IL GIORNALISTA
– Brano tratto dal romanzo L’ora del ritorno –
Stefano Tassinari
(…) E i fossi abbiamo continuati a saltarli, pensa Eugenio, anche in tempi meno difficili, quando non era più questione di vita odi morte, ma casomai di quieto vivere. Come il marito di Carla, con le sue ambizioni di carriera nel mondo cooperativo, o come quel "vecchio ragazzo" che sta entrando nella libreria di fronte a casa sua, l'unica rimasta in tutto il quartiere. Per forza di cose non può avere meno di quarantacinque anni, ma se li porta bene, con quei capelli chiari appena un po' lunghi - un ultimo barlume di bohème, ma senza esagerare - la giacca larga a sufficienza perché nessuno lo possa scambiare per un venditore di automobili, gli occhiali da sole tirati sulla fronte e un fascio di quotidiani piegati sotto il braccio. Le vetrine sono molto alte e perfettamente pulite, il che consente a Eugenio di seguire i suoi movimenti tra gli scaffali, osservandone l'espressione mentre parla con la giovane commessa, alla quale rivolge sorrisi un
po' eccessivi. A giudicare dagli atteggiamenti potrebbe essere un giornalista, anzi – decide Eugenio – lo è sicuramente. A vent'anni lavorava quasi gratis in una radio libera, curando programmi di controinforrnazione - altra parola magica scomparsa dai vocabolari, riflette tra sé Eugenio - e raccontando in diretta telefonica i cortei, chiuso dentro una cabina della Sip, un attimo prima che qualcuno la prendesse a sassate per protestare contro i costi, sempre più elevati, delle bollette. Di quelle storie ora non parla quasi mai, se non quando invita a cena le collaboratrici più carine del giornale, e lì allora si scatena a descrivere i particolari... che roba quella sera, noi asserragliati dentro la facoltà, al decimo giorno di occupazione, e la polizia fuori a cercare di sfondare il portone, e noi a lanciare di tutto dalle finestre, i banchi, le cattedre e persino le lavagne, e loro a rispondere con i lacrimogeni, che poi li prendevamo in mano con i guanti all'amianto per ributtarli giù, e ancora loro a circondarci con i blindati, quelli spediti da Kossiga con la K, con la K?, sì, certo, con la K, è una vecchia storia che risale agli anni Venti, quando Trotskij cominciò ad usare la K in modo dispregiativo pensando a Kornilov e Kerenskij, Kornilov e Kerenskij?, ma sì, Kornilov, il generale delle Guardie Bianche, quelle fedeli allo zar, e Kerenskij, il primo ministro borghese del febbraio 1917, con le colleghe poverette a sentirsi ancora più ignoranti, e bloccate dalla paura di sfigurare davanti a lui, che in fondo è un
caporedattore con in mano le chiavi della loro assunzione, senza capire che della loro testa a lui non gliene importa niente, casomai delle loro gambe messe in bella vista, perché forse fa un po' schifo ma conviene farlo, perché del resto lo fanno anche le altre, dato che adesso il femminismo è una roba paleolitica, e poi loro che ne sanno di quelle ragazze che andavano in giro gridando «non più madri, mogli e figlie, distruggiamo le famiglie», loro adesso puntano al sodo, mica ai valori e al rispetto delle persone, no, e poi che palle con questa storia dei valori, e allora tanto vale ascoltare con ammirazione le sue memorie da antieroe, e annuire spalancando gli occhi, dicendo «oh!», oppure «però, che tempi devono essere stati quelli!», e così via per tutta la sera, fino a quando la cena finisce e viene il momento di decidere se, come, quando, o di dire «sono stata molto bene con te, solo che è già tardi e se non ti dispiace preferirei tornare a casa, tanto non mancheranno altre occasioni, anzi, potremmo uscire ancora la prossima settimana e...». E avanti un'altra, penserà ogni volta il vecchio ragazzo, perché il tempo passa e questa è l'unica notizia che non si può manipolare, e allora è meglio fregarsene di tutto, dei sentimenti altrui e della propria correttezza, della fame nel mondo – che non se ne può più – e delle lotte di liberazione, con tutto quel corollario di termini desueti come "popolo", "deboli", "torture", "dittatura" e "repressione", cianfrusaglia linguistica che ormai si legge soltanto sui volantini dei centri sociali o giù di lì. Lui, d'altronde, le parole le usa solo in funzione del pubblico del proprio giornale, perché è così che si fa se si vuoi vendere di più, e quando si cambia giornale – e succede spesso, dato che il mondo dell'informazione è come quello del calcio: non ci sono più bandiere – si cambiano anche le parole, la più bella delle quali, per lui, è "riconversione", con quel prefisso al posto giusto, a rendere più dignitosa la sostanza di una conversione senza fine. Per vincere bisogna sapersi adattare, si era sentito dire per anni dal suo primo direttore, e anche se l'altro, di norma, si riferiva agli schemi di gioco della Lazio, lui l'aveva preso alla lettera e nel farlo si era trovato benissimo.
