MATTINO D’ETERNITÀ: FINE
– Brano tratto dal romanzo Il concerto dei pesci –
Halldór Laxness
Col finire dell’inverno, mio nonno Björn prese a svegliarmi all’ora del mattutino, ovvero tra le tre e le sei, perché lo aiutassi a sistemare le reti per il lompo nello Skerjafjörður. Quelle albe mi sono sempre vive nella memoria.
Che cosa accadeva? Non accadeva niente in realtà, tranne che il sole si preparava a sorgere. Le stelle raramente sono tanto luminose come al mattino, vuoi perché la vista è più acuta appena svegli, vuoi perché la Vergine Maria le ha lustrate per tutta la notte. A volte c’era anche la luna. Una minuscola luce era accesa in un casale sulla Álftanes, forse qualcuno era uscito a pesca. Spesso c’era ghiaccio e neve gelata, e il ghiaccio scricchiolava nella notte. Da qualche parte nell’infinita lontananza c’era la primavera, per lo meno nella mente di Dio, come i bimbi non ancora concepiti nel grembo della madre.
Il nonno aveva una barca grande e una piccola. Quella piccola veniva utilizzata per la pesca del lompo; era tirata a secco sul limitare dell’alta marea, davanti a un capanno dove tenevamo la nostra attrezzatura. Era facile metterla a mare, questa barchetta; vi rotolava quasi da sola se i rulli erano posizionati correttamente. Noi remavamo tra le rocce e gli scogli fino a dove erano messe giù le reti; a volte i gabbiani ci seguivano nella luce della luna. Le reti da lompo non si tirano normalmente, bisogna remare lungo tutta la loro lunghezza e arpionare il pesce con un crocco, o afferrarlo con le mani, infilate nei guanti. Io tenevo un remo fuori e mantenevo la barca in posizione, mentre il nonno usava il crocco.
Il nonno era sempre di buon umore e sempre ragionevolmente contento, ma mai realmente giocondo. Sapeva essere malizioso in modo innocente, e si divertiva a remare più veloce di me. Rideva, anche, se mi finiva del tabacco da fiuto negli occhi quando lui si faceva una presa, probabilmente perché gli sembrava che non fosse da maschio farsi vedere con gli occhi che lacrimavano. Non ho mai saputo a cosa pensasse, perché parlava per lo più in frasi stilizzate, sia del tempo che del pesce; ma in qualche modo sentivo che in presenza di uno come lui non poteva accadere nulla di imprevisto. Spesso pensavo tra me a com’era stato buono il Redentore a mandarmi quest’uomo per proteggermi e aiutarmi, ed ero deciso a rimanere con lui finché viveva, e a pescare per sempre i lompi con lui alla fine di ogni inverno. E speravo che Dio mi concedesse di non togliermelo prima che io stesso non mi fossi avviato a diventare vecchio quanto lui; e allora mi sarei trovato anch’io da qualche parte un ragazzino e l’avrei fatto uscire in barca con me fino alle reti, al mattino presto, quando le stelle sono ancora luminose, alla fine dell’inverno. Alla luce della luna i gabbiani parevano avere il petto d’oro. A guardare sotto il bordo si vedevano i lompi guizzare tra le alghe, nutrendosi; di tanto in tanto volgevano le loro pance rosate all’insù nell’acqua. A volte riempivamo sia il carretto a mano che la carriola di questo pesce grasso, e mentre le stelle cominciavano davvero a impallidire portavamo a casa il pescato attraverso i Melar. Prendevamo il caffè dalla nonna poi proseguivamo fino in città a vendere il pesce giusto per l’ora a cui la gente si alza. Il nonno fermava il carretto da qualche parte sulla piazza e la gente arrivava coi soldi alla mano per comprare pancerosse e saltaerba, mentre altri venivano solo a salutarlo e a discutere con lui del tempo. Spesso mi mandava a bussare ai clienti regolari con un fastello di lompi: di solito veniva ad aprire la domestica con il denaro pronto, ma di tanto in tanto compariva perfino la padrona di casa in persona, oppure, per qualche motivo incomprensibile, la figlia del padrone.
“Non sei tu quello imparentato con Garðar Hólm?” disse la bambina minuta inaspettatamente comparsa sulla porta di servizio di una delle case per prendermi di mano il fastello di lompi.
