SCRIVERE SOTTO GLI SPARI DI RIO DE JANEIRO
João Paulo Cuenca
La settimana prima di andare a Madrid per la Fiera del Libro sono stato a una festa a Leme, quartiere del ceto medio di Rio de Janeiro. Ho passato parte del tempo sul terrazzo, con in mano un bicchiere di birra. Guardavo le finestre degli appartamenti dall'altro lato della strada e i piccoli rettangoli illuminati che mostravano le famiglie che mangiano, quasi tutte di fronte alla tv.
Poco dopo le sette di sera, lungo gli estesi sentieri tortuosi che separano le colline di Leme e Copacabana dal mare, si è cominciato a sentire degli spari. Prima esplosioni prodotte da pistole e subito dopo intermittenti spari di fucile. Il carioca medio è un vero esperto quando si tratta d’identificare il rumore prodotto dalle armi da fuoco: sa distinguere il suono dello sparo di una calibro 38, di una mitragliatrice antiarea, o di un AK-47, il fucile russo che da queste parti ha rubato la popolarità al vecchio AR-15.
A Leme, dove un appartamento nell’Avenida Atlântica può costare qualche milione di euro, c’è una favela in stato di guerra. Non contro la polizia, ma contro un’altra favela controllata da una banda rivale che intende invaderla. Quando c’è una sparatoria nella Zona Sud di Rio che si prolunga per più di dieci minuti, compaiono sulla scena gli agenti dell’ordine. E proprio questo è successo: sono arrivate delle vetture della polizia a grande velocità, con le sirene spiegate e i fucili ostentatamente puntati fuori dai finestrini.
Dentro gli appartamenti, fingiamo indifferenza al rumore degli spari e delle granate che cominciano a esplodere. La nostra ospite ci offre più birra, fa un commento grazioso (“ragazzi, oggi la festa finirà tardi…”) e aumenta il volume della musica per eclissare il frastuono inconveniente che arriva da fuori. Prima che quella si trasformi in una nottata alla Bunuel e interminabile, decido di disubbidire a tutti i consigli e di andarmene via da lì.
Per strada, camminavamo sotto le esplosioni e sotto la mira delle armi come se non ci importasse niente. Per distrarmi dagli spari, invento ossimori, scrivo hai-ku in silenzio, fischietto una sonata di Schubert, penso alla distanza che mi separa dalla donna che ho perso. Qualcuno abbandona la timidezza e corre per strada, ma la maggior parte di noi cammina piano, con la testa alzata, gli occhi fissi guardando in avanti. Altri bevono nei bar dove gli onnipresenti apparecchi tv trasmettono la replica di una partita di calcio.
Mi sono ricordato di questo episodio piuttosto banale a Madrid, dove partecipavo ad una tavola rotonda sulla Realtà sociale in America latina e il suo impatto sulla letteratura. In uno degli interventi si diceva che molti scrittori latinoamericani girano le spalle alla dura realtà dei loro paesi. Si è citato il termine “Belíndia”, creato dall’economista Edmar Bacha per definire il contrasto sociale in Brasile, e si è insistito sul fatto che qualcuno scrive come se vivesse in Belgio, dimenticandosi dell’India che esiste dentro il proprio paese, sfuggendo alla presunta responsabilità sociale della propria letteratura. (Nel caso di Rio, dove la disuguaglianza ha questa dimensione, diciamo, più bellicosa, si potrebbe parlare di “Beliraq”). Poi qualcuno ha chiesto, con un involontario senso dell’umorismo: Non sarebbe immorale che uno scrittore scappi via dal suo paese, dalla violenza del suo paese?
Prima di dire che chiedere responsabilità sociale e impegno morale a uno scrittore è lo stesso che sperare talento o capacità creativa da un prete, devo precisare che nei miei romanzi e racconti nessun personaggio ha mai patito la fame.
E inoltre, nessuno ha mai sparato dentro una favela.
Scrivo cronache per i giornali ormai da cinque anni, e sopravvivo a Rio de Janeiro già da trenta, e praticamente non mi sono mai occupato di questo tema. Potrei dire che questa è stata la prima (e forse l’ultima) volta. Non mi sento obbligato a farlo. Non sento di dover ritrarre niente che non sia parte del mio stravagante progetto letterario, il cui percorso è determinato esclusivamente da me, e fino ad oggi non sono mai stato influenzato da eventi volgari come una sparatoria. Per fortuna altri scrittori brasiliani contemporanei, come Sérgio Sant’Anna, Bernardo Carvalho, Joca Reiners Terron, Daniel Galera e molti altri tipi originali che potrei citare, condividono la mia stessa libertà di spirito. Quando scrivo, sono altrettanto straniero a Madrid quanto a Rio de Janeiro o a Parigi, dove mi trovo ora. Il Brasile, paese che amo e detesto in ugual modo, m’interessa solo nella misura della mia curiosità e delle mie cangianti ossessioni. Non devo niente al Brasile, e il Brasile non deve niente a me, oltre alle tasse.
Il più grande scrittore di quella nazione insulare, e uno dei più grandi del pianeta di tutti i tempi, si chiamava Machado de Assis ed era un carioca mulatto, discendente di schiavi. Per molti decenni è stato accusato di essere un alienato e un apolitico perché si crede che non si sia mai coinvolto nei problemi sociali del suo paese, ed eravamo nel periodo che precedeva l’abolizione della schiavitù. Sicuramente Machado de Assis non ha mai avuto bisogno di essere didattico o di scrivere pamphlet, cosa che purtroppo molte volte ci si aspetta da uno scrittore, soprattutto se viene dal Terzo mondo. Le contraddizioni di quella società però erano sempre presenti, e non potrebbe non essere così, in ognuna delle sue parole.
La libertà di non farsi protteggere da nessun ombrello folklorico o ideologico e di uscire in strada nel bel mezzo della sparatoria, scappando dalla frivola festa nella quale avremmo potuto rimanere, chiaramente non è stata una scelta di comodo. Tuttavia mi piace molto quella sensazione di sconforto, e credo che un’intera generazione di nuovi scrittori latinoamericani si stia occupando di narrarla, con la libertà di scrivere anche sui loro villaggi e sulle loro guerriglie. Non come scrittori latinoamericani, bensì come scrittori, punto e basta. Scrittori terrestri, se preferite.
Nel mio caso posso dire che non scrivo di spari, mai di spari, ma se sono sfortunato, lo farò sotto gli spari. Sia che questo si rifletta in modo esplicito o no nella mia letteratura o sulla mia salute mentale.
(Articolo tratto da El País, del 28 giugno 2008. Tradotto dallo spagnolo da Julio Monteiro Martins.)
João Paulo Cuenca è l’autore di Corpo presente ed è stato articolista del giornale O Globo.
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