LA MISSIONE DELLO SCRITTORE

Elias Canetti



Tra le parole che per un certo periodo hanno lan­guito in uno stato di inerme estenuazione, parole da tutti evitate e occultate giacché chi le usava si espo­neva all'altrui dileggio, e a tal punto svuotate di senso che ciascuno si teneva per detto che erano diventate parole orribili e come rinsecchite, tra queste c'è anche la parola "scrittore"*, Chi malgrado tutto ha segui­tato a dedicarsi all'attività letteraria, che in effetti non ha mai cessato di esistere, si è autodefinito "uno che scrive".

Si sarebbe potuto pensare che ciò avvenisse per lasciar cadere una falsa pretesa, per trovare criteri nuovi, per diventare più severi con se stessi e, soprattutto, per evitare tutto ciò che può condurre a successi immerita­ti. In verità è accaduto il contrario: proprio quelli che si sono scagliati senza pietà sulla parola "scrittore" sono gli stessi che hanno consapevolmente sviluppato e affinato i metodi per fare scalpore. La meschina opi­nione che ogni letteratura sia morta è stata proclamata da qualcuno con parole patetiche, stampata su carta costosa, e discussa con una tale solennità e serietà da farla apparire una difficile e concettosa costruzione intellettuale. È chiaro che chi ha fatto così è annegato ben presto nel suo stesso ridicolo, ma anche altri auto­ri, che non erano sterili al punto da esaurirsi in un solenne proclama e dunque hanno scritto dei libri, li­bri amari e pieni di talento, anche costoro, che pure continuavano a dire di se stessi: sono "uno che scrive", si sono conquistati ben presto una grande noto­rietà, e hanno fatto poi ciò che gli scrittori hanno sem­pre fatto: anziché tacere, hanno seguitato a scrivere sempre lo stesso libro. E l'umanità, per quanto incor­reggibile e meritevole di morte potesse loro apparire, una funzione ce l'aveva ancora: quella di applaudirli. Chi non aveva voglia di farlo, chi era ormai sazio di quei monotoni profluvi di parole, veniva colpito da una doppia condanna: come uomo con il quale co­munque non si aveva niente da spartire, e come uno che si rifiutava di riconoscere nell'eterna brama di morte di colui che scriveva l'unico valore ancora esi­stente.

Capirete dunque che nei confronti delle opere sen­sazionali di "quelli che scrivono" io nutra una diffi­denza non minore di quella che ho verso le opere di coloro che continuano con imperterrito compiacimen­to a chiamarsi "scrittori". Non vedo tra loro la minima differenza, si assomigliano come due gocce d'acqua, e una volta acquisito un certo pubblico riconoscimen­to, lo ritengono un loro inalienabile diritto.

Perché oggi in realtà la situazione è tale che non esiste scrittore il quale non dubiti seriamente del pro­prio diritto di esserlo. Chi non vede lo stato del mon­do nel quale viviamo, difficilmente potrà dire qualche cosa al riguardo. I suoi pericoli e le sue insidie, che in passato rappresentavano uno dei principali puntidi forza delle religioni, si sono ora spostati sulla terra. La fine del mondo, di cui più volte si è già avuto un saggio, viene presa in considerazione dai non scrittori con assoluta freddezza, c'è perfino qualcuno che del calcolo delle probabilità che il mondo finisca ha fatto un redditizio mestiere che lo ingrassa sempre più. Da quando abbiamo affidato alle macchine il compito di predire il nostro futuro, le profezie hanno perso ogni valore. Quanto più ci separiamo da noi stessi, quanto più ci consegnamo a istanze senza vita, tanto meno riusciamo a padroneggiare quello che accade. Il nostro crescente potere su tutto, su ciò che è vivente e su ciò che non lo è, e in special modo sui nostri simili, si è trasformato in un contropotere che solo in apparenza riusciamo a controllare. Su questo argomento ci sareb­bero da dire centinaia e migliaia di cose, ma, questo è proprio stranissimo, son tutte cose risapute, le trovia­mo atrocemente banalizzate sui giornali quotidiani, dove vengono divulgate fin nei minimi dettagli. Non aspettatevi da me che io ripeta tutto questo: oggi mi sono proposto un tema diverso e un poco più modesto.

