PICCOLI PROPRIETARI
Roberto Arlt
Una sera, Eufrasia, era da poco passata l'ora di cena, disse a Joaquin, suo marito:
— Sai?, credo proprio che il nostro vicino rubi del materiale a quel poveretto al quale sta costruendo la casa. Joaquin la guardò di sbieco, cupo, con il suo occhio di vetro:
— Come lo sai?
— Perché oggi al tramonto è venuto con il carretto carico di sabbia che aveva coperto con dei sacchi per non dare nell'occhio.
— Non è possibile.
— Si, e ieri portava delle mattonelle sotto il braccio, anche quelle avvolte in un sacco rotto. Ma se ne vedeva un lato.
— Allora... forse...
— Si..., ci avevo fatto caso anche quando stava costruendo quell'altra casa. All'inizio ritornava presto con il carretto, poi, quando stava per finire, molto più tardi e sempre con il carretto coperto. Con quel materiale ci devono aver costruito la tettoia.
Con aria severa Joaquin replicò:
— Certo, così è facile costruire e farsi delle tettoie per far crepare di invidia gli altri.
Poi non parlarono più. Cenarono in silenzio e l'occhio di Joaquin, commesso viaggiatore e piccolo proprietario, era immobile come l'altro di vetro.
Solo al momento, di andare a letto, quando stava per spegnere la luce, Eufrasia disse, senza guardare suo marito, con la voce leggermente alterata dal desiderio di farla apparire naturale:
— Se il padrone della casa lo sapesse...
— Lo fa arrestare — fu l'unico commento del guercio. Poi si misero a letto e non parlarono più.
I due proprietari si odiavano con subdolo rancore.
Tale sentimento era maturato al calore di oscure infamie, e la diversità delle disgrazie che si auguravano la tingeva di colori diversi.
Cosme, il muratore, invocava sulla proprietà di Joaquin una catastrofe improvvisa. Non avrebbe potuto specificare, se glielo avessero chiesto, che tipo di catastrofe augurava al vicino, poiché questa non arrivava, se non in casi eccezionali, alla morte. E questa mancanza di immaginazione lo tormentava con ire fugaci ma laceranti; era infatti sicuro che se i suoi desideri si fossero concretati sarebbe stato felice.
Joaquin, al contrario, aveva oggettivato la sua aspirazione.
Desiderava che il muratore cadesse in rovina.
Si immaginava che il vicino non potesse pagare le cambiali del terreno che, a poca distanza l'uno dall'altro, entrambi avevano comprato a rate, e gli bastava rappresentarsi la rossa bandiera dell'asta che sventolava nel giardino di Cosme per provare un piacere sinistro. Arrotava i denti e l'occhio di vetro rifletteva un luccichio più intenso dell'altro, in agguato, sotto una sottile palpebra sempre corrugata.
Due furono gli episodi che dettero origine a questo odio. Quando Joaquin comprò il terreno, chiese a Cosme un preventivo per la casa che pensava di costruire, e poi, naturalmente, affidò il lavoro a un altro muratore.
Ma quando ebbe bisogno di utilizzate il muro di confine con il vicino, questi, furioso, pretese un prezzo superiore al valore di mercato e Joaquin, digrignando i denti, si rifiutò di pagare. Una mattina in cui il muratore era assente, fece sistemare le travi del tetto rette provvisoriamente da alcuni sostegni; e quando Cosme arrivò, era ormai troppo tardi per fermare il lavoro.
Ma poiché l'importo di quel lavoro era inferiore alla somma necessaria per intentare una causa (cosa che fece inferocire il muratore visto che voleva rovinare Joaquin), la vicenda finì da un giudice conciliatore e per un anno e mezzo Cosme attraversò, tetro e infuriato, sporchi saloni zeppi di poliziotti e zoticoni annoiati. Conobbe tutti gli inganni di quelli che non vogliono pagare e per lunghi mesi cercò con la sua perspicacia complicati sistemi per assassinare il vicino, ma essendo molto sciocco non gli veniva niente in mente, finché, quando ormai disperava della giustizia terrena, riscosse l'indennizzo.
Passò il tempo e quest'odio aumentò, anche se non con la brutale violenza del primo anno, perché, ora che erano in pace, il rancore maturava all'ombra, distillando nell'animo dei proprietari un liquido che gonfiava il midollo filtrando nel loro animo feroci progetti e un certo piacere oscuro e attento: il presentimento che prima o poi l'altro "l'avrebbe pagata".
