GLI UOMINI CHE SI VOLTANO


Vasco Pratolini




Ora dovrei parlarti della mia solitudine.
Anche tu conosci questa bestia:
essa inaridisce il cuore sa scavare come una talpa e
come essa ha il pelo morbidissimo impalpabile ed è del suo stesso colore, grigia…”

Scipione


(…) Il paese è il paese di Segantini e, ancora oggi, un luogo di cura. Vi è morto un pittore ben più vicino al mio cuore: Scipione; e la donna di cui dirò, Scipione dové vederla, dalla sua finestra di malato. Dovettero vederla i “suoi uomini che si voltano” e che forse anche per questo hanno quel loro volto terribile, di peccatori e di giustizieri. Il sanatorio dove noi eravamo si trovava a cinquanta metri dal sanatorio in cui morì Scipione. Entrambi gli edifici erano isolati, su un viale fuori il paese e recinti, metà da una cancellata metà da una rete metallica. Tra il viale e l’abitato, la campagna e la strada ferrata: sul dietro, una balza, risalita la quale, un sentiero conduceva in vetta alla montagna, a un antico castello diroccato. Ma Scipione, morendo, non vide il monte; l’ultima immagine ch’egli ebbe della natura furono i campi, i platani del viale,il cielo basso all’orizzonte, grigio sempre, cupo a volte, oltremare e nero; e tangibile, in questa luce, la presenza del lago, il Garda, al di là della campagna e dell’abitato, lontano, dove si perdeva il fischio del treno.

Non avrei ricordato Scipione se non per questa luce, inespressa, eppure così sua, l’inverno successivo la sua morte, e ch’egli non fece in tempo a dipingere; se non per quei suoi “uomini che si voltano” ch’egli teneva nella sua camera di malato e che sempre, da anni ed anni, da che li dovevo a mia volta scoprire, sono legati a quella donna. Guardano me e i miei quattro compagni.

Di costoro due sono ancora vivi, tanto che hanno avuto il tempo, da allora, di combattere delle guerre, e avere una sposa, dei figli, della fortuna anche. È a nome mio e loro che riferisco, a mio nome e a nome di Molfetta e del Perugino. Il Barese e il Fiumano hanno già da allora regolato i conti con Dio, nel quale credevano, confessandosi prima di spirare: forse per loro gli uomini di Scipione hanno girato la faccia.

Avevamo vent’anni, è tutto quello che il Fiumano e il Barese possono aver detto, tutto quello che io posso dire, ma è un alibi?

Vent’anni, quel malanno addosso, chiusi in prigione come ci sentivamo. Lei… Lei era una ragazza che tutti conoscevano. Durante degli anni era bastato il cenno di un uomo, indigeno o ammalato che fosse, perché giacesse con lui tra i ruderi del castello, in riva al Sarca, sotto il cavalcavia.


Le si davano poche lire, o un “regalo” com’ella preferiva: un grappolo d’uva, ricordo, una spugna, un fermaglio per i capelli. Il Barese, una sera che al solito eravamo riusciti a sfuggire alla sorveglianza dell’infermiere e l’avevamo raggiunta a metà del sentiero, portò con sé un mazzo di carte da gioco, vecchie, inservibili.

“Le puoi rivendere” le disse.

“Certo” ella rispose, “è un bel regalo.”

Eravamo poveri – e lei?

Anche nulla, certe sere.

“Che fa?” ella diceva. “Sei contento? Di dove sei? C’è il fiume al tuo paese? C’è la montagna? C’è il lago?”

Noi le rispondevamo: sì, no; non le dicevamo mai il nostro vero nome, allorché ce lo chiedeva; ci giocavamo a carte la precedenza nel godere di lei.

“Tu… Io…Lui… ”

“Molfetta…Il Barese … Il Perugino…”

E mai ci parlava di sé; soltanto quando Molfetta le domandò:

“ Hai un lavoro?” lei rise, disse:

“ Facevo la lavandaia, poi quelle donne non mi hanno più voluto. Nessuno. Nemmeno sul lago. A Riva, a Malcesine, a Torbole lo stesso.”

“ Perché non ti hanno più voluto?”

“Erano gelose” ella disse.

L’infermiere, il barista, (avevamo mezza giornata di libertà una volta la settimana) e il noleggiatore di biciclette, le stesse ragazze che ci ospitavano nelle loro case, ci dicevano:

“ Capitò bambina, tra un vai e vieni di profughi, nel ’15 o ’16, spersa, nessuno la cercò più, e così è campata.”

“Come?”

“Così, con un diavolo in corpo, è il caso di dirlo, fino da bambina.”

Era una creatura dolcissima, un animale docile, frustato, ma non avvilito, non offeso.

“Ti chiami Mario, vedi che mi ricordo? Qual è il colore che più ti piace? A me il giallo:”

E’ una selvaggia. Vedi come vive, e dove vive! E non l’arrestano, non la ricoverano in ospedale.”