Forse val la pena di riflettere se esista qualcosa che gli scrittori, o quelli che finora abbiamo considerato tali, possano fare per rendersi utili nell'attuale situa­zione del mondo in cui viviamo. Nonostante sia caduta così in disgrazia la parola che li indica, è rimasto an­cora qualcosa di ciò che essa evoca e pretende. La let­teratura può esser quel che vuole, ma una cosa non è, non è morta, come del resto non è morta l'umanità che ancora le si aggrappa. Come ha da essere la vita di colui che oggi rappresenta la letteratura, che cosa do­vrebbe sapere offrire?

Recentemente mi sono imbattuto per caso nella se­guente annotazione di un autore anonimo, di cui non faccio il nome appunto per il buon motivo che nes­suno lo conosce. Reca la data del 23 agosto 1939 – una settimana prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale – e suona così:

"Comunque è finita. Se io fossi davvero uno scrit­tore, dovrei essere capace di impedire la guerra".

Quale assurdità e quale arroganza, ci diciamo oggi, dal momento che sappiamo cos'è successo da allora! Che cosa avrebbe mai potuto fare un singolo indivi­duo per impedire la guerra, e in particolare uno scrit­tore? Chi potrebbe mai immaginare una pretesa che fosse più lontana dalla realtà? E che differenza c'è tra questa proposizione e le frasi declamatorie di cui si sono consapevolmente serviti quelli che la guerra l'hanno voluta?

Lessi questa frase con fastidio, e mentre la trascri­vevo la mia irritazione aumentò ancora di più. Ecco, pensavo, qui ho trovato ciò che più mi disgusta nella parola "scrittore", una pretesa che si pone in striden­te contrasto con ciò che gli scrittori sono in grado di fare nella migliore delle ipotesi, un esempio lampante della boria che ha gettato il discredito su questa parola e ha fatto sì che la gente sia diventata sospettosissima nei confronti di ogni membro della nostra corporazio­ne che battendosi il petto se ne venga fuori con uno dei suoi propositi colossali.

Ma poi, nel corso delle giornate successive, mi accor­si con stupore che quella frase non riuscivo a scordarmela, che mi tornava in mente di continuo, e così la esaminavo, la scomponevo, la respingevo per ripren­derla di nuovo in esame, come se a me soltanto fosse dato di scovarne il riposto significato. Già l'inizio era strano: "Comunque è finita" è un'espressione di totale e irrimediabile sconfitta in un'epoca di vittorie imminenti. Siccome l'accento è stato posto sulla scon­fitta, si esprime già qui la desolazione della fine della guerra, tra l'altro in un tono di assoluta ineluttabilità. Ma la frase vera e propria: "Se io fossi davvero uno scrittore, dovrei essere capace di impedire la guerra" esprime, se la si osserva più da vicino, esattamente il contrario di un senso di boria: essa contiene infatti l'ammissione di uno scacco totale. Ma più ancora essa esprime l'ammissione di una responsabilità, e pro­prio in un campo – questo è ciò che sbalordisce – dove meno che mai si può parlare di responsabilità secondo l'uso corrente di questa parola. Questo indi­viduo, che chiaramente pensa quello che dice, poiché lo dice senza svelarsi, si sta volgendo contro se stesso. Non accampa pretese, anzi vi rinuncia. Nella sua di­sperazione per ciò che dovrà accadere, accusa se stesso e non i veri colpevoli, che certo conosce molto bene, perché altrimenti la penserebbe in maniera diversa su ciò che accadrà. Così, quale fonte dell'irritazione che inizialmente abbiamo provato non rimane che questo: l'immagine che aveva quest'uomo di ciò che dovrebbe essere uno scrittore, e il fatto che egli si è ritenuto tale fino al momento in cui è scoppiata la guerra e tutto gli è crollato addosso.

