IL FIGLIO DELLA LUPA

– Racconto tratto dalla raccolta Solleone di guerra

Paolo Buchignani




Vapori salgono dal fiume. Sull'argine umido di guazza l'uomo avanza lento. Ogni tanto si ferma, sospira, volge attorno lo sguardo. Poi riprende la marcia.

Ecco, ora s'è arrestato di nuovo. Fissa qualcosa: un cippo di marmo sormomtato da una croce. Sul cippo incisi due nomi e una data. Il vecchio si toglie il cappello e resta immobile, la testa bianca reclinata sul petto.


25 marzo 1944. Attendo. Attendiamo. Non arrivano. Spero non arrivino mai. Ma arriveranno. E allora che farò? Che faremo? Sbircio i commilitoni: undici facce, la mia faccia. Mi volto: il capitano è alle nostre spalle e accarezza lo sten.

Sui pioppi, lassù in alto, i passeri cominciano a svegliarsi. Trema il Serchio nelle brume dell'alba. Arriveranno di laggiù, ombre nel chiarore che sale dai rialti.

Fisso l'orizzonte: l'occhio sprofonda nella luce livida. Alla fine non la vede più: vede un bambino con le toppe al culo, la camicia rammendata sui gomiti. Il bambino stringe gli occhi, stringe le labbra, ma le lacrime scappano dalle ciglia e rigano le guance. Il piccolo è in piedi davanti al ritratto del Duce, il braccio alzato nel saluto romano. Da quanto tempo sta lì? Non lo sa. Il braccio trema, gli fa male, lui vorrebbe abbassarlo, soltanto un momento, ma non può, forse non vuole: il segretario lo sorveglia dal seggiolone della scrivania. E poi un “Figlio della lupa” è forte, un “Figlio della lupa” non si stanca e sopporta tutto come un soldato in guerra. E lui è un vero “Figlio della lupa” anche se non porta la divisa. Non la porta perché non ce l'ha e non ce l'ha perché sua madre è povera e non ha i soldi per comprarla.

Lo sa il segretario che la mamma è povera, che da sola deve mantenere cinque figlioli? Lo sa il segretario che la mamma si rompe la schiena tutto il giorno nei campi degli altri con la zappa e con la falce? Che lava i panni degli altri nell'acqua gelida della gora e nelle mani si aprono le ferite che non si chiudono mai? Lo sa il segretario che la sera lei conta i pochi soldi e fa i mucchietti sul tavolo di cucina? «Questi per il pane, questi per il latte, questi per l'olio…». Ma i soldi non bastano mai: la mamma si gratta la testa e si morde le mani.

Quando c'era il babbo era diverso, ma il babbo è volato in cielo con gli angeli.

Il segretario sa tutto, ma non sente ragioni: la divisa è la divisa e non si scherza: prima la divisa, poi il pane e il companatico.

Oggi il segretario è venuto a scuola. Tutti i compagni erano in cortile e marciavano con la divisa dei “Figli della lupa”. In classe un lupacchiotto solo, i calzoni con le toppe, a guardarli dalla finestra. Il segretario ha sgridato il lupacchiotto, l'ha strattonato, minacciato. Poi l'ha preso per un braccio e l'ha condotto alla sede del Fascio per punirlo: il lupatto ha giurato, davanti al Duce, che da quel giorno metterà sempre la divisa. Ma non basta: lì, dinanzi al Capo, il lupatto disubbidiente deve restare, in piedi, rigido nel saluto, tutto il tempo che il signor segretario riterrà necessario: la punizione deve essere esemplare: per il suo bene.

«Su lupatti, su aquilotti, come sardi tamburini, come siculi picciotti bruni eroi garbaldini…».

Anch'io – pensavo - sono un lupatto, un aquilotto come quelli della canzone, forte e coraggioso. Il Duce, un giorno, sarà fiero di me. Ne ero sicuro e lo guardavo negli occhi, il mio Duce: occhi di padre che tutto sa, che tutto comprende. Ma ero confuso, la testa mi ronzava, le gambe tremavano, il pianto saliva in gola. E l'attesa non finiva… Quanto tempo ancora? Il segretario, sullo scranno, fumava e taceva.