“No”, risposi.
“Ma certo che sei suo parente”, disse la fanciulla. “Sei tu quello a cui ha dato la moneta d’oro. Sono assolutamente sbalordita! Vendere lompi! Non sai che il saltaerba è un pesce volgare?”
Io non risposi.
“Allora non vuoi essere qualcuno, quando diventi grande?” chiese.
“Io sarò un pescatore, per quel che vi riguarda”, replicai.
“Un pescatore di lompi!” esclamò. “Non ti vergogni di te stesso? E con un parente del genere! Metti giù i lompi lì sui gradini, io non li tocco; sono come scorpioni di mare; proprio tu, che sei parente di un uomo famoso in tutto il mondo!”
“Devo avere i soldi per il pesce”, dissi.
“Io non ne ho di soldi”, disse la ragazza. “La domestica se n’è andata.”
“Ma io devo avere i miei soldi lo stesso”, protestai.
Quella rispose: “Be’, penso che puoi anche usare la moneta d’oro che hai avuto l’anno scorso, caprone.”
E con questo rientrò in casa sbattendo la porta, ma si affrettò a riaprirla per sbottare: “E spero proprio che fosse falsa.”
Poi sbatté di nuovo la porta e questa volta definitivamente. I pesci erano lì sul gradino. Li ripresi e li misi sulla carriola del nonno dicendo che non mi avevano dato i soldi. A essere onesto ero un po’ infastidito dal fatto che un così bel pesce grasso venisse maltrattato.
Quelle mattine in cui ci dedicavamo ai lompi nello Skerjafjörður, ed erano in realtà sempre la stessa e identica mattina, improvvisamente ebbero fine. Le stelle impallidirono; l’idillio si concluse.
Il nonno mi fece segno di tirare i remi in barca. La barca si fermò con la prua su un lastrone di pietra e i mucchi di alghe rosse fluttuavano avanti e indietro attorno allo scafo nel mare calmo, al sorgere del sole. Si avvicinava l’estate. Il nonno si fece una bella presa di tabacco da fiuto dalla tabacchiera e disse:
“Tua nonna mi ha parlato.”
Io rimasi in silenzio in attesa.
“Come sai, ragazzo mio”, disse, “noi non siamo davvero tuo nonno e tua nonna. Non siamo nonni di nessuno; non siamo nemmeno sposati. Siamo solo due vecchi bacucchi. Ma ho conosciuto la sorella di tua nonna, tanto tempo fa.”
“Non sapevo nemmeno che la nonna avesse avuto una sorella”, dissi.
“La sorella di tua nonna morì più di cinquant’anni fa”, proseguì il nonno. “Ma è in parte grazie a lei che tua nonna è con me. Ero molto affezionato alla buonanima della sorella di tua nonna.”
“Forse la nonna è venuta da te quando sua sorella è morta?” chiesi.
Lui rispose: “La sorella di tua nonna non è mai stata con me. E tua nonna era sposata e viveva all’est.”
Allora ricordai di colpo che la nonna una volta aveva detto di aver viaggiato da est sulle montagne, fino qui a sud.
“Ah, sì”, disse. “Già, già. Perse suo marito nella stagione della pesca primaverile. Finì in mare a Thorlákshöfn il giorno di Pasqua. E quindi non rimase nessuno.”
“Come, non rimase nessuno?” dissi. “Perché non rimase nessuno? Dove, dov’erano… gli altri?”
“Non rimase nessuno”, disse mio nonno. “Ha avuto tre figli, e le è toccato perderli tutti. L’ultimo dei figli giaceva sull’asse quando morì il loro padre. Aveva dato a tutti lo stesso nome. È sempre stata un po’ cocciuta. Si chiamavano tutti Grímur, come suo nonno. Molti bambini morivano qui in Islanda, a quei tempi. Se non era per qualcos’altro, era per la difterite. Ma quando morì il più piccolo, e lei perse anche il padre dei suoi figli, quella stessa Pasqua, be’, era scontato che dovesse lasciare la casa. Dato che anche suo marito se n’era andato, non c’era altro da fare, naturalmente. Così la invitai a venire qui a sud se voleva, perché io conoscevo un po’ sua sorella. E così fece fagotto e venne qui a sud.”