Ciò che qui mi affascina e mi rende pensieroso è la pretesa irrazionale di avere una responsabilità. Una cosa tra l'altro bisognerebbe aggiungere: alla situazio­ne che ha poi reso la guerra davvero inevitabile si è arrivati per mezzo di parole, parole su parole usate a sproposito. Se così grande è il potere delle parole, perché esse non dovrebbero anche essere in grado di im­pedire la guerra? Non c'è affatto da meravigliarsi che uno che ha a che fare con le parole più degli altri, abbia anche, rispetto a costoro, maggiori aspettative sulla loro efficacia.

Lo scrittore sarebbe dunque uno, ma forse è una scoperta a cui siamo giunti un po' troppo frettolosamente, che alle parole tiene moltissimo, tra di esse si aggira con lo stesso piacere, e forse anzi più volentieri, che tra gli uomini, e, abbandonandosi totalmente sia agli uni che alle altre, ma alle parole con maggiore fiducia, è capace, queste, di tirarle via dalle loro sedi per poi reinsediarvele in maniera da farle cadere pro­prio a pennello, e le interroga, le saggia, le vezzeggia, le lacera, le pialla, le imbelletta, ma è anche in grado, dopo averle arrogantemente strapazzate, di accucciarsi nuovamente di fronte a loro con rispetto e devozione. Anche quando, come accade sovente, si comporta con le parole da vero malfattore, le sue son malefatte com­piute per amore.

Dietro questo enorme lavorio si nasconde qualcosa di cui egli non sempre è consapevole, perlopiù è una lieve sensazione, solo talvolta una volontà selvaggia e trascinante, la volontà dello scrittore di farsi garante per tutto ciò che si può esprimere con le parole e di scontare personalmente la pena di ogni loro sconfitta.

Che valore può avere per gli altri questa assunzione di una responsabilità fittizia? Non le viene tolta qual­siasi efficacia a causa del suo carattere irreale? Io sono convinto che ciò che l'uomo si impone da sé viene preso da tutti, anche da persone estremamente limitate, più sul serio di ciò che egli fa perché qualcuno lo ob­bliga. E in effetti non c'è rapporto più stretto, né rela­zione più profondamente coinvolgente con un evento di quello che stabiliamo quando per quell'evento ci sentiamo colpevoli.

Se la parola "scrittore" si era come slabbrata per molte persone, ciò fu dovuto al fatto che queste la collegavano a una immagine di finzione e di scarsa serietà, a una sorta di scappatoia di chi non vuole ren­dersela vita troppo difficile. Non era certo molto adat­to a ispirate rispetto l'atteggiamento di quegli scrittori che continuarono a coltivare le più squisite e variegate stravaganze estetiche proprio alla vigilia di uno dei periodi più cupi della storia umana, periodo del quale essi non seppero riconoscere la natura neanche nel momento in cui ne furono travolti; la loro falsa fiducia, il loro disconoscimento della realtà, alla quale cercavano di accostarsi solo con sprezzante noncuran­za, il loro rifiuto di stabilire con essa qualsiasi collegamento, la loro profonda estraneità rispetto a tutto ciò che avveniva nei fatti – poiché certo non erano cose che potevano trasparire nella lingua da essi adope­rata: in effetti si può ben comprendere che chiunque fosse avvezzo a guardare le cose con più durezza e pre­cisione si sentisse respinto e disgustato di fronte a tan­ta cecità.

