TABULA RASA

– Brano tratto dal romanzo Défaut d’origine


Oliver Rohe





Mi ci hanno messo qua, ma io gli aerei li detesto.

Molto meglio viaggiare con il pensiero, è quanto mi ripeto da anni – ne ho fatto addirittura una regola. Mi ci hanno messo qua, e mi ero da poco accomodato su questo sedile che già maledicevo le numerose ore di volo che mi aspettavano. Ma più di tutto mi domandavo perché avessi derogato a questa regola. Roman non era quello che si suol definire un amico intimo, era solo un tipo che frequentavo di tanto in tanto, un tipo del quale, dopo tutto, non sono stato che il confidente occasionale. Mai, dacché ero partito, avevo ricevuto sue notizie. Perché allora questo viaggio. Dieci anni che Roman era come morto. Dieci anni che semplicemente non ce l’avevo più davanti agli occhi. A dire il vero, era da dieci anni che d’altronde mi rifiutavo più generalmente di pensare a chiunque laggiù.

Non volevo più sentir parlare di quella gente, né di quel posto. Mi ero finanche a tal punto negato questo genere di esercizio pericoloso che riuscivo naturalmente a non pensarci più. La nostalgia è prima di tutto una questione di volontà, questo è quanto mi dicevo mentre mi allacciavo la cintura di sicurezza, si vuole o non si vuole ricordare. Ebbene, da parte mia avevo la fermissima volontà di dimenticare tutto completamente, di fare, come si dice, tabula rasa. Soffocare sul nascere tutto ciò che potesse somigliare da vicino o da lontano ad una reviviscenza, accidentale o no, del passato. Una buona volta per tutte. Appena avvertivo affiorare dentro di me un sentimento di nostalgia, appena mi sentivo subdolamente sopraffatto da una qualsiasi malinconia, la soffocavo sul nascere. Sistematicamente e senza stati d’animo. Da quando sono partito ho messo a tacere sistematicamente ogni più piccola manifestazione di ciò che può essere stato, di qualunque natura. Alla fine ero riuscito a mettere in atto questo piano talmente bene, era diventato così naturale per me, che di quel periodo nella mia testa non resta quasi niente. “Può cedermi il suo posto? Mi piacerebbe guardare il paesaggio, è la prima volta che prendo l’aereo”. È molto semplice, nella mia testa è come se tutto ciò non fosse mai accaduto. D’altronde Roman mi diceva sempre, all’epoca in cui ancora lo frequentavo, vale a dire poco più di dieci anni fa, che il passato è un mobile ingombrante: non lo si può spostare (pesa troppo); non si sa assolutamente in che modo sbarazzarsene; non lo si può rifilare ad altri: tanto vale ignorarlo. Adesso che mi ricordavo di questo episodio e, malgrado le raccomandazioni giudiziose di Roman, mi domandavo con crescente insistenza perché avessi deciso di fare questo viaggio – ne avevo fatto una regola. A rigor di logica Roman non doveva nemmeno più essere un ricordo e tutto ciò che Roman abbia potuto rappresentare in passato io me lo sono lasciato alle spalle, riuscendoci completamente. Così come mi sono lasciato alle spalle quella città detestabilissima alla quale lo associavo (e alla quale per sempre lo assocerò, accada quel che accada). Quel luogo, quel simulacro di paese, quella cloaca pestilenziale che consideri il tuo paese d’origine non sarà mai nient’altro che un eterno campo di rovine, ecco il genere di frasi sentenziose che a Roman piaceva pronunciare. Gli abitanti di questa città non si rendono conto che le strade in cui oggi a loro piace tanto pavoneggiarsi allegramente non sono in realtà che un immenso cimitero ancora fumante. Gli abitanti di questa città girano in macchina, vanno avanti e indietro, curiosano, vanno a spasso e saltellano, ma mai s’immaginano che proprio sotto i loro piedi, disseminati un po’ dovunque, ci sono ancora corpi in putrefazione, corpi che non hanno ancora del tutto smesso di gesticolare. Bisogna scavare un po’ in superficie diceva Roman, bisogna scavare per accorgersi subito di quello che vi si nasconde a malapena: chilometri di fosse comuni, chilometri