Agli inizi della carriera, per esempio, era andato a lavorare in un quotidiano di destra, grazie all'intervento di un suo compagno di scuola, altro saltatore di fossi, a cui aveva chiesto un favore sapendo di doverglielo poi restituire. Un paio d'anni dopo l'assunzione era stato spedito nell'America Centrale a farsi le ossa, con il compito scoperto di cercare i fuoriusciti politici italiani rifugiatisi da quelle parti.
Accettò di buon grado l'incarico («Mando te perché hai frequentato quell'ambiente» gli aveva detto il capo della redazione Esteri - «e dunque è più facile che tu ne riconosca qualcuno senza insospettirli»), lasciando a casa anche il più piccolo dei sensi di colpa. A Managua si spacciò per un free-lance filosandinista, setacciando i localini intellettuali come la Hjerba Buena, o le pasticcerie e gli hostales della zona di Plaza de Espana; poi si spostò nel nord, tra Matagalpa ed Estelí, passando al vaglio della memoria visiva i tanti volontari stranieri impegnati nella raccolta del caffè. Alla fine scovò un paio di brigatisti di un certo peso, qualche latitante di gruppi minori sconosciuto ai più, e un po' di gente del movimento priva di pendenze giudiziarie che, per scelta politica e di vita, aveva deciso di proseguire il proprio impegno militante nel Nicaragua libero. In Italia si guadagnò una promozione facendo uscire un'inchiesta a puntate dedicata a presunti campi d'addestramento militare per terroristi internazionali e ad altrettanto presunti traffici di armi e droga, messi in piedi per finanziare l'eversione in Italia con la complicità, ovviamente, dei servizi segreti sovietici e cubani. Nei pezzi fece anche i nomi e cognomi dei ricercati che aveva incontrato, dando il via a enormi polemiche e alla solita caccia alle streghe. Per ragioni di sicurezza, un paio di giorni prima della pubblicazione di quegli articoli abbandonò il Nicaragua attraversando la frontiera con il Salvador, Paese dal quale inviò un'altra serie di corrispondenze mirate, inventando letteralmente la storia di una strage di contadini compiuta dai combattenti del Fronte Farabundo Martí, informazione avuta prima da un taxista e poi confermata, si fa per dire, da alcuni uomini legati al maggiore D'Aubuisson, mandante dell'assassinio di monsignor Oscar Romero. Il fatto è che non tentò nemmeno di verificarla, forse per il timore di dover rinunciare a un altro attimo di gloria, poi puntualmente vissuto. Senza dubbio le ossa se le era fatte, e da quel momento in poi abolì la parola scrupolo dal proprio lessico.
Rientrato in Italia passò un mese a godersi il successo ottenuto e l'invidia dei colleghi, subendo soltanto qualche insulto da parte di alcuni vecchi amici che gli tolsero il saluto. Giudicò quelle rotture non solo ininfluenti sul piano emotivo, ma addirittura salutari per la propria carriera, dato che adesso, anche in virtù della chiusura di quei rapporti, poteva considerarsi definitivamente ripulito dalle scorie del passato. Nominato vice-caporedattore delle pagine internazionali – il tutto saltando tre gradini alla volta – si calò subito nel nuovo ruolo, imparando in pochi giorni a comportarsi in modo arrogante con quelli che, fino a un mese prima, erano stati suoi pari grado. Cominciò a rispondere al telefono con l'aria scocciata di chi non può essere distolto dal proprio compito eccezionale, poi a trattare in modo offensivo le segretarie e, infine, a formare palle di carta con gli articoli dei collaboratori, divertendosi a lanciarle nel cestino con il gesto plastico di un giocatore di basket, non senza accompagnare il movimento con un sorriso sprezzante e la frase: «Il tuo pezzo fa veramente schifo!».
Forse è anche questo che s'intende quando si parla di fascismo culturale, pensa per un istante Eugenio, sempre più infastidito da una vicenda umana che gli sembra sconcertante, se non altro fino al momento in cui non s'accorge della perfetta identità tra certi comportamenti e quelli di tanti esponenti della sinistra di oggi. È mai possibile, si chiede, che quell'antichissima storia del fascino irresistibile esercitato da denaro e potere - una storia fin troppo banale, usata come luogo comune preferito per giustificare qualsiasi nefandezza - si riveli sempre così vera, persino per gente abituata, e spesso votata a misurare in metri di rigore morale la distanza tra sé e il resto dell'umanità? È difficile darsi una risposta, o forse è solo imbarazzante, perché a Eugenio di casi anche eclatanti ne vengono in mente molti. Come quello di un famoso leader dei montoneros argentini, uno che aveva visto massacrare dai militari le persone più care, e che poi, una volta caduto il regime, in cambio della propria libertà accettò una sorta di "pari e patta" tra vittime e carnefici, e quindi l'amnistia per tutti, generali assassini e militanti della resistenza, come se gettare in mare dagli aerei migliaia di giovani, per giunta ancora vivi, fosse da considerare un atto di violenza identico a quello compiuto da chi, armi in pugno, cercò di fermare quel genocidio. Il soggetto in questione, poi, sposò anche ideologicamente le posizioni di chi aveva invocato e finanziato il colpo di stato del '76, ma a Eugenio quest'ultimo aspetto sembra quasi irrisorio. A uno con la sua storia, casomai, dà più fastidio ricordare di quando il grande capo guerrigliero, comodamente seduto nel proprio ufficio da esule a Città del Messico, ordinava processi interni contro militanti sospettati di aver parlato dopo aver subito torture devastanti, o anche soltanto per il fatto di essere usciti vivi da un campo di concentramento, senza nemmeno farsi sfiorare dall'idea che tutto questo potesse rientrare in una strategia orribile, realmente pianificata dai militari argentini.