A costui si potrebbe obiettare che esistono frasi come quella da cui sono partito nello svolgere le mie considerazioni. Fino a quando esistono autori, e naturalmente ce n'è più di uno, che si assumono la respon­sabilità delle parole che dicono, nel senso che soffrono profondamente quando si rendono conto del totale fallimento di queste parole, fino a quel momento con-serviamo il diritto di aggrapparci al termine che è sempre stato usato per gli autori delle opere fondamentali dell'umanità, opere senza le quali non avrem­mo neppure consapevolezza di che cosa questa umanità sia fatta. In rapporto a tali opere, delle quali sia pure in maniera diversa ma non meno pressante ab­biamo bisogno come del pane quotidiano poiché da esse veniamo alimentati e sostenuti, anche se non ci fosse rimasto nient'altro, e anche se, non sapendo fino a che punto esse in effetti ci sostengono, ci dedicassimo intanto alla vana ricerca di qualche altra cosa che nella nostra epoca potesse uguagliarle, in rapporto a queste opere non possiamo pensare altro che questo: è vero che quando siamo molto severi con il nostro tempo e, soprattutto, con noi stessi, possiamo giungere alla con­clusione che oggi di veri scrittori non ce ne sono, ep­pure dovremmo augurarci appassionatamente che ce ne fossero.

Tutto ciò suona certo assai sommario e non ha un gran valore se non proviamo a chiarire ciò che uno scrittore di oggi dovrebbe avere in sé per soddisfare questa pretesa.

Il primo e più importante requisito direi che sia questo: lo scrittore è il custode delle metamorfosi, e lo è in due sensi. Innanzitutto egli farà propria l'ere­dità letteraria dell'umanità, nella quale le metamor­fosi abbondano. Solo oggi ci rendiamo conto di questa ricchezza, dal momento che sono state decifrate le scritture di quasi tutte le antiche civiltà. Ancora fino al secolo scorso, chiunque avesse voluto occuparsi di questo aspetto altamente peculiare ed enigmatico dell'umanità, e cioè della sua capacità di metamorfosi, si sarebbe attenuto a due libri fondamentali: uno più tardo, le Metamorfosi di Ovidio, che si presenta come una raccolta pressoché sistematica di tutte le "più ele­vate" metamorfosi fino allora conosciute nella mito­logia, e uno più antico, l'Odissea, dove si narrano es­senzialmente le avventurose metamorfosi di un uomo chiamato appunto Odisseo. Esse raggiungono il loro apice quando egli torna a casa nelle vesti di un mendi­cante, l'uomo più misero che si possa immaginare, e qui la simulazione è talmente perfetta che mai scrit­tore posteriore l'ha eguagliata e men che meno supe­rata. Sarebbe ridicolo soffermarsi sull'influsso che que­sti due libri hanno avuto già prima del Rinascimento, ma soprattutto poi, sulle vicende culturali dei paesi europei più recenti. In Ariosto come in Shakespeare, nonché in moltissimi altri autori, compaiono le Metamorfosi di Ovidio, e sarebbe un grave errore pensare che il loro influsso sui moderni si sia esaurito. Quan­to a Odisseo, o Ulisse, lo si incontra sempre, fino ai nostri giorni: è la prima figura entrata a far parte del patrimonio più profondo della letteratura universale, sarebbe difficilissimo trovare più di cinque o sei figure che abbiano una simile forza irradiante.

Ulisse è certo la prima figura, quella che per noi è sempre esistita, ma non è la più antica, infatti ne è stata trovata una più antica. Non sono passati ancora cent'anni da quando fu scoperta l'epopea mesopotami­ca di Gilgamesh e ne fu riconosciuto il grande valore. Essa comincia con la metamorfosi di Enkidu, uomo selvaggio e primitivo che vive tra gli animali della fo­resta, in un uomo civilizzato di una grande città; e questo è un tema che ci tocca solo oggi assai da vicino, poiché di recente abbiamo appreso alcune cose concrete e molto precise sui bambini vissuti in mezzo ai lupi. E quando Enkidu muore lasciando solo l'amico Gilgamesh, l'epopea sfocia in un confronto straordi­nario con la morte, l'unico da cui l'uomo moderno possa congedarsi senza che gli resti in bocca il sapore amaro dell'autoinganno. E qui desidero offrirmi come