e chilometri di corpi ammucchiati come immondizia, corpi amputati e scheletrici, corpi dilaniati, letteralmente irriconoscibili e avvolti alla bell’e meglio in lenzuola sudice. Forse uno dei loro parenti si decompone proprio in questo esatto momento, sotto i loro piedi, senza che essi si facciano quantomeno sfiorare dal sospetto che ciò possa accadere. Sono quasi certo che i padroni dei cani (che però sono molto poco numerosi, non ci si fida affatto dei cani laggiù, si preferisce abbatterli con il fucile a pompa: la rabbia non la si guarisce, la si previene) non immaginano nemmeno l’origine degli ossi che regalano alle loro bestie. Per anni gli abitanti di questa città si sono assassinati a vicenda senza veramente sapere perché (veramente nessuno lo sa), e adesso si gettano l’uno nelle braccia dell’altro, come se niente fosse. “Desidera bere qualcosa, le andrebbe un club soda?”. Per più di un decennio e mezzo, tutti quegli imbecilli che oggi ti ritrovi attorno dovunque, tutti quei parvenu immondi che ridono di te, tutta quella feccia trasudante sufficienza che ti assedia, si sono un giorno, ieri per la precisione, combattuti a morte. Fratelli di sangue, vicini di pianerottolo o amici di lunga data, come dir si voglia, si sono mobilitati ognuno a suo modo, poi si sono armati in modo mostruoso e quindi si sono uccisi l’un l’altro alla cieca, senza mai chiedersi a che scopo. Un giorno si mandavano proposte di tregua, all’indomani si mandavano granate di parecchie tonnellate sulla testa; un giorno firmavano la pace dei prodi in grandi hotel di Ginevra, all’indomani ordivano barbari intrighi e avanti così, fino alla morte. Nessuno dei protagonisti di quel sontuoso massacro (tutto il mondo adesso che ci penso) si era interrogato sulle ragioni dello stesso, diceva Roman, si andava incontro alla morte con leggerezza, talora per paura di farsi uccidere, spesso solo per amore del sangue. “Posso prendere la sua confezione di arachidi?” Contrariamente a tutte le guerre precedenti della storia, quella non aveva alcuna parvenza di ideologia né di retorica fumosa, diceva Roman, quella guerra ha, per così dire, solo fatto assai debolmente appello al nostro ipotetico istinto patriottico e comunitario, o alla nostra meno ipotetica predisposizione alla demagogia. È inutile far ricorso a tutti questi concetti, tutti questi sistemi, tutti questi riferimenti, a tutti i miti manifestamente superflui di quella guerra. “Che gentile che è, grazie”. Era soltanto un macello a ingresso libero, un gran casino, per l’esattezza mortale, in cui ci si recava con regolarità, si potrebbe dire con parole semplici, usando un’espressione familiare, per sgranchirsi i muscoli. Dopo tutto, io penso pure che si entrasse in guerra soltanto per non annoiarsi, si entrava in guerra tanto per divertirsi un po’, per vedere cosa sarebbe successo – tanto per rompere la famosa monotonia del quotidiano. Se rifletti bene su quello che realmente è accaduto, con il distacco necessario voglio dire, vedrai che di tutto ciò non se ne capiva il senso stretto, né d’altronde vi era la benché minima parvenza di senso. (…)




(Brano tratto dal romanzo Défaut d’origine, Éditions Allia, Paris, 2003, traduzione dal francese di Gabriella Concetta Basile)



Oliver Rohe
nato in Libano nel 1972, vive a Parigi dal 1990. Ex-giornalista responsabile della pagina letteraria per la rivista Chronic'Art. Autore della prefazione all'opera collettiva Le cadavre bouge encore (Léo Scheer et Chronic'Art, 2002). Ha scritto per L'imbécile de Paris. Con Allia ha pubblicato due romanzi: Défaut d'origine (2003) e Terrain Vague (2005). Per Naïve, nel 2005 ha pubblicato il romanzo musicale Nous autres, David Bowie. Per Gallimard ha pubblicato Une année en France, Référendum, banlieue, CPE (2007), in collaborazione con François Bégaudeau e Arno Bertina. È cofondatore della rivista letteraria e filosofica Inculte. 


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