Un caso penoso, pensa Eugenio, come quello di un altro uomo forte della sinistra latino-americana, un personaggio a cui, data la lunga e pericolosa dedizione alla causa, in troppi perdonavano i modi animaleschi con cui trattava le donne, ma al quale è davvero difficile perdonare di aver accumulato migliaia di dollari su un conto corrente svizzero mentre la popolazione del suo Paese, stremata dall'embargo e da una guerra d'aggressione, cercava di tenere duro vedendo anche in lui un esempio di onestà e disponibilità al sacrificio.
Tradimento, cultura del sospetto, opportunismo... giriamo sempre intorno agli stessi punti, riflette Eugenio, solo che adesso si fa ancora più fatica a denunciare certi mali, perché per molti non lo sono affatto, e per tanti altri si tratta di problemi marginali, e comunque dei problemi, piccoli o grandi che siano, è sempre meglio non parlare, anche per non morire di noia. E poi siamo nell'epoca in cui tutto può essere mimetizzato attraverso il linguaggio, con il risultato che se «un massacro di civili inermi» – come si sarebbe detto un tempo – si trasforma in «un atto di ingerenza umanitaria», quasi nessuno s'indigna, dato che a nessuno viene chiesto di farlo. Allo stesso modo, se Fidel Castro indice elezioni in cui si può votare per un'unica forza politica, viene definito, e non senza qualche ragione, un "dittatore", mentre quando Franjo Tudjman, il "padre della Patria croata", annullò quelle perse dal suo partito si parlò di lui come di un "sincero democratico con qualche tendenza autoritaria". Ancora una volta è un luogo comune, quello dei due pesi e delle due misure, a fotografare al meglio la realtà, e ciò non fa altro che rafforzare, nella mente di Eugenio, la convinzione di vivere in un contesto di mediocrità, dal quale non può emergere alcun pensiero alto, perché è la sola idea di pensiero, senza aggettivi capaci di qualificarla, a far paura ai più, e allora anche gli slanci dei singoli, per quanto generosi, conoscono in partenza il proprio destino di perdenti.
Per un istante, mentre guarda questo vuoto dall'interno, Eugenio si consola rinfrescandosi la teoria dei movimenti, con gli occhi fissi su un'immagine del mare, con l'alternanza naturale tra grandi onde e lunghe risacche, e queste ultime a trascinare via tutto ciò che le onde hanno prodotto, fino al giorno in cui l'acqua riesce a invadere le spiagge e ad allagare le città, perché poi nulla possa tornare come prima. E solo un attimo di cortesia verso se stesso, o forse di pura nostalgia, prima che lo sguardo torni a infilarsi tra gli scaffali della libreria, in cerca di conferme al sentimento del proprio distacco. Laggiù, nel contrasto visivo tra l'apparenza e la sostanza, il giornalista è intento a comprare i libri di altri giornalisti più famosi di lui, sperando di rubare loro il segreto di tanto successo e di entrare, un domani, nel circolo vizioso dell'autocelebrarsi. Gli obiettivi sono sempre più ridotti e le ambizioni sempre meno accattivanti, pensa Eugenio, mentre lo segue nell'atto di avvicinarsi alla cassa, consegnare i volumi all'impiegata, estrarre dalla tasca della giacca una fisarmonica in pelle piena di carte di credito e domandarle, infine, con quale di quelle tesserine colorate preferisca essere pagata. Poi lo accompagna all'uscita, captando il suono di un «Grazie» seguito, dopo un paio di secondi e un altro sorriso ammiccante, da un «Lei è molto carina; credo che tornerò spesso in questa libreria». Prevedibile, commenta Eugenio, come il fuoristrada a bordo del quale l'uomo svanisce nel desiderio inconscio di fare colpo anche su se stesso. (…)
(Brano tratto dal romanzo L’ora del ritorno, Marco Tropea editore, Milano, 2001.)
Stefano Tassinari, nato a Ferrara nel 1955, vive a Bologna. Collaboratore dei programmi culturali di RadioRai Tre, è autori di testi teatrali e direttore artistico di varie rassegne letterarie. Ha pubblicato, tra gli altri, i romanzi All’idea che sopraggiunge (1987), Assalti al cielo (1999) e L’amore degli insorti (2005), oltre alla raccolta di racconti Ai soli distanti (1994).
.
Precedente Successivo
Copertina
|