testimone di un fatto che ha dell'incredibile: non c'è nessun'opera letteraria, ma proprio nessuna, che abbia esercitato sulla mia vita un influsso così determinante come questa epopea che risale a quattromila anni fa e che, fino al secolo scorso, nessuno conosceva. In essa mi sono imbattuto all'età di diciassette anni e da al­lora non mi ha più abbandonato, come a una Bibbia sono tornato di continuo a quest'opera, che a prescin­dere dal suo effetto specifico mi ha riempito di attesa per tutto ciò che ancora ci è ignoto. Mi è impossibile considerare le opere che ci sono state tramandate e che seguitano ad alimentarci come un corpus in sé conchiuso, e anche se all'epopea di Gilgamesh non do­vessero far seguito opere scritte altrettanto significative, rimane pur sempre l'enorme riserva delle tradizio­ni orali dei popoli primitivi.

Di metamorfosi, infatti, che è il tema che qui ci in­teressa, in queste tradizioni ce n'è un'infinità. Potrem­mo passare tutta la nostra vita a raccoglierle e a met­terle in atto, e non credo affatto che sarebbe una vita mal spesa. Tribù che contano talvolta poche centinaia di esseri umani ci hanno lasciato una ricchezza che certo non meritiamo, poiché per colpa nostra quegli esseri si sono estinti o si stanno estinguendo sotto i nostri occhi, mentre noi li guardiamo appena. Essi hanno salvaguardato fino alla fine le loro esperienze mitiche e la cosa strana è questa: quasi nulla ci è utile e quasi niente ci riempie di speranza più di queste antiche e incomparabili creazioni poetiche scritte da uomini che sono finiti nella più amara miseria dopo essere stati da noi cacciati, truffati e rapinati. Gli uo­mini che noi abbiamo disprezzato per la loro modesta civiltà materiale e che da noi sono stati sterminati ciecamente e spietatamente, sono gli stessi uomini che ci hanno tramandato un'eredità spirituale inesauribi­le. Per il salvataggio di questa eredità non potremo mai ringraziare abbastanza la scienza; ma la vera sal­vaguardia di questo patrimonio, la sua resurrezione per la nostra vita, è compito degli scrittori.

Li ho già definiti i custodi delle metamorfosi, ma essi lo sono anche in un altro senso. In un mondo im­postato sull'efficienza e sulla specializzazione, che altro non vede se non le vette a cui mirano tutti in una sorta di angusta tensione per la linearità, che indirizza ogni energia alla fredda solitudine di queste vette e invece disdegna e cancella le cose più vicine, il molteplice, l'autentico, tutto ciò che non serve ad arrivare in cima, in un mondo che sempre di più vieta la metamor­fosi in quanto essa si pone in contrasto con il fine universale della produzione, che non esita a moltiplicare dissennatamente gli strumenti della propria autodistruzione e cerca nel contempo di soffocare quel po­co che ancora l'uomo possiede delle qualità ereditate dagli antichi e che potrebbe servirgli a contrastare questa tendenza, in un mondo cosiffatto, che siamo inclini a definire il più cieco di tutti i mondi possibili, appare di un'importanza addirittura cruciale che al-cune persone continuino malgrado tutto a esercitare questa capacità di metamorfosi.

