LO STALLONE Brano tratto dal romanzo La veranda cieca
Herbjψrg Wassmo
Sin dal giorno in cui Ole Vaeret aveva detto che lei era uscita dalla fica di sua madre, a Tora
veniva il vomito pensando che la gente faceva cose simili...
Che la madre e Henrik.... O il pastore!
E che non ne morissero di vergogna, sapendo che gli altri sapevano!
II prete aveva cinque figli!
E anche Elisif, devota com'era ... anche lei si lasciava raggirare da Torstein, e così ogni anno ne arrivava uno nuovo!
Allora era meglio fare da sé e dimenticare il pericolo. Ma ciononostante, quand'era a letto nel buio della sua cameretta, le capitava di riflettere a lungo su come si facevano, tutte quelle cose che raccontava Ole.
Una volta era andata con Jørgen e qualche altro ragazzo a guardare i cavalli che giravano liberi nei prati dietro all'altopiano.
Lo stallone del pastore sembrava impazzito e aveva scavalcato il recinto in cui era rinchiusa la giumenta. Tora non capiva come il cavallo del pastore non sapesse comportarsi meglio. Ma neppure, stranamente, riusciva a distogliere gli occhi dalla scena.
Il membro dello stallone si era gonfiato e Tora percepiva il pericolo, misto ad un'eccitazione colma d'aspettativa.
Per qualche minuto i cavalli scorazzarono irrequieti per il recinto in preda all'agitazione. Quando capì che la cosa si faceva seria, Tora fece il gesto di coprirsi gli occhi col braccio. Ma avrebbe potuto risparmiarsene la fatica: nessuno si occupava di lei. Si erano tutti immobilizzati, a bocca aperta, con gli occhi lucidi fissi sull'uccello dello stallone.
Quando lo fece sparire dentro alla giumenta baia, lanciando un nitrito dalle narici frementi,
Tora vide senz'ombra di dubbio che al Jørgen di Elisif tremavano le ginocchia e che Rita si
passava la punta della lingua sulle labbra aride.
Di colpo Tora seppe che tutti, lì intorno al recinto, seguivano i movimenti ritmici dello
stallone, simili a quelli di una pompa, su e giù per la pancia della giumenta, e che tutti come lei sentivano quello strano senso di vuoto al basso ventre. Se ne stavano lì immobili, condividendo qualche cosa di cui erano incapaci di parlare, troppo imbarazzati per guardarsi.
Tora tentò di immaginarsi che cosa potesse provare la giumenta in quel preciso momento. Prima s'era immobilizzata fremendo, poi non s'era più mossa. Sembrava quasi lontana da tutto. Forse si vergognava? Doveva essere così!
Magari non le andava per niente a genio, che loro stessero lì a guardare. E doveva fare terribilmente male, con quell'enorme uccello gonfio dentro di sé.
No, non doveva neppure essere questo. Se no la giumenta non sarebbe stata così ferma. Tora si sentiva percorsa da ondate alterne di gelo e di fuoco.
Era come quando si faceva una lunga corsa, fino a sentirsi in gola il sapore del sangue, come giocare a nascondino nelle sere buie dell'autunno. Era quasi più fantastico che veleggiare sui lastroni di ghiaccio nella baia del Vàg.
Infine lo stallone si accasciò sulla giumenta, ansimando con le narici palpitanti. Poi sollevò di scatto la testa, facendo volteggiare la criniera nell'aria.
Esausto, si lasciò infine scivolare giù dalla groppa della femmina, seguito dall'uccello. Fu tutto troppo rapido per Tora. All'inizio aveva trovato la scena molto bella: lo stallone che scuoteva la grande testa bruna, la criniera al vento.
Ora sembrava quasi vergognoso, e vagamente inutile. L'uccello ballonzolava floscio e si ritirava davanti agli occhi dei ragazzi, sgocciolando un poco.
Rita non si mosse, continuando a fissare la scena coi grandi occhi celesti ancora spalancati molto dopo che tutto era già finito. Poi giunse l'esclamazione: Che maiale! Ha pisciato dentro alla giumenta!
Jørgen le lanciò uno sguardo di disprezzo, sputò lontano, e sbottò: Quello è sperma, non lo vedi, razza d'oca!, sigillando il tutto con un altro sputo.
Dopodiché tenne una breve conferenza sui fatti della vita. Ed Ole intervenne, dicendo che erano usciti tutti dalla fica della madre, e che non c'era proprio nulla di cui vergognarsi.
Però di queste cose non parlavano con gli adulti, e neppure li interrogavano su ciò che avrebbero voluto sapere.
Ma una volta, seduti sul muretto di pietra davanti alla chiesa, litigarono su quanto avevano veramente visto quella volta nel recinto del pascolo.
Jørgen insisteva nel descrivere l'uccello dello stallone come molto più grosso di quanto non fosse in realtà.
Rita gli dava del bugiardo e ne indicava le misure con le mani, ma Jørgen era irremovibile. Per finirla Jørgen la buttò giù dal muretto.
La cosa avrebbe potuto volgere al peggio se la piccola Lina, di solito silenziosa e riservata, non avesse improvvisamente detto che lei aveva visto un uccello vero, di un uomo.
Di colpo, tutti gli occhi si girarono verso di lei, in un'attenzione spasmodica. Le bocche si spalancarono, affascinate e sbigottite.
Ma va' là!, esclamò una voce incredula. E di chi era?, chiese Ole.
Questo non ho potuto vederlo. Però era blu.
Chi? L'uomo?, chiese Tora incredula.
L'uccello, scema!
Con aria di trionfo Lina sollevò il mento, mentre con una bacchettina toglieva il fango dalla suola degli stivali. Atteggiò le labbra a broncio, come il becco d'un passerotto, e lasciò vagare lo sguardo, senza volgere gli occhi verso di loro. Che razza di contaballe! Non ce n'è di blu, di quelli! Tu sei tutta matta.
Jørgen era indignato. Ole e le ragazze lo fissavano. Si resero improvvisamente conto che si sentiva offeso in nome della specie e che mai avrebbe tollerato di vedersi attribuire un uccello blu. Ole prese cautamente le parti di Jørgen, mettendosi contro Lina. Ma Lina non mollò:
L'uccello di un ragazzino non è la stessa cosa dell'uccello d'un uomo. Lo vuoi capire sì o no?
No, né Jørgen né Ole lo volevano capire.
Ma poi finirono per passare ad altro, perché ormai erano a corto di argomenti e in fondo l'interessante era parlarne, non litigare.
(Brano tratto dal romanzo La veranda cieca, Iperborea editori, Milano, 1989. Traduzione di Danielle Braun Savio.)
Herbjørg Wassmo , nata nel 1942 nel Nord della Norvegia, dove attualmente vive, si era dedicata unicamente alla poesia prima di trovare con La veranda cieca (Premio della Critica e duecentomila copie vendute al suo apparire nel 1981) la sua autentica vena di narratrice. Seguono poi altri due romanzi legati alla figura di Tora: La santa muta e Cielo a nudo , che le vale nel 1986 il Premio del Consiglio Nordico.
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