“Pensavo che la nonna non avesse mai conosciuto pericoli più grandi del Sogalækur”, dissi.
“Quando la tua povera madre voleva battezzarti Álfur, anni fa, ragazzo mio, tua nonna decise che anche tu dovessi chiamarti Grímur. Tant’è cocciuta. E per questo motivo non vuole che tu affoghi nel Sogalækur quando vai a prendere Gráni.”
“Cercherò di fare attenzione, nonno”, dissi.
Poi ricominciò: “Tua nonna mi ha parlato, appunto. Dice che secondo Helgesen, il maestro, saresti in grado di imparare. Vogliamo che tu abbia un’istruzione.”
“Perché?” chiesi.
“La sua gente in passato era tutta istruita”, disse.
“Allora che cosa mi farete fare?” dissi. “Non mi lascerai più uscire a pescare con te?”
“Stavamo pensando di mandarti a scuola, ragazzo mio, e farti imparare quello che chiamano latino. L’intenzione è che tu inizi in autunno, se ti ammettono. Sono andato a trovare il pastore Jóhann. Hanno già trovato uno studente universitario di Copenaghen disposto a prepararti. Stavamo parlando di farti cominciare domani.”
Io gli chiesi: “Allora non mi sveglierai domattina per andare a pesca?”
Lui rispose: “Tua nonna vuole il tuo bene, ragazzo mio. E anch’io, anche se sono ignorante.”
E dopo queste parole tirò i remi in barca, ci scostammo dalla roccia e remammo fino a riva.
Nella biografia di Stephan G. Stephansson si dice che quando il poeta nazionale era stato mandato a crescere in una famiglia del nord, a Skagafjörður, una volta in autunno aveva visto dei giovani cavalcare a sud dei monti, diretti a scuola, ed era rimasto talmente addolorato del suo misero destino di non poter andare a scuola e diventare un uomo dotto, che si era gettato tra l’erica lì in mezzo alla brughiera e aveva pianto per un giorno intero. Ho sempre trovato difficile comprendere questa storia: il pensiero di diventare uno studioso di latino non mi era mai passato per la testa, non ero mai rimasto colpito nel vedere gli studenti andare in giro con i loro libri consunti sottobraccio e di conseguenza non avevo mai desiderato mettermi nei loro panni. E adesso che mi avevano informato che avrei cominciato a studiare il latino, dentro di me mi sentivo come se il nonno mi avesse detto di diventare un suonatore di organetto o un arrotino – o uno di quella marmaglia girovaga che ogni tanto arrivava da noi in estate dalla Danimarca.
Per me fu come un fulmine a ciel sereno. Tutti i miei piani di vita eterna a Brekkukot erano distrutti. La mia gioia era infranta. La Grande Muraglia cinese, all’interno della quale io ero il Figlio del Cielo in persona, era stata violata; e non con uno squillo di tromba, ma con una sola parola. La cosa più amara era che fosse stato il nonno a pronunciare la parola che aveva demolito il nostro cancelletto girevole. Crollai. Non piangevo più da quando ero piccolo, perché noi di Brekkukot non piangevamo mai. Sentivo che niente avrebbe mai più potuto essere come prima. Continuai a remare con tutte le mie forze per tenermi al passo con il nonno, e continuavo a piangere. Quando arrivammo a riva mi disse:
“Ricordati, bambino mio, che devi prendere il posto di Álfur per tua madre e dei tre Grímur per tua nonna.”
(Brano tratto dal romanzo Il concerto dei pesci, ed. orig. 1957, traduzione dall’islandese di Silvia Cosimini, postfazione di Nicola Lecca, Iperborea, Milano 2007.)
Halldór Laxness (Reykjavik, 1902 – 1998) ebbe formazione cosmopolita, viaggiò in Europa e Usa, si convertì ventenne al cattolicesimo, provò a fare cinema, si sposò due volte e ebbe quattro figli. Scrisse poesie, articoli, opere teatrali, resoconti di viaggio, racconti e 51 romanzi. Nel 1955 fu insignito del premio Nobel per la letteratura. Tra le sue opere più famose, sono state tradotte in italiano Salka Valka, Gente indipendente, La campana d’Islanda, L’onore della casa.
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