Questo, secondo me, è il vero compito degli scrit­tori. Grazie a una capacità che una volta era di tutti e che ora è condannata all'atrofia, capacità che essi ad ogni costo hanno il dovere di conservare, gli scrittori dovrebbero tenere aperte le vie di accesso tra gli uomini. Dovrebbero essere capaci di diventare chiunque, anche il più piccolo, il più ingenuo, il più impotente. La loro brama profonda di vivere le esperienze degli altri non dovrebbe mai essere orientata dalle finalità che costituiscono la nostra vita normale e per così dire ufficiale, essa dovrebbe essere completamente esente dall'intento di ottenere successi o riconoscimenti, do­vrebbe essere una passione a sé stante, la passione ap­punto della metamorfosi. È chiaro che gli scrittori dovrebbero essere sempre pronti ad ascoltare, ma questo da solo non basta, perché oggi c'è un numero strari­pante di persone che quasi non sono più capaci di parlare e che si esprimono con le frasi dei giornali e dei mass media e sempre più dicono tutti le stesse cose, che pure in realtà non sono le stesse cose. Solo grazie alla metamorfosi, assunta nel significato più radicale che qui ho dato a questa parola, sarebbe possibile sentire ciò che un uomo è al di là delle sue parole, la vera sostanza di un essere vivente non è possibile coglierla se non in questo modo un processo enigmatico, di cui praticamente non è ancora stata esplorata la natura, eppure non c'è altra maniera di accedere davvero a un'altra persona. Si è tentato di definirlo in vari modi, si è parlato per esempio di empatía o immedesimazio­ne, ma per motivi che ora non posso esporre preferisco "metamorfosi", che è una parola più pretenziosa. Ma comunque lo si voglia definire, difficilmente qualcuno oserà mettere in dubbio che si tratti di un processo reale e molto prezioso. Sono dunque incline a ravvisare la vera missione dello scrittore nel suo esercizio ininterrotto della metamorfosi, nel suo bisogno strin­gente di calarsi nelle esperienze di uomini di ogni ti­po, di tutti, ma specialmente di quelli che sono meno considerati, nel far uso di questa capacità senza mai stancarsi e in un modo che non sia intristito o paralizzato da schemi preordinati. È attendilibiIissimo, anzi è probabile, che solamente una parte di questa esperien­za confluisca poi nelle sue opere. Il giudizio che su di esse verrà dato appartiene ancora una volta al mondo delle realizzazioni e delle vette che egli vuole raggiun­gere, e oggi non può certo interessarci, oggi non ci stia­mo occupando di ciò che uno scrittore tramanda ai posteri, ma di come dovrebbe essere uno scrittore, ammesso che ce ne fosse uno.

Se qui prescindo totalmente da ciò che si suol chia­mare successo, e addirittura ne diffido, ciò è legato a un pericolo che ciascuno conosce per averlo sperimen­tato di persona. L'intenzione di ottenere il successo, così come il successo in sé,hanno un effetto limitante.
Chi intraprende una certa strada con l'idea di raggiun­gere un obiettivo, sente la maggior parte delle cose che non servono ad avvicinarlo alla meta come un'inu­tile zavorra. Egli se ne libera per essere più leggero, noti può preoccuparsi del fatto che forse si sta libe­rando della parte migliore di sé, ciò che gli importa è il punto a cui è arrivato, a quel punto si libra verso un punto più alto, e il suo progresso lo misura a me­tri. La posizione per lui è tutto, è stata stabilita dall'esterno, non è lui che l'ha creata, e neanche ha preso parte alla sua genesi. La vede e cerca di raggiungerla, e per quanto un simile sforzo possa essere utile e ne­cessario in molti campi della vita, per lo scrittore come noi lo abbiamo in mente sarebbe solo uno sforzo distruttivo.

Questi, infatti, deve prima di tutto far posto in se stesso, sempre più posto. Posto per il sapere, di cui si appropria senza uno scopo preciso, e posto per gli esseri umani che conosce e accoglie in sé mediante la metamorfosi. Per quel che riguarda il sapere, egli potrà conquistarlo solo ripercorrendo nel loro niti­do profilo i processi che determinano la struttura più intima di ogni branca dei sapere. Ma nella scelta di questi campi conoscitivi, che possono essere fra loro assai difformi, egli non si farà guidare da regole ben precise, bensì da un'inesplicabile bramosia. Siccome si apre contemporaneamente alle persone più diverse e le capisce in un modo antichissimo e prescientifico, ossia mediante la metamorfosi, siccome per far questo è impegnato di continuo in un moto interiore che non deve affievolirsi e non deve cessare – giacché egli non colleziona le persone, non le mette ordinatamente da un lato semplicemente le incontra e le accoglie in se stesso come creature vive – e siccome infine riceve a esse dei violenti scossoni, non è affatto esclu­so che il volgersi improvviso a una nuova branca del sapere sia anche determinato da questi suoi incontri.