A metà monte, con delle frasche e degli sterpi, si era costruita una capanna, lì abitava, ora che tutti, lei passando, alzavano il piede siccome la sapevano infettata del nostro male e, insieme, del male di cui ancora gli uomini, uno dei tanti l’aveva contagiata. Era andata un certo giorno all’ambulatorio, e fu come ne uscisse con la campanella appesa al collo; subito, in paese e di sanatorio in sanatorio, si propalò la voce, lei la confermava:

“Se non hai paura… Così mi hanno detto… No, no, e se è vero?”


Un mattino la vedemmo, al di là del cancello, poggiata di spalle a un platano, che guardava verso le nostre finestre. (Ora anche noi la odiavamo, dopo che avevamo confessato ai medici di averla frequentata, e c’era costato una punizione, un esame del sangue. La odiavamo perché non potevamo più abusare di lei.) Le facemmo capire di venire dalla parte della rete metallica, dove potevamo raggiungerla inosservati, noi cinque al di qua della rete, sul lato del giardino dove c’era il cedro e la vasca.

Ella mai ci guardò in viso, soltanto disse:

“Mi danno la caccia, e ho fame.”

“Aspetta” uno di noi le rispose. Andò e venne con in mano un pezzo di pane della nostra tavola.

C’eravamo disposti in fila, lungo la rete, lei al di là della rete, a testa bassa e una mano nell’altra, all’altezza della vita.

“Ecco” disse quello di noi ch’era tornato col pane, “tieni.”

E la insultò. Le presentò il pane attraverso una maglia della rete. “ C’è anche una mela, ti va?”

“Buona” ella rispose, “è un bel regalo.”

“Peccato però” costui disse. “Peccato che non ci passa attraverso la rete. Prova tu” disse a quello di noi che gli stava accanto, dandogli il pane e la mela.

Il secondo tentò la rete col pane e la mela.

“Davvero è impossibile” esclamò.

Ella era avanzata verso colui che aveva adesso la mela e il pane.

“Ti andrebbe proprio? Egli le chiese. E l’insultò. “Prova tu” disse al quarto.

Ella era avanzata ancora di un passo.

Era un gioco che inventavamo, non premeditato dunque, e che ci trovò tacitamente tutti e cinque d’accordo nel suo cominciamento, nel suo svolgersi, e nella sua conclusione più che mai.

Il quarto di noi recitò la sua parte; ella procedé ancora di un passo, verso l’ultimo che tentò a sua volta di spingere il pane e la mela attraverso la rete, fitta questa da non lasciar passare nemmeno la mela. Ella dové credere che il gioco stava per finire e che l’ultimo di noi le avrebbe gettato e pane e mela al di sopra della rete. Ci sembrò vederla sorridere, divertita di questo gioco, come se non udisse gli insulti che lo accompagnavano ma, al contrario, come se in questo gioco noi intendessimo mascherare la carità di un pezzo di pane e una mela che le facevamo.

“Ti basta un po’ di pane e una mela?” le chiese l’ultimo di noi.

Ella gli rispose:

“E’ moltissimo, grazie. E’ un bel regalo. Buttamelo di sopra la rete:”

“Al di sopra della rete?” costui disse. “Così?” e gettò con forza, ma all’indietro, alle proprie spalle, la mela dapprima, quindi il pane, che ricaddero nella vasca, uno zampillo.

Ora, noi tutti ridevamo, sguaiati, mentre lei, aiutandosi con le mani, risaliva la balza; scomparve là dove cominciava il sentiero, e per sempre, dai nostri occhi e dal paese.

E se chiedevamo di lei:

“Mah!” ci rispondevano. “Avrà messo le tende a Torbole.”

“Forse a Malcesine.”

“A Riva, chissà!”

“Si sarà buttata nel lago, meglio.”

Ecco, gli uomini di Scipione, che la conobbero, si voltano anche per noi, ora lo so. Lo so io e lo sa Molfetta, e lo sa il Perugino. Soltanto per il Fiumano e per il Barese, gli uomini di Scipione hanno girato la faccia (…)



(Brano tratto dal libro Diario Sentimentale di Vasco Pratolini, Mondadori, Milano, 1946.)



Vasco Pratolini (Firenze, 19 ottobre 1913 – Roma, 12 gennaio 1991) ha svolto diversi mestieri, tra cui tipografo, venditore ambulante, barista, ed č stato un autodidatta. Grazie ad Elio Vittorini prende contatti con il mondo letterario e pubblica i suoi primi scritti nel 1937 su Letteratura. Nel 1938 fondņ con Alfonso Gatto la rivista Campo di Marte. Partecipa poi attivamente alla Resistenza. Dopo la guerra lavora come giornalista e collabora alla sceneggiatura di alcuni famosi film: Paisą di Roberto Rossellini, Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, Le quattro giornate di Napoli di Nanni Loy. Tra le opere pił importanti: Cronaca familiare (1947), Cronache di poveri amanti (1947), Metello (1955).


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