D'improvviso passi frettolosi sulla ghiaia, la porta si spalanca, una lama di luce squarcia la penombra. Mi volto: mia madre è lì, a due passi, alta, imponente, furiosa. È scalza, i capelli sparsi sulla faccia sudata, le maniche rimboccate, gli occhi di fuoco. Grida, s'avventa contro il segretario: un ometto panciuto contro la gigantessa inferocita. «Lo sbrana», penso.

È piccino piccino, il segretario, quasi sparisce dietro la scrivania, muto e giallo, schiacciato come un verme dalla massaia rurale, lupa orgogliosa e fiera, ch'è venuta a riprendersi il lupacchiotto rapito.

Quel giorno fu mia madre a interrompere l'attesa, a salvarmi dalle grinfie del segretario. Ma ora, da questa attesa, chi mi salva? Chi ci salva? Che faremo in quest'alba che puzza di morte?

Quando arriveranno, ammanettati, due ragazzi come me, come noi, diciannove anni: fucilarli, io sparare a loro: no, non posso, non ci riesco. Due renitenti alla leva di Salò, due del '25 come me.

L'ha pizzicati la Brigata nera per via d'uno spione. Li hanno portati a San Giorgio e poi hanno avvertito il Federale che stava in piazza San Michele al caffè Ridolfi. Ci sta a giornate intere, a bere, a fumare, a ingozzarsi di gelato. È la sua passione, il gelato. Quando lo gusta socchiude gli occhi e s'illumina: un'estasi, un rito da non turbare. I lucchesi crepano di fame e lui, ben satollo di carne, s'addolcisce la bocca col gelato. L'altro giorno, seduto a un tavolo sulla piazza, ne leccava uno con sommo piacere quando son venuti a disturbarlo:

«Che ne facciamo di quei due?»

Il Federale ha fatto un gesto di noia, ha addentato la crema, s'è leccato le labbra: «Fucilateli!».

In quel modo, con quell'aria avrebbe potuto dire: «Liberateli», oppure, «Offrite loro un gelato alla mia salute».

Al posto di quei due ragazzi potevo esserci io, davanti al plotone d'esecuzione tutti noi che ne facciamo parte, che ci stiamo per forza, minacciati dal mitra del capitano.

Anch'io ho ricevuto la cartolina-precetto e non mi son presentato, mi son dato alla macchia. Ma la fuga è durata poco: una sera, lassù, nella selva di Chiatri, è spuntato lo zio Gino. Arrancava, affannava in salita: «Hanno preso tua madre, in ostaggio, al tuo posto. È a Lucca, alla caserma Mazzini. Io ti ho avvertito, ma lei non voleva. Se ti presenti la rilasciano, ma lei non vuole ti presenti».

La solita lupa che protegge il suo lupacchiotto: passano gli anni, i capelli imbiancano, le forze calano: la lupa perde il pelo ma non il vizio.

Ora, però, il lupacchiotto è cresciuto: tocca a lui, questa volta, liberare la vecchia lupa.

Ho trovato mia madre in uno stanzone, seduta su una scranna, che sbucciava patate, una montagna di patate. Quando m'ha visto m'è saltata al collo e ha pianto; poi m'ha mollato un ceffone: «Cretino, perché sei venuto? Io stavo bene qui!».

Il milite alla mia destra mi dà un calcio. Mi scuoto: dalla pioppeta sono spuntati due della Brigata nera. Ciascuno trasporta una sedia. Le due sedie vengono sistemate a una trentina di metri da noi con la spalliera rivolta dalla nostra parte. Dalle spalliere pendono corde. I disertori saranno fucilati alla schiena.

È freddo, ma io sudo. Sudo e tremo. La testa ronza, le gambe vacillano.

Ora è comparso un prete, un vecchio prete gobbo con il crocifisso in una mano e il libro nell'altra. Poi tutti s'allontanano: restano le sedie vuote, ombre mute nel chiarore di ghiaccio.

