzelli e spostata più indietro. Da lì è sceso fino all'altare, dove insieme ai tre colleghi che lo avevano seguito ha preparato un'imbracatura di corda con cui ha calato Buzzelli sul cumulo di detriti sottostante.

C'erano grossomodo altri 400 metri di terreno ac­cidentato da percorrere. Nonostante la gamba gli facesse malissimo, Buzzelli è riuscito a camminare fin quasi a metà strada prima di cominciare a per­dere conoscenza. I vigili del fuoco lo hanno fatto sdraiare su una barella di plastica e se lo sono passati giù per il pendio come in una catena umana. Nell'ambulanza, un infermiere gli ha prestato il cellulare per chiamare la moglie, che era a casa circondata da amici e parenti. Era il tardo pomeriggio. «Dio mio. Non riesco a crederci...». In sottofondo si sen­tivano urla di gioia: «Già, sono vivo» ha detto Buz­zelli. Lo hanno portato al Saint Vincent's Hospital, dove tutti gli altri ricoverati erano poliziotti o vigili del fuoco rimasti leggermente feriti durante le ope­razioni di soccorso. Il personale dell'ospedale dava per scontato che anche Buzzelli fosse uno di lo­ro. Aveva tagli e lividi, e il piede destro rotto, ma nient'altro. Gli hanno detto che poteva andare a casa o restare a dormire nella mensa dell'ospedale, se preferiva – si aspettavano un arrivo in massa di casi più gravi, che in realtà poi non c'è stato. (…)


(Brano tratto dal saggio American ground, Adelphi edizioni, Milano, 2003. Traduzione di Roberto Serrai.)



William Langewiesche č corrispondente di “The Atlantic Monthly”, su cui il libro American ground č apparso in tre parti. La prima edizione in volume č del 2002.


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