La prima pugnalata a tradimento partì dal muratore.
Joaquin costruì una stanzetta senza presentare il progetto al Comune e commise il grave errore di non far costruire il vespaio secondo le norme edilizie.
Cosine lo venne a sapere dal manovale di Joaquin chiacchierando con lui alla rivendita di bibite nel negozio d'angolo, e informò di questa gravissima infrazione l'ispettore municipale della zona.
Questi venne e il commesso viaggiatore dovette pagare una forte multa, ma non prima di aver assistito alla distruzione che l'ispettore fece del suo bel parquet per poter comprovare l'infrazione.
Quel giorno una lacrima cadde dal suo occhio di vetro; mentre Eufrasia malediceva, in cucina, il poco carattere di suo marito che non aveva querelato il muratore. Il quale, quella sera, si ficcò nel suo misero letto borbottando dolci parole minacciose.
Sette mesi dopo il muratore comprò un carretto e un cavallo per trasportare i materiali da lavoro, ma per negligenza non costruì la stalla secondo le disposizioni dell'amministrazione comunale. Joaquin, con il pretesto di controllare il suo tetto, salì su quello di Cosme ed esaminò quel riparo provvisorio; poi si fece raccomandare a un ispettore, e un bel giorno il muratore fu sorpreso da una multa, oltre che dall'obbligo di costruire la stalla, che gli costò più del carretto e del cavallo.
Il successo di queste pugnalate lubrificate con il diritto, non faceva appassire quell'odio.
Joaquin non poteva vedere Cosme senza morire dalla rabbia, e la sua volgare figura lo spaventava fino alla repulsione fisica; perché il muratore era piccolo, muscoloso, mezzo gobbo, e sulla sua faccia biliosa non smettevano di sorridere, sfrontati, due piccoli occhi verdi. La sua voce usciva fuori strascicata, e quando Joaquin lo ascoltava rabbrividiva fino a sentirsi male. Nonostante tutto parlavano.
Perché a volte chiacchieravano. Il tema era lo spropositato costo dei mattoni o qualche altra cosa.
Joaquin, che aveva bisogno di mille mattoni per l'inverno successivo, commentava:
— Dicono che aumenteranno a quarantamila.
— A quarantacinque.
— Ma è uno scandalo. Ma ci pensa lei, dieci pesos di aumento ogni mille?
E per quei cinque pesos in più che avrebbe dovuto pagare fra quattro mesi, stava un'ora a protestare con l'altro contro il paese e le sue leggi, sentendosi affratellato dalla comune disgrazia del costo del materiale.
Provavano piacere a essere avari, e contrariamente alla gente di un'altra condizione, invece di nascondere il difetto lo sibivano come una virtù, crogiolandosi nella loro tirchieria.
E Joaquin, che era più sensibile e romantico di Cosme, quando parlava di queste meschinità, si sentiva simile al padrone di un conventillo1 di via Loyola, e allora insisteva sull'argomento con la speranza di diventare, un giorno, un panciuto proprietario che sulla soglia di casa aggiusta il muro con un secchio pieno di pozzolana.
E l'unica cosa che si rimproverava era di non essere tirchio a sufficienza.
Nonostante questa apparente cordialità, quando chiacchierava con il muratore gli sembrava di intravedere nelle sue verdi pupille un'anima immobile, pesante come un orrendo masso di carne cruda, che intorpidiva le sue sensazioni e lo teneva sospeso, in un timido sorriso, allo sgradevole eloquio di Cosme.
E non discuteva con lui, ma, in generale, assentiva a quello che diceva il muratore, mentre tutti i nervi gli si irrigidivano in una contrazione silenziosa che, col passare dei giorni, si traduceva, nei suoi pensieri, in una increspatura rossa, come quella di una pelle cicatrizzata dopo una bruciatura. E i suoi pensieri simili a sanguisughe si muovevano in modo omicida e fangoso.
Il muratore, invece, si vedeva piombare su Joaquin con un pugnale nella mano sinistra. E il posto dove avveniva era il lugubre angolo della sua casa, con i resti di immondizia che giacevano sparsi sui sentiero di terra battuta, sotto il cerchio di luce gialla del lampione a nafta dove Cosme spuntava quando passava il guercio.