Sono consapevole della stravaganza di questa richie­sta, essa non può far altro che suscitare contestazioni. Sembrerebbe quasi che lo scrittore debba mirare ad accogliere in sé un caos di contenuti contrastanti e in lotta tra loro. A questa obiezione, che in effetti è molto seria, a tutta prima ho ben poco da rispondere. Lo scrittore è l'essere più vicino al mondo ogni volta che reca in sé il caos, e tuttavia egli sente la responsabilità di questo caos (è il tema da cui siamo partiti), non lo apprezza affatto, nel caos non si trova a suo agio, non si sente un fenomeno perché fa posto in se stesso a tante cose contraddittorie e sconnesse, quel caos lo odia e non rinuncia alla speranza di poterlo dominare per gli altri e dunque anche per sé.

Se vuole dire qualche cosa che abbia un certo valore riguardo al mondo in cui viviamo, lo scrittore non può né scansarlo né allontanarlo da sé. Ma essen­do il nostro mondo più che mai un caos malgrado tutti i piani e gli scopi che dice di perseguire, dato che con crescente rapidità sta percorrendo la strada dell'autodistruzione, lui, lo scrittore, dovrà recarlo in sé così com'é, e non lisciarlo e ripulirlo ad usum delphini, cioè ad uso del lettore. Nello stesso tempo non dovrà abbandonarsi alla mercé del caos e anzi, basandosi sulla propria esperienza, dovrà saperlo contrastare e opporre ad esso la forza impetuosa della speranza.

Ma che cosa può essere questa speranza, e perché mai essa ha un valore soltanto se trae alimento dalle metamorfosi che lo scrittore attua in se stesso, con gli uomini del passato grazie alle sollecitazioni derivanti dalla lettura, e coi contemporanei grazie alla sua di­sponibilità per il mondo attuale lo circonda?

Intanto c'è la potenza delle figure che lo hanno investito e che, una volta insedia ed in lui non cedono il posto. Sono figure che reagiscono attraverso di lui, come se di esse fosse fatto il suo essere. Queste figure sono la sua molteplicità, articolata e consapevole, e siccome vivono dentro di lui, rappresentano la sua resistenza alla morte. Già appartiene alle qualità dei miti tramandati per via orale che essi siano detti e ridetti. La loro vivacità è pari alla loro determinatez­za, ai miti è concesso di non modificarsi. Solo conside­randoli uno per uno si può scoprire in che cosa con­sista la loro vitalità, e forse ci si è soffermati troppo po­co sul perché debbano essere continuamente ripetuti.

Sono certo che si potrebbe descrivere senza difficoltà ciò che accade a una persona che per la prima volta si imbatte in un mito. Ma una simile descrizione par­ticolareggiata (se così non fosse non avrebbe alcun valore) oggi da me non dovete aspettarvela. Intendo sot­tolineare una cosa sola: il senso di certezza e di peren­torietà che si trae dal mito, esso è così e non potrebbe essere che così. Quale che sia il contenuto del mito di cui veniamo a conoscenza, per quanto inverosimile debba apparirci in altri contesti, noi nel mito non lo mettiamo in dubbio, qui esso assume una sua inde­formabile e irripetibile configurazione.

Questa riserva di certezze, gran parte delle quali sono giunte fino a noi, è stata adoperata per gli abusi più peregrini. Conosciamo fin troppo bene gli abusi che ne hanno fatto i politici; è tipico di queste basse strumentalizzazioni, che prendono a prestito il mito per deformarlo, annacquarlo e distorcerlo, resi­stere qualche anno ma poi esplodere. Strumentalizza­zioni di tutt'altra natura sono quelle operate dalla scienza, di cui nomino qui un solo esempio, partico­larmente clamoroso: si può pensare quel che si vuole del contenuto di verità della psicoanalisi, ma è chiaro che essa ha tratto buona parte della sua forza dalla parola "Edipo"; ebbene, le critiche più fondate che cominciano a esserle rivolte puntano le loro obiezioni proprio sull'uso di questa parola.