E l'attesa continua: non trema una canna, non muove una foglia, non pigola un passero. Il fiume soltanto corre, corre…Laggiù, dal greto, sale un ronzio: la sola voce d'un mondo sospeso a mezz'aria.

Intanto, dai rialti, il sole comincia a spuntare, l'alba a tingersi di rosso. Ecco, ora, nel rosso, lontano, rosso di sangue, punti neri avanzano, ingrandiscono. Nere figure d'uomini che sbandano nella luce. Cinque uomini: due procedono innanzi, barcollano, s'arrestano, le mani legate dietro la schiena. Altri due li spingono, li pungolano, col mitra, con la voce. Al fianco dei prigionieri il prete gobbo che li conforta, li benedice, offre il crocifisso alle labbra tremanti.

Uno dei condannati è biondo, la pelle chiara, piange come un bambino, chiama la mamma. A un certo punto fa una mossa, tenta la fuga, ma lo rimettono in riga. L'altro è bruno, ha gli occhi asciutti e guarda nel vuoto: il suo corpo cammina, ma lui è altrove.

Hanno raggiunto le sedie. Il biondino si divincola, urla: «No, Nooo! Non voglio morire! Mamma! Mamma! O mamma!». Il prete lo accarezza, lo benedice.

Quelli della Brigata nera perdono la pazienza: uno lo colpisce alla testa col calcio dello sten, lo tramortisce, quasi. Una riga di sangue cola dalla fronte, lungo la tempia. Poi lo schiaffeggia per farlo riavere: dev'essere vivo e lucido dinanzi al plotone d'esecuzione.

Lo fanno sedere a forza, ma lui scalcia. Alla fine riescono a legarlo alla sedia.

Il ragazzo bruno si siede da solo, docile, la corda non serve. Muove appena le labbra: prega.

Il capitano ordina:

«Fuoco!»

Parte la raffica: foglie, rami, festuche piovono sui condannati illesi. Il plotone ha sparato sulle fronde dei pioppi.

«Fuoco!», ordina il capitano.

Un crepitare di colpi, un diluvio di rami e di foglie.

«Fuoco!».

La terza raffica si scarica più in alto contro i barbagli rossi del sole che nasce.

Il capitano s'infuria: ci pungola con la canna fredda dello sten. Minaccia:

«O sparate o sparo a voi!».

Ci guardiamo in faccia, ci diamo l'intesa.

«Fuoco!».

I fucili mitragliatori bersagliano le nuvole: una tempesta di colpi, senza tregua; fuochi d'artificio nel cielo dell'alba, fino all'ultima cartuccia.

Torna il silenzio, tornano i singhiozzi del biondino. Il capitano bestemmia ed estrae la rivoltella. A grandi passi raggiunge i condannati.

Chiudo gli occhi: uno sparo, un altro. Sobbalzo, stramazzo sull'erba, più morto dei morti.



( Questo racconto è tratto dal volume di Paolo Buchignani “ Solleone di guerra” , che uscirà nel maggio prossimo per i tipi dell'Editore Pagliai Polistampa di Firenze, con prefazione del regista Carlo Lizzani )




Paolo Buchignani, storico e scrittore, è uno studioso del '900 italiano, con particolare riferimento al periodo compreso tra le due guerre.

Collaboratore di "Nuova Storia Contemporanea", ha pubblicato numerosi saggi sulle avanguardie e sul fascismo. Tra i suoi libri: Marcello Gallian. La battaglia antiborghese di un fascista anarchico , Bonacci, 1984; Un fascismo impossibile. L'eresia di Berto Ricci nella cultura del ventennio , Il Mulino, 1994 (Premio Luigi Russo, '94); Fascisti rossi, Mondadori, 1998 (poi in Oscar Mondadori, 2007); La rivoluzione in camicia nera. Dalle origini al 25 luglio 1943 , Mondadori, 2006 (poi in Oscar Mondadori 2007).

Come narratore, segnalato da Romano Bilenchi e Geno Pampaloni, Buchignani ha esordito col libro di racconti L'orma d'Orlando (1992), a cui è seguito il romanzo Santa Maria dei Colli (1996).


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