Mentre i suoi desideri non si avveravano, quello gli screditava la casa, e quando Joaquin decise di venderla e ricevette la visita di un compratore, Cosme, che aveva ascoltato la conversazione al di là del muretto del cortile, seguì lo sconosciuto e, quando questi si congedò da Joaquin, lo chiamò e lo convinse che la casa era costruita con pessimo materiale; cosa peraltro vera.
Oltretutto quest'odio era curato, concimato, tirato come le corde di un violino, dalle rispettive mogli.
Si auguravano delle sofferenze atroci, anche se non potevano fare a meno di parlarsi con gentilezza, adulandosi per cose insignificanti, rivolgendosi dei sorrisi ipocriti, scambiandosi melliflui "sì, signora" e "no, cara", perché la moglie del commesso viaggiatore che portava il cappello e le calze di seta, era "signora" per l'altra che usciva con un grembiule
e non andava dal parrucchiere. E poiché le proprietà erano divise da una rete metallica, chiacchieravano nell'ora della siesta, dai rispettivi giardini, dove andavano, anche se contro la loro volontà, alla ricerca l'una dell'altra fingendo di dover tagliare le rose mangiate dalle formiche o di voler sapere l'ora. Tali motivi erano più che sufficienti per intavolare conversazioni interminabili, in cui parlavano della vita della carbonaia, della possibilità di avere un tram nella strada vicina o si scambiavano, con una premura commovente, consigli sulle conserve di frutta e sui modi di potare le piante.
In queste conversazioni succedeva esattamente il contrario che in quelle degli uomini; questo perché la moglie di Cosme dava sempre ragione a quella di Joaquin, imitando il modo di parlare della "signora Eufrasia", sorridendo con dei sorrisi che le arricciavano la parte superiore del labbro verso l'occhio sinistro, mentre inclinava la testa sul collo del grembiule, un gesto caratteristico nell'analfabeta, usato con tale frequenza per nascondere la sua ignoranza da trasformarsi in un tic. Tale movimento era infatti un misto di comprensione
e di indulgenza, l'espressione massima cioè dell'intelligenza; una scoperta fatta inconsapevolmente ma che la moglie del muratore utilizzava con successo.
E l'odio che non si potevano gettare in faccia, quel senso di repulsione che le separava, faceva sì che esse si sentissero attratte da queste conversazioni e, senza rendersene conto, mentre le due donne chiacchieravano somigliavano a quelle persone che, temendo il vuoto, si affacciano da alti finestroni.
Ora Joaquin non poteva dormire.
Improvvisamente nella sua coscienza si era inserito qualcosa di scomodo. Era una sensazione strana, come se il tempo si fosse accelerato attraverso i suoi nervi, così che il sangue, spinto dal movimento frenetico dei minuti, circolando più in fretta, rendeva la respirazione ansimante.
La sua vita era improvvisamente cambiata. Ma sua moglie perché non lo aveva guardato prima di andare a letto?
A ripensarci, gli sembrava strano il tono della sua voce, che ora gli appariva alterato dal desiderio che il pensiero espresso sembrasse la conseguenza di un atteggiamento naturale.
E anche se era inquieto, non si muoveva.
Il tempo non passava mai nell'oscurità, ma decentrato da un'attesa ansiosa, sentiva che la metà longitudinale del suo corpo pesava più dell'altra per un improvviso decentramento della coscienza.
E non voleva affacciarsi ai suoi pensieri, perché gli sembrava che se avesse alzato la testa ci avrebbe sbattuto la fronte contro.
Poi, girando gli occhi, vide attraverso l'interstizio delle imposte il cerchio giallo del lampione oscillare tristemente e si accorse che fuori soffiava il vento.
Ma non si muoveva; era così immobile che trasalì quando udì la voce della moglie che gli diceva:
— Perché non dormi, che ti succede?
E a mezzanotte era ancora sveglio.
Nel cubo nero della stanza pesava un tale silenzio che sembrava il sussurro lieve dei fantasmi che si staccavano dalle pareti. C'era qualcosa di orribile in questa situazione.
Aveva l'impressione che sua moglie si fosse sollevata sul cuscino, ma lui non la riconosceva perché del viso gentile del giorno non restava che il profilo ossuto del naso aguzzo e un terribile sguardo acquoso che, penetrando la sua carne, imprimeva nella sua coscienza un imperativo categorico.