II rifiuto dei miti, che è un tratto caratteristico della nostra epoca, è spiegabile appunto in base ad ogni sorta di abusi che di questi miti sono stati fatti. Essi sono visti come menzogne perché se ne conoscono soltanto le strumentalizzazioni, e scartando queste si scar­tano anche i miti in quanto tali. Le metamorfosi che ancora essi testimoniano sono ritenute indegne di fe­de. Dei miracoli in essi narrati si crede soltanto a quelli che poi sono stati confermati dalle scoperte scientifi­che, senza pensare che ciascuna di esse ha nel mito il suo modello originario.

Ma ciò che a prescindere dai loro specifici conte­nuti costituisce la peculiarità dei miti è la metamor­fosi che in essi si attua. Grazie alla metamorfosi l'uo­mo è diventato quello che è. Grazie ad essa si è appro­priato del mondo, lo possiede in parte, e che alla me­tamorfosi egli debba il suo potere lo si ammette facil­mente, ma ad essa egli deve qualche cosa di più e di meglio, le è debitore della sua pietà.

Non ho timore di usare questa parola che appare fuori luogo ai professionisti di cose spirituali: essa è stata confinata, ciò che pure va ascritto alla specializ­zazione, nell'ambito religioso, l'unico in cui può essere nominata e adoperata. Bandita è invece dalle deci­sioni concrete della nostra vita quotidiana, che sempre di più sono determinate da elementi tecnici.

Ho detto che può essere scrittore solamente colui de sente la responsabilità benché magari nelle sue singole azioni egli la dimostri poco più di tanti altri. È una responsabilità per la vita che si sta distruggendo, e non bisogna vergognarsi di dire che questa respon­sabilità è nutrita dalla pietà. La pietà non ha alcun valore se viene proclamata come sentimento generico e indeterminato. Essa esige la concreta metamorfosi in ogni singolo essere che vive e che c'è. Nel mito e nelle opere letterarie che ci vengono tramandate lo scrittore apprende ed esercita la metamorfosi. Ma egli non vale nulla se non l'applica incessantemente al mondo che lo circonda. La vita che lo pervade mille volte, e di cui egli percepisce separatamente ogni singola manifestazione, non si compendia in lui in un mero con­cetto, gli dà l'energia di contraporsi alla morte e di attingere così a una sorta di universalità.

Non può essere compito dello scrittore lasciare l'u­manità in balìa della morte. Apprenderà con sgomen­to, lui che non si chiude di fronte a nessuno, che la morte sta assumendo in molti nomini un potere cre­scente. Anche se dovesse apparire a tutti un'impresa disperata, egli a questo si ribellerà, e mai, in nessun caso, sarà disposto a capitolare. Sarà suo vanto opporre resistenza ai banditori del nulla, che sempre più numerosi allignano tra i letterati, e suo vanto combat­terli con mezzi diversi dai loro. Lo scrittore vivrà secondo una legge che non è stata tagliata su di lui, ma è lo stesso la sua legge. Eccola:

Nessuno sia respinto nel nulla, neanche chi ci sta­rebbe volentieri. Si indaghi sul nulla con l'unico intento di trovare la strada per uscirne, e questa strada la si mostri ad ognuno. Si perseveri nel lutto e nella disperazione per imparare la maniera di farne uscire gli altri, ma non per disprezzo della felicità, che com­pete alle umane creature, benché esse la deturpino e se la strappino a vicenda.

Nota:

* Rendiamo qui con "scrittore" la parola tedesca Dichter (autore di opere letterarie in poesia o in prosa) perché in questo saggio Canetti, oltre che a se stesso, si riferisce prevalentemente ad autori di opere in prosa. [N. d. T.].


(Tratto dalla racconta di saggi La coscienza delle parole, Adelphi editrice, Milano, 1976. Traduzione di Renata Colorni.)


Elias Canetti
(Ruse, 25 luglio 1905 – Zurigo, 14 agosto 1994) č stato uno scrittore tedesco, premio Nobel per la letteratura nel 1981.

 

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