Così forte era l'implacabile richiamo, che si rigirò spaventato nel letto, mentre con voce dolce sua moglie gli chiedeva: — Perché non dormi, che ti succede?
Non potevano dormire.
Li torturava lo stesso desiderio opprimente, la stessa idea del disastro che avrebbero potuto provocare al muratore; la figura di Cosme si ergeva davanti ai loro occhi, smisurata nella solitudine della piccola strada, ricurva sul sedile del carretto, con i capelli arruffati sulla fronte, che guardava di sbieco con i suoi piccoli occhi verdognoli il carico rosso della sabbia.
Oppure vedevano un'altra cosa: il brigadiere che arrivava al tramonto a casa di Cosme, batteva le mani, e subito loro, nascosti dietro la finestra che dava sul giardino, ascoltavano:
— Signora... suo marito è in arresto perché è un ladro!...
Un grido lacerante attraversava l'aria e la donna cadeva svenuta sul pavimento del cortile, mentre loro, solleciti, accorrevano chiedendo:
— Che le succede, signora... che le succede?
Ma Joaquin, non potendo più sopportare il suo pensiero, disse a voce alta:
— No, non lo possono condannare per questo.
— Perché?
Lasciò cadere il braccio sul cuscino di sua moglie e disse:
— Gli daranno due anni di carcere... ma con la condizionale... Avrà solo dei grandi grattacapi.
— Capisco.
— Ed è meglio così, perché anche se uno non lo vuole, è sensibile. Il peggio che gli può capitare è che gli vendano all'asta la casa...
— Chi?
— Il proprietario della casa che stava costruendo... per danni e fastidi.
I coniugi si ripresero in silenzio, proiettati nella sinistra prospettiva giudiziaria di un pomeriggio domenicale, con la piccola strada percorsa da onesti proprietari, eccitati da
un'asta ordinata dal giudice. Che occasione per la ferocia del quartiere!
Vedevano la bandiera rossa sventolare sulla canna di bambù, mentre loro, sicuri, protetti nella "casa propria", discutevano con il carbonaio e la fornaia sui vantaggi di essere onesti e su quelle disgrazie che succedono per "sporcarsi per una miseria".
Assaporando le sue frasi, Joaquin aggiunse:
— A nessuno piace pagare... e il padrone della casa sarà contentissimo di far arrestare Cosme e così, con la scusa che lo derubava, di non sborsare i soldi che gli deve...
— Ma per una miseria come questa?...
Joaquín replicò indignato:
— Una miseria? Sei pazza? L'altro giorno hanno arrestato un falegname perché dove lavorava aveva preso qualche asse e una scatola di chiodi. Dove andremmo a finire se ognuno facesse il proprio comodo? No, mia cara, bisogna essere onesti!
— Si, con la fronte alta... Ma, come farai?
— Domani mi informo dov'è la casa in costruzione... l'indirizzo del proprietario.
— Non gli scriverai, spero!
—Si... ma gli mando una lettera anonima scritta a macchina.
— Che faccia farà quell'ipocrita di sua moglie! Pensa che ieri, con la scusa di farmi vedere un figurino, mi dice: "Ah, non lo sa? Quando mio marito avrà finito il lavoro metteremo le persiane a tutte le portefinestre". E tutto questo sai perché? Per farmi crepare di rabbia.
— Che gentaglia!
— E pensare che siamo costretti a frequentarli...
— Lascia stare... domani li aggiustiamo.
Joaquin sbadigliò e, ormai stanco, disse:
— Adesso dormi. A domani, cara.
— Non mi dai un bacio?
— Tieni... e dormi bene.
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nota 1- Case popolari per varie famiglie con il patio in comune
(Racconto tratto dalla raccolta Le belve, Savelli editore, Milano, 1980. Traduzione di Angiolina Zucconi.))
Roberto Arlt nasce a Flores, uno dei numerosi quartieri di Buenos Aires, nell'anno 1900, e muore nel 1942. La sua opera letteraria comprende quattro romanzi: II giocattolo rabbioso (1926), Savelli, 1978, I sette pazzi (1929), Bompiani, 1971, I lanciafiamme (1931), Bompiani, 1974, e EI Amor Brujo (1932); un libro di racconti: EI criador de gorllas (1941); molte opere di teatro e moltissimi articoli pubblicati in Aguafuertes portenas.
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